di Marco PannellaSOMMARIO: Con la cessazione delle proprie attività il Partito radicale richiama gli altri partiti a riflettere seriamente su quanto sta avvenendo in Italia. Esso agisce come il nonviolento che, digiunando, offre emblematicamente al nemico la propria debolezza, affidandosi alla sua coscienza, divenendo più esile perché il corpo che deve funzionare è quello dell'altro.
(Notizie Radicali n· 156 del 5 giugno 1986)
Intanto credo che un buon metodo da tenere presente, ed io lo farò in modo implicito, è quello di attenersi al testo che contiene le ragioni e le finalità espresse di quella decisione che stiamo discutendo. E cioè, della decisione presa dal nostro partito di mettere tecnicamente, quindi politicamente, in condizione il nostro congresso di novembre di stabilire una cessazione delle attività del partito con e per le ragioni dette nella risoluzione. Sono queste le ragioni dette necessariamente dal partito dal 79/80, in modo particolare già quando decise di presentarsi nel 76 dichiarando che eravamo costretti a presentarci perché si trattava dell'estrema trincea sulla quale dovevamo arrestarci per garantire alcune cose.
Per il momento noi stiamo operando perché il congresso ha dato mandato al partito di proporre un progetto di cessazione delle attività in relazione a delle osservazioni precise e esplicite elencate nella risoluzione e dicendo che noi non possiamo ignorare che l'impossibilità dell'esercizio dei diritti democratici si traduce, e non può non tradursi, non nel rischio, ma nella certezza di dare un crisma di legalità alla liquidazione antidemocratica e non democratica dei valori e delle proposte che noi tentiamo di fare al Paese e che il Paese ignora perché non lo raggiungono. Come nel fascismo, come nel comunismo, così in questo fatto nuovo -che è conseguente al nuovo statuale e statale che l'Italia ha prodotto per il mondo negli anni 30 e che è lo Stato corporativista, organato in un certo modo e sul quale a Bologna ho parlato per molte ore sentendo un profondo bisogno di farlo- trova la sua espansione, il suo straripamento come logica delle cose incontrollabile e divora se stesso. Ma si tratta dello stato corp
orativista, con la sua tendenza al monopartitismo che deve essere necessariamente imperfetto -e quindi pseudo democratico- per riuscire ad aderire alla complessità della nuova società, alle trasformazioni che sopravvengono e di conseguenza alla necessità di un nuovo diritto, che sia esso in realtà un non diritto, grossolana espressione dei reali rapporti di forza esistenti in una società data in cui quello che è detto o fatto dal più forte, anche se è, di volta in volta, tutto e il contrario di tutto, è ciò a cui viene conferita la materiale caratteristica di diritto. (...)
Chiunque è soggetto passivo di questa situazione non ha altro diritto da esercitare che quello di inchinarsi, di andarsene o di trovare altri modi per restaurare il diritto, colpire l'usurpatore e rimettere in circolazione le diverse possibilità di opzioni. Condizione questa che è il fondamento, dobbiamo ripeterlo a tutti, della democrazia.
Se è vero che i partiti usurpano la legge e i poteri dello Stato che cosa si fa? Cosa fa il cittadino, cosa fa una forza politica quando i poteri dell'istituzione sono messi fuori legge? Cosa si fa Bobbio, cosa si fa Galante Garrone, ma che cosa si fa Gigi Melega o Mario Signorino?
La Ferrari radicale
(...) Si dice che c'è il carburatore della Ferrari radicale che deve essere cambiato. per contro non si capisce che, lungo la strada, ci sono dei tronchi d'albero, dei blocchi di cemento e che, quindi, la Ferrari non può procedere.
Ma c'è uno dei viaggiatori che, pur avendo visto il blocco, continua a sostenere che il problema sia nel carburatore: picchia in testa al conducente e fa in modo che la macchina divenga il luogo di prigionia.
Il problema è che bisogna abbandonare l'avere e cioè la forma dell'essere radicale poiché così come è diventa la tomba. Certo, chi sostiene che bisogna abbandonare la Ferrari ha, all'inizio, difficoltà ad aggregare poiché i primi luoghi abitati sono lontani, sono al di là del tiro di clacson e del tiro di voce, e mentre si continua a stare fermi e si usano molto sia la batteria che il clacson la macchina si scarica.
E mi volete dire, in questa situazione in cui, se anche noi togliamo un albero per farci varco e subito ne vengono messi altri, qual è la forza aggregatrice di Mario Signorino o di Gigi Melega, di questa cultura nella quale si passa il tempo a dire che il problema è il carburatore? Non si aggrega in questo modo, si disgrega. E, se mi consentite, bisogna avere la capacità di un minimo di analisi politica.
Ma chi può sostenere che, in questo partito, la gente è venuta perché c'era a guidare la Ferrari un conducente piuttosto che un altro? Ma, perché, con umiltà, non cambiate un poco i criteri? C'è un fondo di antidemocrazia nella cultura di Melega e degli altri che è spaventoso perché, per loro molto più che per i giornalisti e per coloro che non ci capiscono, che il segretario sia stato eletto al 60-70%, che almeno gli ultimi cinque congressi non siano stati d'accordo con chi sosteneva la necessità di cambiare le persone e i metodi, non conta nulla.
Anzi, si fa la polemica nei confronti degli eletti a cui si chiede di tradire la mozione per la quale sono stati votati e il loro metodo politico perché, per essere umili e democratici, dovrebbero adottare i metodi degli altri e le mozioni sconfitte in Congresso...
In un partito autoritario, in un partito totalitario la violazione della legge è una caratteristica tipica. In un partito libertario, fondato sulla responsabilità, se le poche regole del gioco fissate in comune sono rispettate spontaneamente vuol dire che quella forza è storicamente viva e proponibile e può pensare all'esterno. Ma quando scoprendo che, chi non rispetta le regole libertarie, ha il premio della notorietà e della prima pagina -poiché chi non rispetta le regole da libertario si comporta da pentito e, giustamente per le stese ragioni per le quali contro la criminalità camorristica si premia il pentito, si evidenzia la criminalità radicale- si premia colui che si pente della propria adesione alle regole libere e responsabili.
Sto parlando di una dinamica della comunicazione che mette in prima pagina, premiandole, queste logiche.
La verità è che quanto più noi abbiamo una semiologia positiva tanto più questa viene deturpata. Tutto ciò che viene prodotto ma che potrebbe avere fatto chiunque, la legge sugli zoo per esempio, passa e ha molte adesioni. Le cose tipicamente radicali, quelle che -come scrisse Baget Bozzo- »sono le parole di una minoranza politica che esprime ed organizza una maggioranza sociale , che è la caratteristica storica di noi radicali, le cose che fanno parte della civiltà esistente, che noi interpretiamo e a cui diamo la pericolosità esplosiva della agibilità e della forza politica, quelle non passano.
Quanto più noi siamo portatori di un messaggio in sé buono, tanto più questo messaggio non passa.
Oggi, nella cronaca radicale, anche chi fra i giornalisti ci è amico, ci chiede perché dal nostro partito si sia per esempio, distaccato Roccella, Crivellini e Signorino. Però, in termini di cronaca, è giusto tacere o non ricordare che questi dissensi iniziano nel momento in cui avrebbero dovuto dimettersi? Ma a costoro viene data dignità politica nonostante il dissenso sia esploso solo per tenersi i soldi e il mandato e da allora abbiano cessato di fare politica.
Torniamo dunque a quello che noi diciamo; c'è una cultura dell'informazione, un sistema scientifico che ci abroga. Se l'inviato scrive esattamente di noi, possono accadere due cose: o che il titolo negherebbe ciò che è scritto nel testo oppure il pezzo verrebbe emarginato. Si ha, invece, un titolo su sei colonne solo quando, nel pezzo, sono usati quegli aggettivi, apparentemente neutri, che servono per screditarci.
C'è dunque una divaricazione fra la serietà e l'importanza dell'informazione e la censura dell'informazione che noi sperimentiamo.
Opportunamente Melega ha ricordato che il partito ha dato segnali di scelta al regime e di mutazione di se stesso a se stesso, fin dalla campagna per lo sciopero del voto dell'80. E' un processo crescente fino alle elezioni dell'83 in cui il Partito radicale decise che non concorreva alle elezioni per il parlamento repubblicano poiché questo non c'è e depositava le liste perché era l'unico modo per far conoscere al paese le proprie analisi politiche.
Per queste ragioni gli eletti sarebbero stati militanti del partito e Roccella ci spiegava, con magnifica retorica e oratoria, che chi dissentiva prima si dimetteva e poi avrebbe espresso le proprie ragioni. Rimproverava a me e agli altri di avere una gestione un po' lassista, un po' troppo tollerante nei confronti dei deputati. Nell'anno in cui questo accadeva Crivellini era tesoriere, ovvero l'uno bis di queste decisioni... Inoltre non c'è dubbio su quello che hanno deciso i congressi e i consigli federali successivi. E cioè che esistono delle impossibilità di collaborare da nonviolenti, da libertari e da laici con delle strutture di usurpazione e di illegalità; che le si usa senza venirne usati; che non si dà loro il riconoscimento e l'onore che, pure, si danno alle istituzioni nemiche che siano legali e legittime e rispettose delle regole del gioco.
A questo punto, abbiamo detto, sciopero del voto, non c'è più parlamento repubblicano, non votiamo, cioè rafforziamo le nostre caratteristiche. Quanta gente ha potuto capire questo? Sempre di meno. E ciò che veniva fuori era che soltanto Melega votava. I radicali, tutti gli altri, che non votano non ci sono: esiste, per la stampa, solo Melega. L'unico modo per fare sapere che noi non votiamo è quando si può dire che Melega, che è buono, vota e che gli altri, imbecilli, non lo fanno.
I tempi politici della cessazione
Mauro Mellini ci dice, giunti a queste conclusioni, che l'»attività di cessazione è anche un brillantissimo gioco di parole ma vuol dire semplicemente che abbiamo decretato la nostra morte e null'altro.
Non è vero. Noi vogliamo solo evitare che, divenendo il partito radicale cadavere come gli altri partiti, perda la sua caratteristica di non puzzare. Certamente, tanto più si protrae la cessazione tanto più ciò equivale ad una chiusura. Perciò vorrei che coloro i quali sono d'accordo con la cessazione si ricordassero del fattore tempo e del fattore durata.
La cessazione delle attività del partito protratta per molto tempo equivale, con certezza, alla chiusura così come l'assenza di democrazia protratta per molto tempo, e non denunciata in quanto tale e non posta come fatto nuovo e pregiudiziale per la conquista di un'alternativa democratica, ne determina la perdita definitiva e conclusiva.
Ed è quello che il partito radicale con tutta la prudenza e la saggezza, la lentezza di un partito democratico, per tre quattro e più anni ha indicato a se stesso ed agli altri come un degradare ed aumentare delle misure della tecnica nonviolenta, con la caratteristica gandiana di riconoscere ciò che è fatto bene e disorientare l'avversario.
C'è chi opera perché questo partito esista, e questa è nella nostra accezione l'intendenza. Ed io ne faccio parte e sono in grado, giorno per giorno, di seguire la strada che mi viene indicata dai »politici puri se questi me la indicano.. Però, se vogliamo che chi non è un tecnico del diritto sia stimolato a riflettere su che cosa può essere la cessazione, i tempi tecnici, i rischi, credo che il modo migliore di informarlo e di informarci, sia la laicizzazione della riflessione su ciò che il diritto può consentire di praticare o può costringere a praticare.
Dunque, quando dico attività di cessazione, parlo dei tempi e di cosa comporta. Se prendiamo la lettera della risoluzione dei punti F e G possiamo comprendere che se arrestano, per esempio, il presidente e il direttore della Rai-Tv, l'evento è così rivoluzionante che si riapre e si rimette in gioco tutto... Se Natta e Almirante pigliano la tessera radicale... C'è un dato di paradosso, di provocazione intellettuale.
Ma è vero che il paese è pieno di avversari politici che oggi cominciano a fare l'apologia del partito radicale e delle persone del Pr, non solo Flaminio Piccoli, ma da ogni parte, tranne il Pci. E' quindi immaginabile che in tempi politici la frase »i radicali se non ci fossero bisognerebbe inventarli che è un argomento cresciuto talmente da secondare la pigrizia espressiva della gente, sia probabilmente vera. Ed è quello che cerchiamo di fare capire da nonviolenti. E allora non è folle pensare alla cessazione. Il segretario del partito parla degli stati generali, di coloro che vogliono indicare le cose necessarie perché il regime non si suicidi; perché, cioè, la partitocrazia si salvi nella democrazia e non ignori questo attraverso l'evento delle richieste radicali, che sono tanto disinteressate che -così come il nonviolento offre emblematicamente al proprio nemico la propria debolezza affidandola alla sua coscienza, divenendo più esile, perché il corpo che deve funzionare è quello dell'altro- così i radi
cali dicono »guardate, per quello che ci riguarda ci richiamiamo alle esigenze, alle necessità, ai vostri stessi presupposti. Tanto è vero che noi deperiamo, facciamo »un digiuno di nutrimento politico e cioè, facciamo fuori la nostra capacità di congiuntura. Ma state attenti che se la congiuntura del digiuno e della sete supera un certo limite, diventa -non perché il radicale se lo augura, inevitabile chiusura".
Ecco quindi che il tempo per una politica di dialogo e di nonviolenza è il corollario necessario della durezza e della intransigenza, della solidità di una giusta intelligenza e di una posizione forte intellettualmente, ma che gli attuali sistemi non consentono di socializzare. La cessazione è esattamente l'equivalente del digiuno a tempo indeterminato e ad oltranza perché è legato al verificarsi di quegli eventi e li mette sul piano della vita fisica ed individuale del digiunatore radicale e nonviolento.
Vi è un momento supremo di contraddizione nel digiuno poiché il nonviolento che non è mai certo che nel secondo successivo morirà ha insieme al dovere, in questo caso non antisocratico -ma antisegmento »la cicuta si beve - il problema di non avere mai la certezza che quello sia l'ultimo momento vivibile.
Vita e morte del partito
Ora però, il dovere che insorge per la persona non insorge per il corpo politico e, per noi laici, è improprio parlare di vita e di morte rispetto ad esso. Quindi sospendiamo il linguaggio analogico poiché vita e morte si usano solo riferite alle persone. La sacralità della vita è tale se la disancoriamo semanticamente da quell'inflazione di linguaggio in cui vita e morte è applicata praticamente a tutto.
Quindi così come non è stato un momento sacro per la storia, e neppure per noi, quello in cui abbiamo dato forma giuridica al partito radicale, allo stesso modo il giorno in cui dovessimo essere anche giuridicamente portati a chiudere, non farà questo un problema di morte.
Anzi, si onora la vita non accettando questa equiparazione, questa dignità di persona del corpo collettivo, e cioè dell'associazione giuridica, che è il partito.
Quindi dobbiamo usare questa forza e questa nudità renderla sempre più chiara. Questo partito, che non ha consiglieri comunali, provinciali, che scopre che può non avere neppure gli scrutatori, che scopre che deve avere dei deputati della Repubblica, sempre per le stesse motivazioni diventa sempre più magro, sempre più essenziale. E, la forma dell'avere, necessario per l'essere, corrisponde in gran parte morfologicamente allo scarno suo essere con tutta l'agilità e anche la felicità possibile.
E allora dobbiamo capire come, perché è doveroso, questo elemento dell'intransigenza che diversamente ci obbliga alla cessazione, diventa un elemento di acquisizione comunicata.
E non certo a livello di massa, poiché il regime è riuscito a compiere un rovesciamento di realtà storica, cioè è riuscito a rendere completamente impermeabile la possibilità per la gente di conoscere e quindi di amare o di detestare e di giudicare nella sua effettività il Partito radicale nelle sue decisioni e nei suoi obiettivi.
Ma nello stesso tempo per logica consapevole delle cose, oppure no, mai come oggi in realtà il radicale nel Palazzo è stimato, ascoltato dagli abitanti del Palazzo. Non a caso chi fa cerniera tra il Palazzo la piazza il carcere, i giornalisti e i magistrati, sono quelli necessariamente più esposti sul fronte antiradicale. I politici non più.
Quello che c'è, ed è molto importante, è che dobbiamo scomparire perché sono pronti a riceverci anche come indipendenti... sappiamo che esiste la possibilità di fare i deputati, i sottosegretari, i ministri con tre quarti dell'arco parlamentare.(...)
Allora a noi non ci resta che giocare come nei momenti più felici la carta del digiuno della sete sapendo che sarà necessario ai mass media di fare quello che facevano allora quando mostravano in Tv, nonostante l'ufficiale giudiziario li diffidasse dal farlo, la vecchia foto pasciuta del »digiunatore al 5· giorno della sete , serio e rigoroso, drammatico e sul punto di divenire tragico, così come la scienza confermava, allo scopo di rendere ridicolo insieme il nonviolento e il suo gesto.
(...) Io spero che il consiglio federale si renda conto che esistono delle difficoltà e che la via della cessazione intransigente -come il digiuno onesto, e quindi duro- è una via percorribile. Drammatica ma percorribile e che va percorsa sapendo, fin dall'inizio, che sicuramente penseranno che nottetempo, come ladri, ci mangiamo gli spaghetti.
Io spero che questa strada della cessazione, che dobbiamo riuscire a percorrere con integrità, ci porti a fare scattare quelle possibilità che sono scattate in passato grazie all'iniziativa politica nonviolenta e alla drammaticità portata avanti con rigore e con serenità. (...)