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Pannella Marco - 21 settembre 1985
Ma il codice deve essere rispettato
di Marco Pannella

SOMMARIO: Il termine del deposito delle motivazioni della sentenza di condanna di Enzo Tortora (quindici giorni) deve essere rispettato. Perchè invece si sostiene che il termine dei quindici giorni sarebbe ordinatorio mentre quello che impone alla difesa di presentare i motivi d'impugnazione della sentenza entro 20 giorni sarebbe invece perentorio? Se passeranno mesi prima del deposito, le motivazioni della sentenza diverranno un falso.

(AVANTI!, 21 settembre 1985)

Tutti, assolutamente tutti, a cominciare da chi stimo, da Melchionda a Galante Garrone, sembrano dare per scontato che si dovranno attendere mesi per avere il deposito delle motivazioni della sentenza (con rispetto parlando) della X Sezione Penale del Tribunale di Napoli, che si continua a denominare "contro la NCO".

Eppure il nostro codice di procedura penale è chiaro, o almeno sembra chiaro, l' 151 così recita: "Gli originali delle sentenze pronunciate in seguito al dibattimento sono depositati non oltre il decimoquinto giorno da quello della pronuncia".

Vorrei inoltre far notare che, secondo l'art. 201, i termini per la presentazione dei motivi di impugnazione scadono dopo 20 giorni.

E' chiaro, dunque, che il nostro legislatore ha inteso fissare - nella economia processuale - termini maggiori di riflessione e di elaborazione per l'impugnazione esercitanda della difesa rispetto ai termini massima previsti per trascrivere e depositare i motivi prescelti e elaborati in Camera di consiglio.

A Napoli (com'è non abbastanza noto) sono ancora in corso altri due "tronconi" di questo episodio di macelleria giudiziaria. Non so bene se riguardi la spalla o le interiora o la testa del corpo di questo mostro giuridico e civile, ma questo per il momento non importa. E' evidente per tutti che la sentenza intercorsa ha valore quasi di cosa giudicata, o rischia di averla, per la sorte degli altri cinquecento coimputati di Enzo Tortora (dieci anni e interdizione perpetua dai pubblici uffici), del fratello di Cutolo, Pasquale (assolto) e di La Marca (potente uomo politico campano; già sindaco di Ottaviano, assolto).

In questi due processi in corso, il dispositivo della sentenza contro Tortora ed a favore di Pasquale Cutolo e La Marca non potrà non pesare, non solamente per motivi psicologici, ma anche giurisprudenziali, in una situazione nella quale tutti si sono affannati nei giorni scorsi a rimproverarci con minore o maggiore eleganza di non aver atteso di conoscere le sue motivazioni, secondo quanto effettivamente sarebbe doveroso se ci si fosse trovati dinanzi ad un processo normale e non - a nostro avviso - inficiato da violazioni costanti del diritto e della manifesta prevenzione dei magistrati di tutte e tre le fasi del processo.

Sta di fatto, dunque, che le difese di cinquecento cittadini non potrebbero non esser diminuite e imbarazzate dal dover fare i conti sia con un giudizio sulla stessa materia processuale che di per sè ha valore di giurisprudenza, sia con una sentenza che direttamente interferisce sulle posizioni degli imputati in relazione al giudizio di attendibilità o inattendibilità delle acquisizioni istruttorie, delle accuse dei delatori o presunti tali, e delle loro personalità.

Se ci fossimo trovati in un processo tipo quello per il Vajont o altri con celebri e potenti imputati, sono certo che di già queste considerazioni sarebbero state avanzate sia dalla stampa degli specialisti che da quella laica. Invece, nulla.

Ora io so bene che i nostri magistrati, a quel che sembra unanimi, si sono cavati d'imbarazzo ed hanno affermato di fatto la loro indipendenza dalla legge (che rende molto insidiata la loro indipendenza di legge) decretando che i 15 giorni indicati dalla norma dell'art. 151 devono intendersi come "ordinatori" e non "perentori", cioè poco meno di una balla da ridicolizzare nei fatti dopo averle reso omaggio nelle parole, mentre "perentori" restano i termini di 20 giorni assegnati alla difesa per il deposito delle sue ragioni, ma saper questo non fa che aiutarmi a rafforzare la mia convinzione che anche i migliori fra i nostri magistrati e operatori del diritto non si rendono affatto conto di quanto essi abbiano sempre più sostituito con un codice di procedura penale materiale il codice di procedura penale scritto, seguendo l'esempio della classi politica cui si riferiscono anch'essi ogni volta che fa comodo, per scaricargli addosso anche le proprie responsabilità.

Ma il problema resta ed è inaccettabile la soluzione adottata.

Nel corso di questi "mesi" le motivazioni diverranno certamente non quelle scritte durante la Camera di consiglio o da trascrivere in forma corretta per il loro deposito, ma quelle - arricchite dalla lettura delle polemiche, delle critiche, delle conversazioni, delle letture successive. Si tratterà insomma di un vero e proprio falso ideologico, autorizzato, a tacer d'altro. So benissimo che tutto questo sarà accusato di semplicismo e di partito preso e che le cattive coscienze dei migliori li porteranno spesso (spero non tutti) a trovare conunque qualche altra critica contro di me e di noi. Ma non per questo posso tacere, anzi proprio per questo il mestiere di radicale diventa un dovere da assolvere, com'è stato quando con i compagni socialisti abbiamo ottenuto che la difesa dibattimentale non fosse totalmente e ulteriormente mutilata, o quando abbiamo insieme ed a nostre spese denunciato e ottenuto che in qualche misura si correggesse la parzialità ignobile o scandalosa di alcuni cronisti giudiziari n

ella falsificazione sistematica delle verità processuali.

Occorre quindi che le motivazioni della sentenza siano depositate entro quindici giorni dalla lettura del suo dispositivo.

Mi auguro che le difese "tecniche" non ce ne vorranno troppo per questa difesa e affermazione dei loro diritti e, anche, forse, dei loro doveri.

E' l'ora di rispondere ad un certo modo di giudicare, di esser magistrati con l'esigenza urgente e determinata di non accettare altro confronto che fra soggetti alla legge indipendenti e liberi nel rispetto della legge e per la forza della legge. Tutti.

E non si creda che qui arbitrariamente si estenda a fatto generale un fatto, un problema, un comportamento straordinario ed eccezionale.

Basta evocare qui il fatto che tutti i nostri giudici, ormai, ritengono "ordinatorio", cioè - lo ripeto - una balla, il rito direttisimo prescritto perentoriamente dal nostro codice per i reati di diffamazione a mezzo stampa. Si realizza qui un fatto di gravità immensa. Il diritto all'immagine ed alla proprio identità della persona, fondamento dei diritti dell'uomo e della nostra costituzione, rispettato pienamente sul piano rituale anche in epoche fasciste o peggiori della attuale, viene così praticamente vanificato. Il "quarto" potere - quello della stampa e dei mass media - diventa in tal modo praticamente assoluto. In pratica, senza accorgersene, l'ordine giudiziario (e non: il "potere giudiziario" che Montesquie e la nostra costituzione ignorano e indirettamente "vietano") realizza così un obiettivo "pactum sceleris" con il "potere giornalistico", con una realtà di ricatto reciproco, di patologia del processo, che ormai sta diventando mostruosa se si pensa che abbiamo, nei reati di diffamazione, pr

oscioglimenti in istruttoria sommaria o formale, quando la legge prescrive l'istruttoria pubblica contraddittoria di tipo dibattimentale.

E se qualcuno, amante dell'orrido, volesse divertirsi, sarebbe consigliabile che ricercasse, per esempio, a Napoli, nei palazzi di "Giustizia", l'intreccio incredibile di procedimenti a carico di politici, di magistrati, di giornalisti, e i tempi di attuazione o di insabbiamento dei procedimenti stessi, per avere un affresco che farebbe invidia alla fantasia di Goya o dell'espressionismo germanico di questo secolo.

Anche su questi aspetti della realtà giuridica e civile italiana - mi sembra - il Parlamento dovrebbe indagare, se non vuole vedere sempre di più la sua funzione e le sue responsabilità totalmente vanificate. "Anche", scrivo. Perchè l'indagine proposta nel luglio dal PR e dal PSI ha da farsi, e alla fine si farà.

 
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