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Miggiano Paolo - 15 settembre 1986
L'ITALIA E LA CORSA AL RIARMO (7) La politica di sicurezza italiana
di Paolo Miggiano

IRDISP-ISTITUTO DI RICERCHE PER IL DISARMO, LO SVILUPPO E LA PACE

SOMMARIO: Va bene la corsa al riarmo, ma che c'entra l'Italia? Non sono gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica i promotori di tale corsa? Che le due superpotenze siano i principali responsabili della corsa al riarmo è vero. I principali, ma non gli unici. Anche l'Italia ha la sua parte di responsabilità. Minore, ma non trascurabile. In cifre assolute la spesa militare dell'Italia è stata nel 1985 l'ottava al mondo. Quanto al numero di uomini alle armi siamo tra i primi quindici. E tra gli esportatori mondiali di armamenti, gli italiani figurano nei primi sei posti. Il peso del settore militare sul complesso dell'economia italiana è ancora piuttosto contenuto: la spesa assorbe il 2,7% del prodotto interno lordo; le armi rappresentano il 2,7% della ricchezza prodotta dall'industria e il 2,3% delle esportazioni. Inoltre le minacce militari alla sicurezza dell'Italia sono meno gravi di quelle che si trovano a fronteggiare numerosi altri attori internazionali - compresi molti nostri alleati. Siamo quindi in una sit

uazione che offre molte opportunità di contenimento della spesa, di sperimentare conversioni al civile delle produzioni militari, di promuovere una politica di sicurezza realista e distensiva. Sfortunatamente queste opportunità non vengono colte. Al contrario nell'ultimo decennio s'è affermata la tendenza all'espansione che è urgente arrestare. E' dalla metà degli anni '70, infatti, che l'Italia comincia a figurare tra i principali esportatori di sistemi d'arma, e che la spesa militare supera i tassi di crescita annuale concordati in sede NATO. Ed è sempre in quelo periodo che cominciano a farsi sentire i sostenitori di un "nuovo ruolo" militare dell'Italia nel Mediterraneo. Il "Libro bianco", presentato dal ministro della Difesa Spadolini nell'inverno 84-85, sintetizza e mette a punto questi sviluppi, ovviamente dalla parte di chi li ha sostenuti e si augura che proseguano. Questo volume, invece, fa emergere i dubbi, gli interrogativi, le proposte alternative rispetto a quello che sinora è stato un monologo

dell'establishment.

("L'ITALIA E LA CORSA AL RIARMO" - Un contro-libro bianco della difesa - a cura di Marco De Andreis e Paolo Miggiano - Prefazione di Roberto Cicciomessere - Franco Angeli Libri, 1987, Milano)

4. LA POLITICA DI SICUREZZA ITALIANA

di Paolo Miggiano

1. Introduzione

Nel corso degli ultimi dieci anni la politica militare italiana è profondamente mutata. Le spese militari, come mostriamo in altra parte di questo volume, sono significativamente aumentate. A partire dal 1979 queste maggiori spese sono corrisposte ad una serie di missioni militari nell'area mediterranea. Inoltre, sempre a cavallo degli anni '80, sul piano del confronto militare Est-Ovest l'Italia ha assunto un ruolo determinante per l'attuazione del programma di riammodernamento delle forze nucleari di teatro della Nato.

Il primo paragrafo di questo capitolo descrive questo processo di crescente dinamismo militare, le sue contraddizioni ed ambiguità. Un'attenzione particolare viene dedicata alle sollecitazioni del principale partner dell'Alleanza atlantica, gli Stati Uniti, per una maggiore responsabilizzazione militare degli alleati europei e in particolare dell'Italia.

Il secondo paragrafo è dedicato all'analisi del "Libro Bianco" (Lb) della Difesa, presentato verso la fine del 1984. Il Lb costituisce il bilancio ufficiale che la Difesa fa delle esperienze dei primi anni '80, delineando nel contempo una politica di sicurezza per i prossimi anni. Pur non esente da vecchie e nuove ambiguità e reticenze, il Lb prospetta una risposta credibile a diverse contraddizioni della precedente politica militare. Una risposta a nostro parere pericolosamente velleitaria, che non è stata oggetto della necessaria attenzione.

Il terzo paragrafo è dedicato all'emergere, particolarmente negli ultimi due anni, della minaccia terroristica di matrice arabo-islamica. Vengono valutati gli sviluppi recenti dell'attività terroristica, le sue cause e il suo uso da parte di alcuni stati come strumento militare. Viene anche analizzata la scelta dell'amministrazione Reagan di dare una risposta militare agli stati ``mandanti'' del terrorismo, i risultati di questa scelta, nonché i pericoli che questa strategia militare antiterroristica porta alla sicurezza regionale e mondiale.

Nell'ultimo paragrafo si tenta di delineare una politica di sicurezza per l'Italia rispondente alle realistiche minacce e capace di promuovere la distensione sia nei rapporti Est-Ovest che in quelli Nord-Sud.

2. Il dinamismo militare degli ultimi dieci anni

Nei venticinque anni successivi al secondo conflitto mondiale le forze armate italiane avevano assolto una funzione bellica marginale. In caso di invasione da Est il loro ruolo era quello di resistere alcuni giorni prima dell'arrivo dei rincalzi dagli Stati Uniti e/o dell'inizio dell'escalation nucleare. Un ruolo di tutto rilievo era stato invece affidato loro nel ``contenimento interno'', come garanti contro una possibile insurrezione comunista, collegata o meno ad un attacco da parte del Patto di Varsavia. Un ruolo che aveva ravvivato una funzione di deterrenza interna, antipopolare, storicamente assunta per lunghi periodi dall'Esercito postunitario (1). Un ruolo che, a prescindere dall'effettivo concretizzarsi dell'ipotizzata insurrezione comunista, era stato utilizzato dal governo e dalla destra come momento di pressione e di intimidazione contro le lotte operaie e le svolte democratiche, e che aveva fornito un fertile terreno per il coinvolgimento delle forze armate nella strategia della tensione e nell

e trame golpiste (2).

Verso la fine degli anni '70 la convergenza di una serie di fattori internazionali ed interni spinge verso la modifica di questo ruolo. Vi è un maggiore interesse dell'amministrazione americana Nixon-Ford (1969-1976) per un maggiore impegno europeo, che è una diretta conseguenza degli sviluppi della guerra americano-vietnamita.

Il sostegno all'avventura in Vietnam comporta per gli Stati Uniti un crescente impiego di risorse economiche ed umane. Alla necessità di uomini viene fatto fronte con la reintroduzione del servizio di leva e con il trasferimento di unità dal teatro europeo. A questo maggiore impegno fa riscontro una sempre minore disponibilità degli americani a sostenere i costi economici ed umani di una guerra ritenuta se non ingiusta, perlomeno sbagliata. Molti dei giovani richiamati disertano ed espatriano (nel 1973, alla fine del conflitto, sono mezzo milione), il Congresso pone vincoli sempre più pressanti sulle spese, sulle armi chimiche, sull'utilizzo delle forze armate fuori dai confini. Questi condizionamenti interni diventano elementi fondanti della politica militare dell'amministrazione Nixon-Ford: un ridimensionato impegno militare diretto, la riscoperta della diplomazia, una maggiore responsabilizzazione degli alleati. La nuova formula ``più difesa con meno pericoli per vite americane e meno spese per il contrib

uente degli Stati Uniti'', comporta necessariamente un maggiore impegno di amici e alleati.

Nel 1970 la Nato lancia un programma di ammodernamento delle forze militari europee (che non riuscirà pero a far aumentare i bilanci militari europei nella misura prevista). A questa richiesta di un maggiore impegno finanziario gli Stati Uniti affiancano misure di sostegno allo sviluppo di industrie belliche nazionali. Con queste misure, ricorda Melvin Laird, segretario alla Difesa dal 1969 al 1973, gli alleati ed amici degli Stati Uniti ``sarebbero stati più capaci di rispondere alla crescente minaccia alla propria sicurezza a livello di conflitti locali e regionali'' (3).

Queste sollecitazioni per un maggior ruolo di difesa da minacce esterne degli alleati europei, tra cui l'Italia, si affiancano a nuove tendenze emergenti tra militari italiani. Agli inizi degli anni '70 giunge ai vertici delle forze armate un nuovo gruppo di alti ufficiali. Li accomuna il rifiuto di un ruolo da superpolizia interna e la ricerca di un ruolo più legittimato dal paese, più propriamente bellico, tipico dei militari dei paesi industrializzati. Alla ristrutturazione dello strumento militare in funzione dei nuovi obiettivi si accompagna l'emarginazione progressiva dei gruppi neo-fascisti e un rapporto più rispettoso verso il parlamento, nonché una spinta al superamento della separatezza dalla società civile. E' dal mondo dell'industria, con cui i militari sono a diretto contatto per lo sviluppo e la produzione di armamenti, che vengono mutuati alcuni valori portanti delle nuove forze armate: nasce ``l'azienda difesa che produce il bene sicurezza''. Per svolgere un credibile ruolo bellico moderno i

nuovi militari ``tecnocrati'' propongono modifiche dello strumento militare, delle dottrine operative e l'acquisizione di nuovi sistemi d'arma.

Nel 1975 viene approvata la legge speciale che stanzia mille miliardi per l'ammodernamento dei mezzi della Marina. Due anni dopo seguono le leggi di ammodernamento per l'Esercito e l'Aeronautica, per altri duemila miliardi. Se l'obiettivo generale dei programmi è una maggiore sicurezza rispetto alle minacce esterne, la definizione di queste ultime non è omogenea. Nei programmi di ristrutturazione dell'Esercito e dell'Aeronautica vi è l'implicito riconoscimento che la minaccia verso cui è necessario riattrezzarsi è quella costituita da una possibile invasione del Patto di Varsavia, a cui far fronte assieme agli altri paesi Nato. Una minaccia militare rispetto alla quale i militari debbono (per quanto li riguarda) predisporre le necessarie difese. Una concezione di sicurezza che, al di là di critiche a singoli aspetti o sistemi d'arma, corrisponde ad una maggiore capacità di difesa militare del territorio nazionale.

Diversa la concezione di sicurezza che sostanzia l'ammodernamento della Marina (4). Le minacce che la Marina identifica nel Mediterraneo sono solo in parte minacce militari legate al confronto Est-Ovest. Sono anche minacce a ``vitali interessi nazionali'' di natura economica, come il libero flusso dei rifornimenti energetici, le attività della pesca, i diritti di sfruttamento del fondo marino. Questi vitali interessi nazionali possono essere intaccati da ``conflitti minori e instabilità locali'' che escono dal quadro del confronto Est-Ovest. Rispetto a queste minacce la Marina rivendica un ruolo di stabilizzazione nelle zone ``di nostro più diretto interesse'', cioè ``i paesi nord-africani e mediorientali''. Si tratta di un compito che la Nato (per le sue caratteristiche geograficamente delimitate) non può e che l'Europa non è in grado (secondo la Marina) di svolgere. Un compito quindi, che la Marina italiana pensa di svolgere da sola, che comprende non solo azioni ``dissuasive'' ma anche ``preventive'', che

giustifica la costruzione di una portaerei e dei mezzi da sbarco previsti nel proprio piano di ammodernamento. In sintesi, la sicurezza promossa dalla Marina corrisponde ad una proiezione nazionalistica della forza militare lontano dai confini per risolvere contenziosi anche non militari, più che ad una migliore difesa contro minacce militari nel Mediterraneo in collaborazione con gli alleati.

Il programma di ammodernamento della Marina è anche una risposta alla crisi euro-americana avvenuta nel 1973, nel corso della guerra arabo-israeliana dello Yom Kippur. In quell'anno, per rifornire di armamenti Israele, gli Stati Uniti chiedono agli alleati europei di poter utilizzare le loro basi. A loro volta i paesi arabi minacciano un embargo petrolifero verso i paesi europei nel caso questi acconsentano alla richiesta americana. I governi europei decidono di negare agli Stati Uniti l'utilizzo delle proprie basi. Per il governo italiano si tratta di una misura legata alla diversità dei nostri interessi nazionali da quelli degli Stati Uniti. Diversi interessi economici, in quanto sia l'Italia che l'Europa - al contrario degli Stati Uniti acquistano nei mercati arabi la maggior parte del petrolio di cui abbisognano. Ma anche diversità di valutazione politica sulla situazione mediorientale. Una politica, come spiega nel 1974 l'allora ministro degli Esteri Aldo Moro, che riconosce lo stato d'Israele, ma che r

ichiede il ritiro dello stesso dai territori occupati dopo il 1967. Per la Marina quella del 1973 sembra essere stata invece una scelta obbligata, un ricatto subito per la mancanza dei mezzi militari necessari a contrastarlo; mezzi che ci si propone di acquisire con il programma di ammodernamento.

Nessuno pero, né a livello di governo o della classe politica, pare preoccuparsi troppo della divaricazione potenziale tra politica estera e politica militare o delle diversità d'impostazione delle tre forze armate. Passato il momento di crisi ognuno va per la sua strada. Ogni forza armata intenta a sviluppare sistemi d'arma e dottrine per la ``sua'' sicurezza. La politica estera prosegue sulla strada della soluzione politica delle tensioni mediorientali, in particolare della questione palestinese. Le esportazioni militari seguono la logica dei massimi profitti e della vendita indiscriminata nel Terzo mondo. D'altronde, nella seconda metà degli anni '70, l'attenzione delle forze politiche è tutta rivolta ai problemi interni del paese. A sinistra, la fine del periodo di ingerenza delle forze armate nella politica interna apre una fase in cui sembrano esistere soltanto questioni ``tecniche'' e di ``efficienza'' prive di ogni spessore politico. Proposte anche interessanti, come quella di una diversa strutturazi

one della difesa ispirate ai modelli svizzero e jugoslavo (5), ricevono una tiepida e vaga simpatia da alcune forze e personaggi politici, ma vengono rifiutate decisamente dal maggiore partito d'opposizione (6).

Verso la fine degli anni '70 nuovi avvenimenti pongono l'Italia nelle condizioni di giocare un ruolo militare più significativo. Ancora una volta il maggiore stimolo proviene dal governo americano e dalle politiche militari adottate dalle amministrazioni Carter e Reagan.

Con la nuova amministrazione Carter (1977-1980) la responsabilizzazione degli alleati, una scelta quasi obbligata per la precedente amministrazione, diventa un obiettivo programmatico. Nel 1978-79 la Nato adotta un nuovo piano per aumentare la forza di dissuasione nucleare e convenzionale in Europa. Il Ltdp ("Long Term Defense Program") prevede l'installazione di nuovi missili nucleari di teatro ("cruise" e Pershing 2") e un incremento annuo dei bilanci militari dei paesi Nato del 3%, per un periodo di dieci anni (nel 1985 il Comitato piani difesa della Nato ha prolungato l'impegno fino al 1992).

Ma la richiesta americana di un maggiore impegno europeo è più ampia. Altre richieste derivano dalle crescenti preoccupazioni per l'area del golfo Persico, conseguenti ai mutamenti avvenuti nell'Asia centrale e sud-occidentale alla fine degli anni '70. Il crollo del regime dello Scià in Iran, a seguito della rivoluzione islamica, porta con se la disgregazione della Cento (alleanza militare tra Gran Bretagna, Stati Uniti, Pakistan, Iran e Turchia). Alla perdita dell'alleato persiano si aggiunge l'invasione dell'Afghanistan da parte dell'Unione Sovietica, che viene vista da Washington come primo passo di un progetto di espansione globale, diretto, tra l'altro, ad assumere il controllo della zona economicamente strategica del golfo Persico. Area che risulta ulteriormente minacciata dallo scoppio del conflitto Iran-Irak.

In previsione di un'incursione sovietica nell'area del Golfo il governo americano appronta una serie di misure operative. La sede del comando delle forze navali americane in Europa (Cincusnaveur) viene spostato da Londra a Napoli, dove già si trovava la sede del comando delle forze alleate dell'Europa meridionale (Cincsouth). Le due forze, americana e Nato, vengono poste sotto il comando di un solo ufficiale americano. Viene costituita la "Rapid Deployment Force" (Rdf), una forza di rapido impiego per l'area del golfo Persico, diretta da un comando centrale (Uscentcom, "United States Central Command") anch'esso creato ad hoc. La Rdf è costituita da varie unità che, in caso di crisi nel golfo Persico, verrebbero trasferite e poste a disposizione del comando centrale. Agli alleati europei gli Stati Uniti chiedono in primo luogo di prepararsi per sostituire le unità americane in Europa assegnate alla Rdf. Si tratta, per quanto riguarda l'area mediterranea, di una parte della 6ª flotta, che viene spostata nell'O

ceano Indiano. Si tratta anche dell'unico battaglione aerotrasportato di fanteria americana dislocato in Italia ("1st Battallion, 509th Airborne Infantry Combat Team"), trasformato in elemento avanzato della 82ª divisione aerotrasportata, la punta di diamante della Rdf. Dal 1980 l'impegno Nato per la sostituzione delle unità americane diventa operativo.

Agli alleati gli Stati Uniti chiedono anche la disponibilità dell'uso delle loro basi e infrastrutture necessarie allo spiegamento della Rdf. La risposta della Nato a questa richiesta è un sì condizionato: i singoli paesi si riservano di fornire le basi valutando caso per caso la situazione. Vi è infine, da parte americana, una tendenza ad associare tutta l'Alleanza o singoli paesi nelle sue operazioni ``fuori area'', cioè esterne all'area geografica coperta dal Trattato del Nord Atlantico. Infatti, secondo il parere del comandante della Nato Alexander Haig, espresso nel 1980 in un'audizione al Congresso americano, la Nato avrebbe ``confini arbitrari''.

Con l'avvento dell'amministrazione Reagan (1981) mutano natura ed obiettivi del rapporto con gli alleati. Caratteristica fondamentale della politica militare della nuova amministrazione è l'unilateralismo, tanto a livello dei piani di riarmo nucleari quanto di quelli convenzionali, tanto verso gli avversari quanto verso gli alleati, tanto nella definizione di nuove strategie quanto nella maggiore propensione all'intervento militare diretto. Cambiano anche, rispetto alla precedente amministrazione, le percezioni della minaccia e le strategie e strumenti necessari a fronteggiarla. Carter aveva costruito con la Rdf una grande forza reattiva per fronteggiare un'incursione russa nell'Asia sudoccidentale. Con l'amministrazione Reagan invece maggiore spazio viene dato a minacce minori, e in particolare a quella terroristica. La responsabilità della minaccia terroristica viene addossata, alcune volte con fondamento e altre senza ombra di prove, a tutti gli avversari degli Stati Uniti: dalla Libia al Nicaragua, dal L

ibano all'Unione Sovietica, dalla Siria alla Corea del Nord. Così viene costruito sia un quadro strategico relativamente omogeneo, sia una nuova legittimazione per l'uso della forza contro minacce minori. Inoltre, ogni confronto locale può diventare parte di un confronto globale con l'Unione Sovietica, spesso definita (senza prove) come il centro della rete terroristica mondiale.

Tra gli scenari di conflitti locali il Mediterraneo ha un posto di rilievo. Nel 1983 l'ammiraglio William J. Crowe Jr., ex-comandante delle forze alleate dell'Europa meridionale e attuale capo dello stato maggiore congiunto americano, dichiara: ``Un inventario dei punti di instabilità e di potenziale crisi nel Mediterraneo porta alla conclusione che una seria minaccia alla pace della regione Sud, e forse di tutta la Nato, non è ristretta all'Europa, ma è collocata anche ad est e a sud dell'area di tradizionale interesse e responsabilità della Nato'' (7). Col nuovo unilateralismo e la nuova strategia dell'amministrazione Reagan, antichi e recenti elementi di oggettiva ambiguità, derivati da una non chiara delimitazione tra comandi e forze Nato e comandi e forze americane, creano le condizioni più per un coinvolgimento coatto degli alleati nelle decisioni americane che una loro maggiore responsabilità nella propria difesa.

A cavallo degli anni '80 l'Italia inizia ad assumere un ruolo nella politica militare nettamente più significativo del passato, tanto in campo nucleare che a livello convenzionale.

Nel corso del 1979, con l'approssimarsi della fase di installazione dei nuovi missili nucleari di teatro "cruise" e "Pershing 2", la Nato vive una situazione di stallo. Mentre la Gran Bretagna mantiene fermo il proprio appoggio all'installazione nei tempi previsti, il Belgio e l'Olanda propongono un rinvio. La Repubblica Federale Tedesca subordina la propria accettazione dei missili alla condizione di non essere il solo paese europeo continentale ad assumere questa posizione. L'appoggio italiano all'installazione diventa così determinante per la definitiva approvazione, a Bruxelles, dello spiegamento degli euromissili. A sostenere questa decisione del governo contribuisce il Partito socialista fornendo il suo sostegno in sede parlamentare. Ed è anche grazie a questa scelta che, nel marzo 1980, il Ministero della difesa viene affidato, per la prima volta nella storia della Repubblica, ad un socialista: Lelio Lagorio.

Al ruolo decisivo svolto dall'Italia nella decisione di ammodernare le forze nucleari intermedie della Nato non corrisponde pero né un dibattito, né una conoscenza approfondita delle questioni relative alla strategia nucleare ed al controllo degli armamenti. Se quest'ultima espressione è quasi sconosciuta nella cultura italiana (8), le motivazioni di strategia militare che il governo e la Difesa pongono a sostegno dell'installazione degli euromissili sono di un semplicismo sconcertante (in riferimento alla portata del problema). Si tratterebbe più o meno di riconquistare una condizione di parità con il Patto di Varsavia, istallando un numero di "cruise" e "Pershing 2" pari a quello degli SS-20 dislocati dall'Unione Sovietica a partire dal 1977. Lo scarsissimo dibattito strategico che ha preceduto e seguito questa scelta fa pensare che essa sia stata assunta per motivi differenti da quelli militari, cioè per ribadire una fedeltà politica e ideologica agli Stati Uniti, e magari come "moneta di scambio" per un

trattamento di favore a livello politico o economico.

Indicativo del basso livello di "coscienza nucleare" delle autorità politiche, cioè della loro scarsa conoscenza del "valore d'uso" delle armi nucleari, è la questione della ``clausola della dissolvenza''. Più volte nel corso del suo mandato il ministro Lagorio dichiara che l'Italia ritiene valida la clausola della dissolvenza, per la quale non si esclude, in relazione all'esito delle trattative, l'interruzione del programma di dislocazione dei missili. Invece, nel comunicato finale con cui il Consiglio atlantico della Nato approva il 12 dicembre 1979 l'installazione degli euromissili, non vi è nulla che auspichi l'annullamento della decisione presa. Da nessuna parte si parla della clausola della dissolvenza, né dell'opzione zero e neanche di una adesione parziale dell'Italia, condizionata da una clausola di dissolvenza adottata in ambito nazionale. Nonostante la clausola della dissolvenza non sia altro che un auspicio, tuttavia essa viene presentata dalle autorità politiche e accettata dai media come un att

o effettivo di politica militare. Una formula che avrà una fortuna inversamente proporzionale alla sua consistenza. Nel marzo 1984 il ministro della Difesa Spadolini dichiara ``solennemente'' al parlamento che ``la clausola della dissolvenza conserva il suo pieno significato'' (9), per cui l'Italia ``non esclude, in relazione all'esito delle trattative, non solo l'interruzione del programma di dislocazione dei missili... ma anche il ritiro dei missili già installati''. D'altronde anche da parte delle forze che si oppongono agli euromissili le motivazioni strategiche e di sicurezza sono secondarie rispetto a quelle politiche o ideologiche (ad es. ``la volontà riarmista dell'imperialismo americano''). Indicativa a questo proposito è la poca, se non nulla, attenzione dedicata dai pacifisti alla natura di arma nucleare di teatro dell'aereo Tornado, criticato quasi esclusivamente per i suoi alti costi economici.

Si distinguono peraltro, nei due campi, anche posizioni più attente agli aspetti di sicurezza. Nel novembre 1983 il segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer chiede al governo di dilatare i tempi d'installazione dei missili mentre ``nel contempo da parte sovietica non solo dovrebbe essere congelata l'attuale situazione, ma si dovrebbe procedere allo smantellamento di una parte degli SS-20'' (10). Anche nella Democrazia cristiana emergono, accanto a ipotesi di nazionalismo nucleare, posizioni diverse. Così, se nel 1982 il sottosegretario democristiano alla Difesa Bartolo Ciccardini propone di dotarsi di armamenti nucleari nazionali (11), nel 1983 il deputato Manfredi Bosco, responsabile del dipartimento stato e istituzioni della Dc, afferma che ``si dovrebbe pervenire ad uno scenario nel cui contesto siano presenti solo forze convenzionali (equilibrate ad un livello più basso di quello attuale) e le forze del deterrente nucleare basato sui sottomarini'' (12). Nella stessa direzione di un non totale a

ppiattimento sulle scelte dell'amministrazione Reagan vanno anche alcune dichiarazioni, peraltro estemporanee e subito corrette, del presidente del Consiglio Bettino Craxi. Nel settembre 1983, durante una visita a Parigi e Londra, Craxi dichiara che sulla data d'installazione dei missili ``non ne faremo una questione di orologio'' e aggiunge che la richiesta sovietica di conteggiare le forze nucleari franco-inglesi ai fini delle trattative ha una sua validità. Nel maggio 1984, nel corso di una visita in Portogallo, Craxi propone che, alla ripresa dei negoziati di Ginevra, le due superpotenze sospendano le installazioni di missili sul territorio europeo. Affermazioni che mostrano perlomeno un barlume di maggiore sensibilità italiana (rispetto all'amministrazione Reagan) per la trattativa sul controllo e la riduzione degli armamenti nucleari. Purtroppo questi barlumi di coscienza nucleare non fanno primavera. Nel marzo 1984 diventa operativo a Comiso il primo gruppo di sedici missili "cruise". Nei primi mesi d

el 1985 entra in linea il secondo gruppo.

Dal 1980 in poi il bilancio militare italiano mostra indici di aumento ancora più marcati che nel quinquennio precedente. Non avendo da sostenere i costi di un armamento nucleare autonomo, questo aumento va messo in relazione al potenziamento della capacità bellica convenzionale. Dal 1979 al 1984 le tre forze armate hanno compiuto sei missioni militari all'estero, di cui cinque nella regione mediterranea. Nello stesso periodo una gran parte delle esercitazioni ha riguardato la capacità di rapido spostamento di reparti dal Centro-Nord al Sud. Sempre al Sud sono state costituite "ex novo" o trasferite dal Nord unità dell'Esercito, dell'Aeronautica e della Marina. Nuovi poligoni militari sono stati aperti o potenziati nei Nebrodi (Sicilia) e nel tavoliere delle Puglie. In parallelo alla programmazione operativa le autorità politico-militari hanno dedicato una crescente attenzione alla minaccia da sud e sostenuto la necessità di un nuovo modello di difesa.

La questione della minaccia da sud è ovviamente collegata alle già citate sollecitazioni dell'amministrazione Carter per un maggiore appoggio degli alleati Nato ad un possibile intervento nel golfo Persico. Queste sollecitazioni pongono chiare scelte agli alleati. Fino a che punto esaudire la richiesta per un maggiore impegno ``fuori area''? Solo sostituendo i vuoti che il decremento della presenza americana lascia nel dispositivo di difesa Nato? O fornendo anche le basi per l'impiego della Rdf? Oppure fino ad affiancare nelle operazioni proprie unità militari a quelle americane? Per un altro verso la minaccia da sud è collegata alle sollecitazioni della Marina per la proiezione della forza militare nella difesa degli ``interessi economici vitali'' dell'Italia. Una spinta all'impegno diretto fuori area che ha premesse simili a quelle americane, ma che ha - come abbiamo visto - carattere nazionalistico. Anche questa pressione pone problemi. Fin dove si estendono gli interessi vitali da difendere militarmente?

In quale quadro si svolgeranno gli interventi fuori area? Nel quadro Onu o fuori di esso? Con quali obiettivi? Le risposte a queste domande delineano le diverse combinazioni della oscillante politica militare italiana, caratterizzata dal doppio binomio di realismo e velleitarismo, subalternità e indipendenza dall'alleato americano. Una politica militare che passa e ripassa disinvoltamente tra tutti i possibili quadri definiti dal doppio binomio sopracitato. Cioè una politica di volta in volta velleitaria e subalterna, velleitaria e indipendente, realista e subalterna, realista e indipendente; un andamento erratico che negli ultimi anni mostra pero una tendenza a restringersi, limitandosi ad oscillare tra il velleitarismo subalterno e quello indipendente. Ai nodi sopra indicati se ne aggiunge un altro, ben più di fondo: l'Italia è disposta ad accettare come legittimo l'intervento militare offensivo per la risoluzione di controversie economiche e instabilità locali? La volontà dei due ultimi ministri della Di

fesa di non esplicitare chiaramente questo obiettivo, pur perseguendolo gradualmente, conferisce al dibattito italiano sulla sicurezza un carattere confuso, contorto e ambiguo.

La gestione Lagorio (marzo 1980 - agosto 1983) del Ministero della difesa sembra improntata, almeno inizialmente, al realismo e all'indipendenza. All'invito americano del giugno 1980 per una partecipazione italiana ad una forza multinazionale per mantenere aperto lo stretto di Ormuz (golfo Persico), Lagorio risponde negativamente. Gli "Indirizzi di politica militare" (13) che il ministro presenta quello stesso mese al parlamento sembrano, a prima vista, rendere programmatica la scelta compiuta. La minaccia da sud viene identificata con il rafforzamento della potenza aeronavale sovietica nel Mediterraneo, rispetto alla quale, anche per il possibile decremento della presenza americana, bisogna attrezzarsi. A questa visione realistica sembra anche ispirarsi l'accordo del 1980 con il governo maltese per la difesa, anche militare, della neutralità dell'isola. Netto è anche il rifiuto dell'ipotesi di conferire ``confini arbitrari'' alla Nato, allargandone di fatto l'area di impiego. E' vero, ammette Lagorio, che `

`gli interessi delle singole Nazioni (che fanno parte dell'Alleanza) e gli interessi dell'Alleanza nel suo insieme risultano oggi esposti al di là del territorio coperto dal patto militare-difensivo'', ma fuori dalla zona di competenza della Nato ``non operano i meccanismi della intesa militare''.

Ma, a ben guardare, il realismo è solo nelle scelte immediate, mentre alcuni elementi di pianificazione operativa contrastano con l'ottica realistica di sostituzione parziale dell'impegno americano nel Mediterraneo. La programmazione operativa della Marina prevede infatti un'allargamento dell'area d'impiego dal Mediterraneo centrale a quello orientale, nonché una credibile capacità navale ``in tutto il bacino del Mediterraneo''. Vengono così proposti due ``gruppi d'impiego'' d'altura, uno nel Tirreno e l'altro nello Ionio, capaci di ``operazioni a lungo raggio''. Il Mediterraneo è un piccolo mare che le unità della Marina possono percorrere in lungo e largo senza problemi. La 6ª flotta americana ha operato per anni nel Mediterraneo senza dividere le sue, peraltro ben più significative, forze. Perché allora pianificare operazioni a lungo raggio e costituire due gruppi d'impiego? Semplicemente perché la proiezione a sud, giustificata come migliore difesa della Nato contro le forze sovietiche, ha altri obiettiv

i esterni all'area Nato. Infatti, secondo Lagorio, l'Italia deve assolvere ad un ``duplice ruolo strategico... sia per la difesa dell'ala destra dello schieramento Nato sia per la difesa avanzata della regione mediterranea contro eventuali minacce provenienti dal sud''. Nascoste tra le righe di parti minori degli "Indirizzi", troviamo le minacce da sud esterne all'area Nato che spiegano il potenziamento delle ``capacità operative globali'' auspicato da Lagorio. Anche fenomeni di destabilizzazione locale, fuori dall'area Nato, sono una minaccia grave perché ``una compromissione degli equilibri esistenti, anche solo regionali può mettere in forse la sicurezza globale''. E rispuntano anche fuori le minacce economiche care alla Marina, a cui spetta ``la salvaguardia degli interessi nazionali e la protezione delle linee di comunicazione marittime essenziali per la sopravvivenza del nostro paese''. Così il velleitarismo uscito dalla porta rientra, a livello di programmazione operativa, dalla finestra.

Alcuni elementi ambigui della politica militare di Lagorio diventano più chiari nel giro di un anno. La regione o area mediterranea va ben al di là del mare Mediterraneo. Essa viene definita con chiarezza dai militari. La figura 3 rappresenta l'analisi delle conflittualità internazionali, divise per regioni, condotta nel 102º corso (1980-1981) superiore di stato maggiore della Scuola di guerra interforze (14). Tre regioni militari (o teatri o aree) si affacciano sul Mediterraneo. La regione 1 corrisponde al teatro europeo e ai confini geografici della Nato. Le regioni 6 e 2 corrispondono all'area dell'Africa settentrionale (dalla Mauritania e dal Sahara occidentale fino all'Egitto) e del Medio Oriente (dall'Egitto fino all'Iran, compresi il mar Rosso e il golfo Persico). Due aree esterne all'area di impiego Nato, ma che corrispondono alle zone di impiego operativo prospettate dalla Marina fin dal 1974. Tra l'altro queste due regioni corrispondono sostanzialmente anche alle aree di impiego operativo previste

dal governo americano per i suoi comandi europeo e centrale, come mostra la figura 4 (15). Che la regione mediterranea comprenda queste tre aree è confermato da Lagorio nel 1981. Spiegando che, per gli interventi fuori area, la Nato ha adottato una politica ``che prevede per ogni Paese un concorso autonomo alla sicurezza collettiva'', Lagorio precisa che Stati Uniti e Gran Bretagna ``estendono la loro vigilanza fino all'Oceano Indiano e il Golfo Persico'', mentre l'Italia assume ``un ruolo più incisivo nella zona sud dell'Alleanza Atlantica'', cioè ``i Balcani, il Medio Oriente e l'Africa Settentrionale'' (16).

Anche la minaccia da sud viene definita più chiaramente e non più collegata alla maggiore forza militare sovietica.

Le possibili tensioni col Sud del mondo, dichiara Lagorio a un convegno dell'Istituto internazionale c studi strategici (Iiss) di Londra, sono legate alla questione della sopravvivenza: ``Una sopravvivenza per la quale l'accesso alle risorse è senza dubbio, al momento, uno degli aspetti più critici per il mondo occidentale (...) Privarci delle risorse od inibircene l'accesso può essere in effetti un mezzo assai efficace per ridurre la nostra capacità di resistere ed addirittura di esistere. Nasce così un nuovo tipo di minaccia: non più quella frontale che ha contrapposto Est-Ovest... ma quella da accerchiamento. Nasce così un nuovo e temibile mezzo di strategia indiretta'' (17). Da ciò deriva la decisione della Difesa di ``dare un miglior contributo alla sicurezza generale delle aree che ci sono più vicine'' e di sviluppare un dialogo ``se possibile amichevole'' col Sud.

Questa impostazione pone sotto tutt'altra luce alcun iniziative promosse da Lagorio, in particolare quella sulla "task force" a doppio uso militare-civile. La proposta nasce ufficialmente a seguito del terremoto in Irpinia del novembre 1980, e si propone di costituire una Forza di pronto intervento (Fopi) capace di spostarsi in 24 ore in qualsiasi luogo del paese. Una forza dotata di doppia capacità, utilizzabile sia contro i terremoti che contro eventuali minacce di aggressione a sud, armata sia di pale meccaniche che di bazooka. Per l'acquisto di mezzi per la protezione civile il parlamento approva all'unanimità un finanziamento straordinario alla Difesa di oltre seicento miliardi. Neanche le prime affermazioni del ministro, per cui la Fopi sarà formata da paracadutisti e fanti di Marina, insospettiscono le forze politiche. Tra le poche critiche c'è quella dell'annuario dell'Istituto affari internazionali di Roma: ``Se si vuole mettere in piedi un'agguerrita unità di assaltatori si deve dire chiaramente co

me si intende impiegarla. Sarebbe grave se si tentasse di farla passare per la soluzione dei problemi di difesa civile, quando si tratta in realtà di qualcosa che poco ha a che fare con le concezioni difensive italiane'' (18).

D'altronde anche le concezioni difensive italiane stanno mutando rapidamente. Nel gennaio 1981 Lagorio informa i parlamentari del Comitato Nato della Commissione difesa della Camera che ``la Difesa ha recentemente avviato un processo di revisione di alcune idee che hanno dominato lungamente il campo degli studi e delle previsioni strategiche. E' un discorso che tiene conto della nuova situazione del Mediterraneo'' (19). Ma, nei seguenti due anni e mezzo di mandato, nulla di più dirà Lagorio al parlamento sulla revisione strategica in atto, giustificandosi con un presunto prolungamento degli studi sulla questione (vedi più avanti).

Alla mancanza di elaborazioni generali corrisponde nel 1982 il decollo dell'iniziativa militare. Già nel 1979 c'erano state due missioni. La prima era stata la crociera ``umanitaria'' degli incrociatori Andrea Doria e Vittorio Veneto e della nave appoggio Stromboli per salvare profughi vietnamiti nel mar della Cina. Con la seconda l'Italia aveva inviato un proprio gruppo elicotteristico a rafforzare le fila dell'Unifil ("United Nations Interim Force in Lebanon"), la forza di interposizione creata dall'Onu per fare da cuscinetto tra Israele e il Libano. Ma le missioni del 1982 sono diverse dalle precedenti. In marzo i dragamine Palma, Mogano e Bambù Vengono inviati nel mar Rosso a far parte della forza multinazionale di osservazione (Mfo, "Multinational Force and Observers"), incaricata di vigilare sul rispetto degli accordi di Camp David tra l'Egitto e Israele. Loro compito specifico è ``concorrere alla libera navigazione'' dello stretto di Tiran. La Mfo non è pero una forza dell'Onu. Di essa fanno parte que

i paesi che intendono appoggiare la pace tra Israele ed Egitto, cioè solo alcuni paesi occidentali. Dal punto di vista politico è una scelta significativa, per l'aspetto militare si tratta di un intervento ridotto, in una zona sostanzialmente pacificata. Poca cosa in confronto alla missione libanese che, a partire da agosto, vedrà impegnate a fondo le forze armate italiane per un anno e mezzo.

Il primo intervento italiano in Libano (Italcon 1, dall'acronimo che designa il primo contingente italiano della forza multinazionale) ha come obiettivo l'esodo dei combattenti palestinesi trinceratisi a Beirut a seguito dell'invasione israeliana del Libano (giugno 1982, operazione "Pace in Galilea"). E' l'unica alternativa politica ad una guerra in piena città, che necessariamente si trasformerebbe in un eccidio. Un'iniziativa sollecitata anche dagli Stati Uniti e approvata da tutte le parti in causa (governo e milizie libanesi, palestinesi ed israeliani). L'Organizzazione della nazioni unite sembra inizialmente farsi carico dell'iniziativa, ma i veti emersi al suo interno la bloccano. Il governo italiano decide comunque di mantenere, con un accordo bilaterale col governo libanese, il suo impegno. Per sottolineare il carattere pacifico dell'operazione blindati italiani partono per il Libano con i colori bianchi e azzurri dell'Onu. A settembre, conclusa positivamente la missione, Italcon 1 torna a casa. Nei

giorni successivi le milizie falangiste, con la complicità dell'Esercito israeliano, entrano negli indifesi campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, dove compiono un massacro di vecchi, donne e bambini.

Il governo libanese (e i palestinesi) chiede di nuovo aiuto. I governi italiano, francese, inglese ed americano rispondono positivamente, costituendo - sulla base di vari accordi bilaterali - una forza multinazionale (Mnf, "Multinational Force"). Ma lo scopo e la natura di questo nuovo intervento di Italcon 2 cambiano, almeno sulla carta. Non si tratta solo di proteggere i campi palestinesi, ma anche di rafforzare l'autorità del governo libanese. L'accordo italo-libanese prevede infatti che Italcon 2 possa impegnarsi in combattimenti non solo per autodifesa, ma anche nel caso ``o richieda l'espletamento del suo compito in appoggio delle forze armate del Governo libanese'' (20). Anche la composizione del contingente e gli armamenti cambiano. Ai bersaglieri di leva del battaglione (btg) Governolo, che avevano già formato Italcon 1, si aggiungono i parà in larga parte professionisti della brigata (bgt) Folgore e i marines del btg. San Marco (guarda caso le stesse unità che dovevano formare la Fopi per la protez

ione civile). Italcon 2 viene dotata del fuoco d'appoggio medio (cannoni da 105 mm e mortai da 120) e di quello pesante (delle navi italiane che rimarranno alla fonda nel porto di Beirut). Per la potenziale contraddittorietà dei suoi obiettivi (proteggere i campi palestinesi e nel contempo sostenere il governo libanese diventa difficile, se quest'ultimo ha l'obiettivo di cacciare i palestinesi dai campi stessi) e gli armamenti adottati, la missione di Italcon 2 è al confine tra il "peace keeping" (mantenimento della pace) e il "peace enforcing" (imposizione della pace). La differenza tra i due compiti è significativa. Nel "peace keeping" le forze esterne, con il consenso di tutte le parti in causa, si frappongono tra contendenti (21). Nel "peace enforcing" le forze esterne appoggiano con la forza una delle parti in causa contro l'altra o le altre. Un tipico esempio di "peace enforcing" fu l'intervento americano degli anni '50 in Corea a favore del governo della Corea del Sud. In Libano, appoggiare unicamente

un governo e forze armate che rappresentano una minoranza del paese (22) avrebbe voluto dire scivolare dal "peace keeping" al "peace enforcing". Scelta fatta dai contingenti americano e francese, ma non da quello italiano.

Messa in ombra dalla più consistente missione in Libano c'è nel 1982 una terza - unilaterale - missione italiana. In ottobre il cacciatorpediniere Audace, la fregata Orsa e la nave appoggio Vesuvio (12º gruppo navale) vengono mandati a Mogadiscio (Somalia). Non si tratta solo di una visita di amicizia. ``L'Italia spiega disinvoltamente Lagorio al parlamento - ha ritenuto in epoca recente che fosse suo interesse e sua responsabilità intervenire nel Corno d'Africa per un maggior equilibrio delle parti in conflitto'' (23). L'idea (per fortuna poi abbandonata) di poter giocare un ruolo di stabilizzazione militare nella ex-Africa orientale italiana è una chiara manifestazione di velleitarismo nazionalista, che si distanzia non poco dalla politica di indipendente realismo assunta dal ministro e dalla Difesa in Libano. E' una politica velleitaria sia per il raggio di impiego militare che affida alle forze armate, sia per il fatto di non essere sostenuta da alcuna seria motivazione e preparazione; quasi che le ragio

ni dell'impegno militare italiano nel Corno d'Africa derivassero automaticamente dalla passata tradizione imperiale o... dalla vittoria italiana ai campionati mondiali di calcio. Una politica velleitaria nei suoi scopi ma non debole nei suoi sostenitori, in primo luogo la Marina con le sue aspirazioni ad un ruolo di intervento regionale. E' significativo, anche se pochi lo hanno sottolineato, che le affermazioni di maggiore autonomia dagli Stati Uniti coincidano con la missione della Marina a Mogadiscio. ``L'Alleanza - spiega Lagorio -non esaurisce e non può esaurire la politica italiana. Il nostro paese, come ogni altro paese libero e sovrano, persegue infatti una sua politica che, se in buona misura coincide con quella atlantica, non necessariamente collima con quest'ultima in tutte le sue azioni reali e soprattutto è autonoma e indipendente per quanto riguarda tutti i territori non coperti dal Trattato dal Nord Atlantico'' (24).

Sembra qui riemergere, curiosamente, l'incapacità italiana di un realistico impegno militare all'interno di una alleanza, già manifestatosi nel corso della seconda guerra mondiale. Nei primi sei mesi del conflitto, per ottenere un prestigio pari a quello tedesco, Mussolini portò avanti una guerra ``parallela'', ma non coordinata con quella tedesca (25). Invece di occuparsi seriamente della flotta inglese nel Mediterraneo il duce aggredì la Francia e la Grecia, e si mosse in Africa Settentrionale per conquistare pegni territoriali. Iniziative che si risolsero in una tragedia e spinsero l'Italia ad una più realistica guerra ``subalterna'' alla strategia tedesca.

Lo sviluppo della missione libanese, seguito dai media con un atteggiamento di promozione pubblicitaria più che di informazione indipendente, galvanizza i quadri militari. Tra questi sono le proposte dei `falchi' (26) ad emergere. Anche nelle fila dell'Esercito si fanno largo i fautori della proiezione nazionalista ed offensiva della forza. Un libro uscito nella primavera del 1983, scritto dall'ex-generale dell'Esercito Luigi Caligaris e dal futuro direttore del "Corriere della Sera" Piero Ostellino, delinea esigenze e progetti di questi nuovi militari (27). L'esigenza fondamentale delle forze armate, spiegano Caligaris e Ostellino, non sta in funzioni devianti come la protezione civile, ma in funzioni di intervento e stabilizzazione nella regione mediterranea. ``Non basta - spiegano i due - difendersi dalle minacce provenienti da est e contemplate dalla difesa atlantica se poi si lascia spazio alle minacce minori nelle aree mediterranee dove la Nato non può intervenire come tale''. Per svolgere adeguatament

e questo ruolo le forze armate devono rettificare i propri obiettivi ed anche il proprio spirito. Il loro compito deve essere quello della formazione del "combattente mediterraneo" più che del "manager della difesa"; la loro struttura deve essere modificata con strumenti nuovi sulla scia di quanto fatto in altri paesi occidentali. ``Bene lo hanno compreso - sottolineano Caligaris e Ostellino - gli Stati Uniti, varando la loro ambiziosa Forza di Intervento Rapido, che non solo è dotata della tecnologia più aggiornata, ma si affida altresì a personale di alta preparazione operativa. E meglio ancora sembrano averlo compreso le medie potenze come la Francia e la Gran Bretagna, che non hanno mai rinunciato a una capacità di intervento esterno, attraverso le loro unità d'elite''. Solo in Italia, notano gli autori, ``la nota Forza di Intervento... trova tanta difficoltà a nascere per insipienza politica e militare. Dopo oltre un anno e mezzo dall'annuncio della volontà di costituirla, poco di serio è stato fatto. A

nche in questo caso si è data assoluta priorità alla parallela forza per la protezione civile''. Sono valutazioni che mordono il freno rispetto alle ambiguità e reticenze del ministro della Difesa, e che sono tutt'altro che isolate nei vertici militari.

Anche il capo di stato maggiore della Difesa, il generale dell'Esercito Vittorio Santini, nel suo intervento al Casd del giugno 1983 critica l'insistenza sulle funzioni ``pur sempre secondarie della protezione civile'', con le quali si ``tende ad accontentare quella certa cultura pacifista oggi imperante'' (28). ``Occorrerebbe invece - continua Santini - approntare nuovi strumenti in aggiunta a quelli esistenti, come il Comitato dei capi di Stato maggiore nella sua alta responsabilità tecnica ha ipotizzato in uno studio sul cosiddetto nuovo modello di difesa''. Ma Lagorio non ha voluto rendere pubblico questo studio. In prossimità della fine del suo mandato ha preferito lasciare la patata bollente al suo successore.

Con l'avvento del repubblicano Giovanni Spadolini al Ministero della difesa (agosto 1983) le spinte alla proiezione offensiva della forza vengono ricondotte alle coordinate di un impiego meno parallelo e più subalterno alla politica militare dell'amministrazione Reagan. Tre sono i compiti che gli "Indirizzi di politica militare" del nuovo ministro indicano alle forze armate: la difesa dei confini, la difesa dell'Europa con gli alleati, ``contribuire, di concerto con l'Onu e con i nostri alleati e su richiesta degli stati interessati, a ripristinare condizioni umanitarie e di stabilità politica in aree di particolare rilevanza per la sicurezza del Mediterraneo'' (29).

Questo ruolo esterno viene legittimato come risposta ad una minaccia da sud che, contrariamente all'analisi di Lagorio, non è una minaccia militare alla Nato. Essa consiste ``in una disputa minore conseguente ad un contenzioso riferito solo all'Italia e potrebbe manifestarsi in azioni offensive tendenti all'acquisizione di aree del territorio nazionale poco estese ma di elevato valore strategico, oppure rivolte contro il traffico marittimo nazionale nel Mediterraneo''. ``In questo caso conclude Spadolini - l'Italia potrebbe rispondere all'offesa solo con un autonomo e credibile strumento militare''. In ambito Nato l'ipotesi di sbarchi nell'Italia meridionale è stata sempre considerata (e lo è tutt'ora) una minaccia estremamente improbabile e comunque secondaria in uno scenario di guerra tra blocchi. In uno scenario di conflitto bilaterale tra l'Italia e un altro paese essa è stata giudicata ancora meno credibile da ben due capi di stato maggiore dell'Esercito (30). Ma il pregio della minaccia di sbarchi da s

ud non sta nella sua validità, bensì nella sua utilità a fini di manipolazione: essa permette di giustificare l'introduzione di impostazione offensive e preventive in nome della legittima difesa del territorio nazionale. Così gli "Indirizzi" di Spadolini propongono ``misure cautelative dei potenziali focolai di crisi rappresentati da taluni paesi mediterranei''.

Sulle coordinate dell'impegno militare italiano ``fuori casa'' Spadolini precisa, in polemica indiretta con Lagorio, che i ruoli di stabilizzazione regionale ``non avrebbero senso né sarebbero operativamente realistici al di fuori di un legame organico con la strategia occidentale''. Della impostazione data dal precedente ministro alla stabilizzazione regionale non viene criticata la parte oggettivamente, anche a livello operativo, velleitaria (impegno nel Corno d'Africa), ma solo il suo carattere disorganico rispetto ad una non meglio definita ``strategia occidentale''. Obiettivo della critica è quindi il carattere parallelo, relativamente autonomo e scoordinato rispetto agli Stati Uniti, dell'impegno militare italiano nel Corno d'Africa e in Libano promosso da Lagorio. A questo impegno parallelo Spadolini vuole sostituire un impegno più subordinato all'alleato americano, più realistico solo perché meno indipendente. Ma ridurre, assieme alle proprie velleità nazionaliste di potenza, anche la propria autonom

ia non risolve i problemi; li mette soltanto nelle mani di un partner più forte ma non infallibile. Anche il governo e le forze armate americane (o francesi) possono perseguire obiettivi velleitari e fare scelte sbagliate, come in Vietnam o in Libano.

Nell'agosto 1983 salta l'accordo stipulato tra le varie forze libanesi. L'Esercito libanese cerca di prendere il controllo dei monti dello Chouf e si scontra con le milizie druse, mentre a Beirut unità militari e milizie falangiste si scontrano con le milizie sciite. Diventa sempre più chiaro che il governo e le forze armate libanesi esprimono solo una componente, quella cristiano maronita, della nazione libanese. Contemporaneamente crescono le richieste del governo libanese per l'impegno diretto nella guerra civile del contingente multinazionale, cui viene richiesto di schierarsi nello Chouf o di appoggiare le unità rimaste a Beirut. A queste richieste i vari contingenti rispondono in modo diverso. Alle cannonate sparate dalle batterie druse dello Chouf contro l'Esercito libanese, che ogni tanto arrivano vicino ai campi della Mnf, i contingenti francese e americano rispondono con controcannoneggiamenti navali e bombardamenti degli aerei imbarcati. Analogo supporto è fornito da americani e francesi all'Eserc

ito di Gemayel nelle sue retate per disarmare le altre milizie. Italcon 2 mantiene invece un atteggiamento più neutrale. L'uso dell'artiglieria navale, posta alle dipendenze del comandante di terra Franco Angioni, viene utilizzato da quest'ultimo solo come minaccia per allontanare il tiro nemico da Italcon 2 (31). Gli italiani inoltre si rifiutano di prendere parte ai rastrellamenti ed agli scontri (32). Da parte italiana viene applicata in sostanza una deliberata autolimitazione dell'uso della forza, che dà risultati positivi.

A casa pero alcuni esponenti del nuovo governo presieduto dal socialista Bettino Craxi prendono in seria considerazione l'ipotesi di seguire americani e francesi nella strada dell'appoggio totale al governo Gemayel. Nel corso di settembre Spadolini fa definire piani operativi per inviare armamento pesante campale ad Italcon 2 e per dotarla del fuoco pesante di uno o due gruppi di cacciabombardieri, di cui viene programmato il trasferimento a Cipro (misure che fortunatamente poi non verranno prese, anche per le crescenti critiche delle forze di opposizione). L'uso esteso della forza da parte dei contingenti francese e americano, motivato sia come autodifesa che come sostegno al governo Gemayel, non aumenta pero la prima né rafforza il secondo. A fine Ottobre due attacchi suicidi con autobombe provocano centinaia di morti tra i militari francesi e americani. Nel febbraio 1984, dopo che gli altri contingenti hanno abbandonato il Libano, anche Italcon 2 viene richiamato in patria. Termina così una missione costa

ta all'Italia un morto e una settantina di feriti, ma che avrebbe potuto avere costi umani molto superiori se l'intervento italiano si fosse appiattito, politicamente e operativamente, su quello americano.

Sei mesi dopo l'Italia torna a far parte di un'altra forza multinazionale. In agosto lo scoppio di una serie di mine antinave nel canale di Suez e nel mar Rosso spingono il governo egiziano a chiedere aiuto per un operazione di vigilanza e di sminamento. Ancora una volta l'operazione viene condotta da una forza multinazionale sulla base di accordi bilaterali. Il governo italiano manda i dragamine Castagno, Frassino, Loto e la nave appoggio incursori Cavezzale.

Di tutte queste operazioni nell'area mediterranea il dibattito politico ha messo in luce di volta in volta vari elementi, ma uno ci pare trascurato. Tutte queste missioni militari all'estero hanno avuto un immenso valore dal punto di vista operativo per l'impiego esterno. Una cosa è operare a casa, conoscendo il clima, la lingua, i luoghi, con i magazzini poco distanti. Ben altro è fare una crociera di diversi mesi dall'altra parte del mondo oppure mantenere e impiegare oltre 2 mila uomini per diciotto mesi a oltre 2 mila chilometri dall'Italia. Una cosa è fare esercitazioni in un clima di pace modificato artificialmente durante le esercitazioni. Altra cosa è un impiego operativo in un paese dove la guerra è reale. Tutte queste missioni hanno permesso l'acquisizione di esperienze e capacità fondamentali: verifica dei mezzi e della coesione delle unità, messa a punto del supporto logistico e di spezzoni di dottrina d'impiego, sperimentazione dei sistemi di comunicazione comando e controllo, ecc. Da un punto d

i vista operativo si è acquisita e migliorata, in sei anni di esperimenti sul campo, una buona parte di ciò che è necessario per ogni efficace intervento militare nella regione mediterranea.

Anche i punti deboli di un intervento esterno, sia a livello militare che politico, sono stati evidenziati e, almeno in parte, risolti. Tra quelli politici va sottolineata la prassi ormai consolidata di non sottoporre all'approvazione preventiva del parlamento i trattati internazionali che inquadrano le missioni all'estero. Sugli interventi militari all'estero abbiamo ora in Italia un controllo parlamentare molto inferiore, nei fatti, a quello esistente negli Stati Uniti, dove una legge apposita (33) stabilisce che, dopo due mesi di guerra fuori confine, il Congresso deve pronunciarsi sulla continuazione dell'ostilità e un suo voto negativo pone automaticamente fine all'impegno militare. Tra i problemi politici solo parzialmente risolti c'è quello della maggiore indisponibilità dei soldati di leva rispetto a quelli di carriera ad operazioni esterne, volute dal governo ma non dalla società civile. Nel corso della missione libanese una prima risposta è stata data dalle autorità, passando dall'invio su base vol

ontaria a quello su comando (34). Prassi anche questa consolidata con la missione nel mar Rosso. Rispetto alla natura politica delle missioni esterne all'area Nato va infine sottolineato che, se esse si sono mantenute nell'ambito del "peace keeping", è pur vero che l'operazione più significativa, quella libanese, non solo ha corso il rischio di diventare qualcosa di diverso, ma ha anche dato luogo a bilanci e conseguenti pianificazioni operative che vanno ben oltre.

Al centro del dibattito post-libanese c'è la questione concreta dell'aviazione di Marina, dietro la quale sta pero una questione più di fondo, relativa al peso e alla natura dell'intervento a sud dell'area Nato. Al solito è la Marina ad esprimere nel modo più deciso e coerente la proiezione offensiva della forza. Intervistato da un quotidiano sulle lezioni da trarre dall'esperienza libanese, il capo di stato maggiore della Marina Vittorio Marulli spiega la lezione che la Marina ha ricavato dall'esperienza delle... Falkland-Malvine (35). In quel conflitto, secondo Marulli, ``si è evidenziato il ruolo che un complesso di mezzi aerei imbarcati su unità tuttoponte di limitato tonnellaggio, prontamente disponibile e direttamente impiegabile dal comandante navale, svolge''. ``Il supporto di uno strumento aeronavale davanti a Beirut - continua Marulli certamente avrebbe garantito una credibilità ed una sicurezza qualitativamente ben diverse da quelle realizzate con i soli cannoni imbarcati''. Un accostamento di fat

ti in cui è inutile ricercare alcuna logica o verifica storica, perché il problema è un'altro: la Marina vuole i suoi aerei sulla sua portaerei, agli ordini del comandante navale. La portaerei, con le nuove unità da sbarco già in produzione e il btg San Marco rinforzato da soldati di carriera permetteranno ``operazioni prolungate a molta distanza dalle basi nazionali''. Con queste ``tangibili presenze... ben al di là degli stretti confini'', la Marina italiana si propone il non-modesto obiettivo di ``contenere l'inserimento sovietico in Nord Africa e nel vicino Medio Oriente'' (36).

Diversa la valutazione del capo di stato maggiore dell'Aeronautica Basilio Cottone che valuta positivamente la decisione di non aver rischierato i gruppi di cacciabombardieri a Cipro e critica il significato politico della scelta di una portaerei (37). Un conto è, secondo Cottone, svolgere compiti di pacificazione come fatto dagli italiani in Libano, ben altro è dotarsi di ``una forza di pronto intervento capace di estrinsecare una funzione offensiva... invece che di conciliazione e di convincimento''. Per Cottone, è ancora la minaccia aeroterrestre a nord-est quella più consistente, mentre per l'uso degli aerei nel Mediterraneo basterebbero gli aerei dell'Aeronautica dislocati nelle basi metropolitane. Alle missioni fuori area caldeggiate dalla Marina, Cottone si oppone in nome ``della politica militare dell'Alleanza atlantica e dei suoi obiettivi, che sono difensivi'' (38). Anche il capo di stato maggiore dell'Esercito Umberto Capuzzo si mostra scettico verso l'ipotesi di costituire una vera e propria forz

a di pronto intervento che richiederebbe ``tanti e tali mezzi che nella attuale situazione di bilancio delle forze armate sarebbe ben difficile poter allestire'' (39).

Mettere ordine in questo groviglio di divergenze di dottrina militare, cui si accompagna un clima di rissa tra Marina e Aeronautica sul controllo degli aerei operanti sul mare e tra le tre forze armate sulle risorse di bilancio, diventa imprescindibile per la Difesa.

3. Il "Libro bianco" della Difesa

Frutto di un lavoro durato diversi mesi e a cui hanno collaborato per la prima volta un gruppo di studiosi civili esterni alle forze armate, il "Libro bianco" (Lb d'ora in poi) della Difesa 1985 (40) vuole risolvere le divergenze dottrinarie tra forze armate e definire un'unica prospettiva strategica per lo strumento militare. Il fine, spiega nell'introduzione Spadolini è ``un modello di difesa, coerente negli obiettivi, nell'individuazione delle forze, nella determinazione delle strutture amministrative e di comando, nella integrazione nazionale, e naturalmente riflesso anche nella formazione e organizzazione del bilancio della Difesa''. Il merito maggiore del Lb è quello di impostare la politica di sicurezza italiana a partire dalla definizione delle minacce, cui è dedicata un'intera parte del volume. Infatti, solo dopo aver identificato le minacce si possono proporre i mezzi e le dottrine operative che sostanziano la parte militare di una politica di sicurezza (che comprende altrettanto importanti parti e

conomiche, politiche e diplomatiche). Per la prima volta, in una pubblicazione ufficiale della Difesa, si indica come fonte della minaccia non solo l'altro blocco, ma anche i paesi del Terzo mondo: ``L'aumento dello stato di tensione tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica - spiega il Lb - nonché la complessità cangiante dell'area Sud, hanno comportato un'incremento parallelo della `minaccia', diversificata per forme e strumenti''. Così accanto alla tradizionale minaccia militare diretta, costituita da una possibile invasione a nord-est del Patto di Varsavia, si identifica un'altra minaccia, anche non militare e indiretta, nell'area mediterranea. Qui, oltre alle forze aeronavali sovietiche, emergono nuove minacce da parte di alcuni paesi del Terzo mondo.

Scarsa attenzione è dedicata dal Lb alla minaccia da nord-est e al teatro centrale europeo. Si fa una storia dell'Alleanza atlantica impegnata fin dal suo nascere per evitare il riarmo nucleare e priva di qualsiasi tendenza di carattere offensivo. Un'analisi superficiale e discutibile, che spesso scade nelle professioni di fede, come quando si sostiene che ``è consolidata e indefettibile, volgendo al termine del quarto decennio dell'Alleanza, la convinzione dell'opinione pubblica che essa abbia esclusivamente un carattere difensivo, che la legittimità dei suoi programmi sia assoluta, che il suo impegno per il controllo degli armamenti al più basso livello possibile, a premessa di un disarmo generale e controllato, sia dimostrato''. Negli altri paesi. europei della Nato l'analisi delle nuove dottrine militari delle forze armate americane ("Air Land Battle, Deep Strike, Air Force 2000") ha portato diversi studiosi militari e leader politici a criticare come offensiva la dottrina del comandante della Nato Berna

rd Rogers dell'attacco alle forze di seconda schiera (Fofa, "Follow On Forces Attack") (41). Lo stesso Rogers è intervenuto in questo dibattito, ritenendolo quindi dotato di fondatezza (42).

Su tutta questa questione il Lb invece sorvola, mascherando la mancanza di un proprio contributo alle elaborazioni Nato con indefettibili convinzioni ideologiche. La dottrina Rogers viene sì criticata perché costerebbe troppo in nuove tecnologie, perché forse non sarebbe più efficace contro le ultime dottrine operative sovietiche, perché aumenterebbe la superiorità tecnologica degli Stati Uniti sull'Europa. Ma le critiche delineano una linea di resistenza debole perché non toccano il nodo del problema: il carattere marcatamente offensivo della Fofa, basato sull'immediata proiezione del conflitto centinaia di chilometri all'interno del territorio nemico. Così anche l'Italia partecipa alla ricerca sulle nuove tecnologie nel quadro di una totale subalternità alle strategie americane e senza che a nessun responsabile italiano della sicurezza venga in mente di utilizzare le nuove tecnologie per una strategia difensiva. Al contrario sono aumentate, a partire dal 1984, le dichiarazioni del ministro Spadolini e di a

lcuni suoi consulenti a favore della proiezione offensiva della forza anche a nord-est (43). Anche sul ``dimostrato'' impegno della Nato per il controllo degli armamenti al più basso livello è lecito nutrire dei dubbi. Infatti il Lb, nello spiegare che la dissuasione si basa sull'equilibrio delle forze, afferma che quest'ultimo ``per essere efficace, si deve realizzare a tutti i livelli e su tutte le categorie di armamento''. Una concezione che, non calcolando i punti di forza del proprio assetto militare, punta al raggiungimento della parità sui punti di forza dell'avversario; una concezione che, in concreto, apre la strada al riarmo ai livelli più alti in tutte le categorie di armamenti. Questa stessa filosofia sembra giustificare da parte italiana la scelta di installare entro il 1987 i sette gruppi di "cruise" nucleari, per un totale di 112 missili, a Comiso. Una scelta che è presentata come obbligata, l'unica possibile dopo lo schieramento degli SS-20 sovietici a partire dal 1977. La buona volontà del g

overno e della Difesa verso il controllo delle armi nucleari e le trattative sarebbe anch'essa ``dimostrata'' dalla solita clausola della dissolvenza. Quest'ultima è inesistente al pari di qualsiasi controllo governativo e parlamentare sulle armi nucleari istallate in Italia. Riguardo alla loro entità il Lb non dice nulla, quasi che le uniche armi nucleari in Italia fossero i "cruise". Riguardo al loro uso si afferma che ``l'impiego delle armi nucleari è disciplinato, nell'ambito dell'Alleanza atlantica, da procedure di consultazione concordate da tempo, che assicurano la piena partecipazione dei paesi membri e conferiscono un peso particolare a quegli Alleati sul cui territorio tali armi sono collocate''. Informazioni scarse e affermazioni perentorie che mostrano il grado di "incoscienza nucleare" della maggior parte dei dirigenti della politica militare italiana.

Gli armamenti nucleari presenti in Italia vanno ben oltre i "cruise" di Comiso. Secondo l'analista americano William M. Arkin esistono in Italia circa 550 testate nucleari, escluse quelle imbarcate sulla 6ª flotta americana (44): 32 sono i missili "cruise" già operativi (su un totale di 112 previsti) a Comiso; 250 sono le bombe imbarcate su aerei italiani e americani; 50 le testate per i missili "Lance" dell'Esercito italiano; 70 quelle per i missili "Nike-Hercules" dell'Aeronautica italiana; 22 le mine atomiche sotto il diretto controllo dell'Esercito americano; 40 i proiettili nucleari da 203 mm. per l'artiglieria americana; 65 le bombe atomiche da profondità per aerei ed elicotteri sia americani che italiani; 50 le testate nucleari per i missili antisottomarini della Marina americana.

Le procedure di consultazione sull'impiego delle armi nucleari, che permetterebbero all'Italia di avere un ``peso particolare'' sul loro utilizzo, sono coperte dal segreto. Dato che Spadolini non ha comunicato l'adozione di nuove procedure, quando parla di ``procedure concordate da tempo'' è lecito rifarsi a quanto emerso in proposito nel recente passato. Durante la gestione Lagorio della Difesa si è molto discusso sul tema della ``doppia chiave'', una americana e l'altra del paese ospitante, necessaria per far partire un missile nucleare. Ma la definizione di ``doppia chiave'' è al tempo stesso rassicurante, perché richiama meccanismi di controllo incrociato certi e sperimentati nella vita quotidiana, e fuorviante, perché non corrisponde più alla realtà della vita quotidiana che evoca. Una porta con due serrature ha bisogno di due chiavi per essere aperta. In modo simile funzionava in passato la doppia chiave nucleare. Durante gli anni '60 e '70 gli alleati sul cui territorio erano presenti le armi nucleari

possedevano il vettore, mentre le testate nucleari erano gestite e controllate da militari americani. Ad esempio, per far partire uno dei missili nucleari "Jupiter" installati dal 1959 al 1962 in Puglia, occorrevano i missili - comprati dagli americani e sotto controllo italiano - e le testate - di proprietà e gestione americana. Se i militari italiani non avessero fornito i vettori, i missili nucleari non sarebbero potuti partire.

Oggi però la situazione è mutata perché circa la metà delle armi nucleari presenti in Italia, tra cui i nuovi "cruise", sono tutte (vettori e testate) di proprietà delle forze armate americane. L'inesistenza di una doppia chiave tecnica è confermata da una dichiarazione del Comitato speciale sulle armi nucleari dell'Assemblea atlantica dell'ottobre 1983: ``Benché Lagorio ed Heseltine pensino che la dispersione dei Glcm ("cruise" lanciati da terra) in tempo di crisi comporti un meccanismo di controllo che potrebbe essere utilizzato dal paese di schieramento, a parere del Comitato non esiste alcuna ragione tecnica che impedisca di lanciare un missile da crociera partente da una qualsiasi base'' (45). Per controllare l'uso delle armi nucleari con vettori americani l'Italia può contare solo in un processo di consultazione con gli alleati americani, che ``tempo e circostanze permettendo'' ascolterebbero il nostro governo (46). In caso di decisioni divergenti tra i governi europei e quello americano l'unica garanz

ia degli europei consisterebbe nell'uso della forza per imporre la volontà nazionale.

Altrettanto sottovalutata la questione delle armi nucleari tattiche (o da campo di battaglia). Missili "Lance" e "Nike-Hercules", mine e proiettili atomici sono da molti ritenute le più pericolose perché - in quanto dislocate in prossimità del confine - potrebbero essere utilizzate nelle fasi iniziali del conflitto, per non rischiare di perderle. Al proposito il Lb afferma solamente che, a ridosso delle frontiere, la Nato prevede ``l'uso preferenziale delle armi convenzionali''.

Nella totale mancanza di spiegazioni tecniche convincenti non ci rimane sulle armi nucleari che la parola di Giovanni Spadolini. Il che ci pone tutti nella spiacevole condizione del Giulio Cesare di Shakespeare che, a proposito di Bruto, afferma: ``Bruto ha dato la sua parola. E Bruto è un uomo d'onore''. La parola di Spadolini non è peraltro sempre ferma, né rassicurante. Quando, nell'autunno 1984, il Partito comunista chiede di sapere se nella base della Maddalena facciano sosta sommergibili dotati di "cruise" nucleari navali (Slcm, "Sea Launched Cruise Missile"), Spadolini dichiara alla Camera che ``il contenuto del presente accordo non consentirebbe che presso quella base sostino sommergibili armati di missili a testata nucleare'' (47). Già. Come il presente accordo ``non consentirebbe'' la presenza di armi nucleari alla Maddalena, così anche le procedure di consultazione con l'Italia ``non consentirebbero'' il lancio di armi nucleari dal nostro territorio contro la nostra volontà.

Ampio spazio è invece dedicato dal Lb alla nuova minaccia a sud, che diventa la minaccia principale. Infatti il Lb non solo sottolinea ``il sensibile spostamento del baricentro delle crisi riguardanti l'Europa verso Sud e, soprattutto, verso il Mediterraneo'', ma afferma anche che ``si sono trasformate le proporzioni e i pesi di potenza fra aree regionali e sub-regionali (Mediterraneo/Golfo Persico/Africa)''. La nuova minaccia da sud è di tipo diverso da quella diretta e militare da nord-est. Essa è infatti sia diretta (forza aeronavale sovietica) che indiretta (contenziosi economici e politici con paesi poco stabili del Terzo mondo). Una minaccia così vasta che modifica di 90 gradi l'ottica militare italiana: ora non si tratterebbe più per l'Italia solo di difendere da Est il "fianco" sud della Nato, ma di essere soprattutto l'avamposto del ``"fronte" Sud della Nato''. Tutta la parte del Lb dedicata alla situazione internazionale serve a legittimare questo nuovo ruolo italiano nell'area mediterranea.

Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale si è assistito, secondo il Lb, ad un processo di ``diffusione di potenza'', che ha tolto il monopolio dell'uso della forza alle vecchie potenze industriali e le ha poste in condizioni di minore superiorità rispetto ai paesi del Terzo mondo. Nel Terzo mondo sono emersi nuovi attori (stati di nuova indipendenza e nuove alleanze su base razziale, confessionale e regionale) e semi-attori (movimenti di liberazione nazionale come l'Olp, lo Swapo e la Resistenza afghana) ben armati e capaci di incidere sulla situazione internazionale. L'uso della forza da parte dei paesi industrializzati, che pure rimane per il Lb decisivo, non si è dimostrato sempre efficace nel controllare le crisi. In particolare sono le due superpotenze ad essere costrette ``a ridurre la propria capacità di controllo delle crisi internazionali''. Per loro ``l'intervento militare effettivo e virtuale'' è ``diventato sempre più costoso ed improduttivo come hanno dimostrato Vietnam ed Afghanistan

''. Anche le dinamiche delle alleanze militari che fanno capo alle due superpotenze mostrano la stessa debolezza nella gestione delle crisi e, inoltre, il loro intervento può fare degenerare i conflitti locali in un confronto generale, anche nucleare, tra Est e Ovest.

Si lascia così intendere che, da questo quadro, emergerebbero spazi maggiori per un ruolo militare delle medie potenze, anche al di fuori dell'alleanza di cui fanno parte. Un ruolo militare per niente simbolico dato che, secondo il Lb, al contrario che nel passato, oggi l'uso ``virtuale'' della forza non intimidisce anche piccoli paesi del Terzo mondo. Un'analisi che sembra una teorizzazione dell'intervento inglese nelle Falkland-Malvine, che però il Lb si guarda bene dal citare. Così questa curiosa analisi basata su una prova sola dovrebbe garantire che le medie potenze, tra cui l'Italia, sarebbero in grado di fare a livello più o meno regionale ciò che potenze come gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica non sono riuscite a fare a livello mondiale.

Per l'Italia l'area di impegno operativo regionale è quella mediterranea, che pero, come abbiamo già visto e come conferma il Lb, è un ``insieme'' formato da diverse aree ``da quella del Medio Oriente a quella Nato, all'Africa settentrionale ai Balcani''. Nell'area mediterranea le minacce all'Italia sono tante e riguardano solo in parte l'ipotesi di un confronto tra blocchi. Nello scenario tradizionale di guerra tra i blocchi alle forze Nato del Mediterraneo viene affidato il compito principale di mantenere aperte le rotte marittime per l'arrivo dei rinforzi via mare nell'Europa del Sud. Rinforzi che servirebbero ad alimentare il fronte principale, quello dell'Europa centrale.

A questo scenario il Lb ne affianca un altro, secondo cui ``l'inserimento politico-militare dell'Unione Sovietica nel Mediterraneo'', più o meno combinato con le ``azioni di alcuni protagonisti locali'', avrebbe come obiettivo lo strangolamento energetico ed economico dell'Italia e di tutta la Nato. Così da sud vengono minacciate le aree marittime per il cui sfruttamento esistono contenziosi, l'intera economia italiana attraverso possibili embarghi ai materiali strategici, di nuovo l'intera economia a causa di ``azioni di destabilizzazione in aree di interesse strategico'' (leggi golfo Persico), nonché le isole dove potrebbero avvenire soliti piccoli sbarchi ``di limitata estensione ma di elevato valore politico-strategico''. Infine, unica reale novità rispetto a quello che la Marina va dicendo da dieci anni, c'è la minaccia ``a cittadini e imprese italiane all'estero''. Anche se il Lb pudicamente non li cita, non è difficile individuare i nuovi nemici della Difesa: innanzitutto la Libia, ma anche la Siria e

talvolta l'Algeria (solo per rimanere nel mar Mediterraneo). Che molte di queste minacce non c'entrino nulla con una maggiore capacità difensiva della Nato nel Mediterraneo è evidente. Ma, con il Lb è ormai dottrina ufficiale che non bisogna garantire solo ``l'integrità del territorio nazionale, l'inviolabilità delle frontiere, la difesa degli spazi aerei'', ma anche gli ``interessi vitali'' di natura economica dell'Italia.

Per affrontare efficacemente sia la minaccia a nordest che quella a sud il Lb prevede la riorganizzazione per "missioni operative interforze" della programmazione militare. Così per assolvere al doppio compito di sicurezza nazionale e internazionale vengono definite ben cinque missioni interforze: la prima di difesa nord-est; la seconda di difesa a sud e alle linee di comunicazione; la terza di difesa aerea; la quarta di difesa operativa del territorio; la quinta di ``azione di pace, sicurezza e di protezione civile''.

E' difficile farsi una ragione del perché di queste cinque missioni quando, da tutto il quadro delineato, emergono chiaramente due sole minacce. Probabilmente nella proliferazione delle missioni pesano sia le resistenze corporative di forza armata (per cui le missioni dovevano essere perlomeno tre) nonché, forse, la volontà di Spadolini di diluire in più missioni il peso reale del nuovo impegno a sud (per non allarmare il parlamento). Di sicuro le missioni sono tante e tanto costerà portarle avanti, soprattutto perché il ruolo dell'Italia non si fermerà nel Mediterraneo e perché, nel Mediterraneo, il Lb sottovaluta il contributo degli altri paesi alleati. E' vero che tra i punti fermi della politica di sicurezza italiana c'è la ``scelta europea'' (gli altri sono la Costituzione, la Nato e la ``specificità mediterranea'' dell'Italia). Ma la presenza nel Mediterraneo di forze navali spagnole, francesi, greche e turche, nonché il contributo che potrebbero portare altri alleati europei in situazioni di crisi, è

quasi ignorato. Nella pianificazione operativa concreta le affermazioni europeistiche di Spadolini non trovano riscontro e diventano solo la foglia d'edera che copre le velleità nazionaliste della Marina.

Per i suoi compiti nel Mediterraneo e nell'area mediterranea la Marina sarà infatti dotata di due ``gruppi aeronavali d'altura'', gravitanti uno ad est e l'altro ad ovest del canale di Sicilia. Sono i vecchi ``gruppi d'impiego'' d'altura, di cui però ora è esplicito che sono aeronavali; cioè formati ognuno da varie unità attorno ad una portaerei. Con due portaerei a guidare i due gruppi aeronavali d'altura, e con il potenziamento delle unità da sbarco, non migliorerà granché il contributo navale italiano in uno scenario di guerra tra blocchi. Quello che sicuramente migliorerà è la capacità di proiezione offensiva della forza in conflitti come quelli delle Falkland o del golfo della Sirte. Va notato a questo proposito che le polemiche sorte tra le forze politiche sulla costituzionalità della portaerei, così come quelle sorte tra Marina e Aeronautica sul monopolio dei velivoli ad ala fissa sono state superate, almeno a livello governativo. Un disegno di legge presentato dal governo nell'agosto 1985 (48) preved

e che la Marina possa imbarcare suoi aerei per difendere la sua portaerei. Tra tutte le soluzioni possibili da dare al problema dell'aviazione di Marina, quella proposta dal governo ci sembra la peggiore, timida nell'intaccare il monopolio dell'Areonautica sui velivoli ad ala fissa e contemporaneamente accondiscendente verso le aspirazioni di ``status'' e di potenza regionale della Marina. Una soluzione più rispettosa degli interessi corporativi delle due forze armate che della effettiva funzionalità militare (49).

Anche l'Aeronautica avrà un ruolo in questa nuova proiezione offensiva della forza a sud. Con l'acquisizione dei nuovi aerei Tornado, e l'allungamento del loro raggio d'azione attraverso il rifornimento in volo, il gruppo di volo di Tornado di Gioia del Colle (Ba) potrà coprire larga parte dell'ampia regione mediterranea. Anche per l'Esercito la proiezione offensiva a sud comporta modifiche significative, soprattutto la costituzione di una Forza d'intervento rapido (Foir o Fir) sulla scia della Rdf americana e della Far ("Force d'action rapide") francese. Il progetto della Fopi di Lagorio viene ribaltato. Sulla Forza di pronto intervento, spiega il Lb, ``gli studi relativi... si erano inizialmente orientati verso una forza mobile `bivalente' in grado sia di fronteggiare le già menzionate esigenze operative, sia di concorrere agli interventi di protezione civile in caso di pubbliche calamità (terremoti, alluvioni, etc.). Successivamente però, anche a seguito dell'esperienza del contingente italiano in Libano,

ci si è resi conto che le finalità erano troppo diverse fra loro perché fosse possibile provvedervi con il medesimo strumento. Ci si è di conseguenza orientati verso la prefigurazione di due forze mobili di pronto intervento la prima destinata essenzialmente alla protezione civile; la seconda destinata istituzionalmente all'assolvimento di compiti di difesa mobile del territorio nazionale ed eventualmente di sicurezza internazionale''. Ma di queste due forze solo una si svilupperà, perché della Fopi per la protezione civile si stanno valutando la situazione organizzativa e prontezza operativa per stabilire ``la convenienza o meno di un comando per la sola specifica esigenza''. Rimane così la Fir, con funzioni solo militari, ma sempre doppie: per tappare velocemente i buchi nella difesa del territorio e per azioni di sicurezza internazionale. La doppia funzione militare non è altro che una copertura momentanea; come al solito la giustificazione dello strumento a fini di difesa territoriale serve solo per leg

ittimare un discutibile uso di proiezione esterna (50).

``In particolare nell'area mediterranea'', spiega in altra parte il Lb, è previsto ``l'uso di forze militari di pronto intervento per la prevenzione e il controllo dei conflitti''. Oltre alle funzioni di ``interposizione armistiziale'', la Fir dovrebbe anche svolgere azioni ``di garanzia dei diritti umani'' e ``di protezione e sgombero di cittadini italiani all'estero gravemente e direttamente minacciati''. Secondo il Lb queste funzioni si inquadrerebbero ``rigidamente nei criteri stabiliti dalla Carta delle Nazioni Unite''. Ma si tratta di funzioni che vanno oltre il "peace keeping". L'utilizzo della sigla dell'Onu per legittimare gli interventi unilaterali della Fir è strumentale. L'Onu non ha mai dato vita a forze di prevenzione dei conflitti, né ha bisogno di forze di pronto intervento. Infine è lo stesso Spadolini a spiegare come il parere dell'Onu non sia un vincolo per le missioni all'estero della Difesa: ``Ricorrenti difficoltà dell'Onu e delle stesse superpotenze a controllare singole crisi possono

porre uno stato mediterraneo, come l'Italia, nella condizione di dover assumere puntuali responsabilità per prevenire i conflitti'' (51).

A proposito del passaggio dottrinale dalla Fopi alla Fir va sottolineato come ad una opposizione prima sotterranea poi sempre più esplicita dei vertici militari all'impegno nella protezione civile abbia corrisposto la strumentalizzazione dei fondi del cap. 4071 a fini militari, come mostriamo nel capitolo sulle spese militari. Nel dicembre 1985 la Fir tiene la sua prima esercitazione. Se qualcuno aveva nutrito la speranza che il suo compito principale sarebbe stato di difesa nazionale, si sbaglia. Il nuovo capo di stato maggiore dell'Esercito Luigi Poli, nel fare il bilancio dell'esercitazione, individua la principale carenza nella mancanza di adeguato trasporto strategico (52). Per muoversi rapidamente nei confini nazionali gli aerei da trasporto G-222 e C-130 vanno bene, ma sono invece insufficienti per l'area mediterranea. Per intervenire in Medio Oriente e in Nord Africa occorrono aerei più grandi e con maggiore autonomia. Non a caso anche i militari francesi lamentano la mancanza di aerei da trasporto s

trategico per gli interventi della Far in Africa centrale (53).

Il comando della Fir è il primo comando italiano interforze, ma la filosofia dell'integrazione interforze del Lb prevede la costituzione di analoghi comandi per ognuna delle cinque missioni. Di questa integrazione interforze va sottolineato che essa è solo secondariamente motivata da esigenze di ridurre gli sprechi dovuti alle duplicazioni di strutture. Ben più importante è la maggiore efficacia in combattimento che l'integrazione interforze e la creazione di comandi specializzati ha portato negli eserciti moderni. Come ricorda anche il Lb, i comandi della Nato sono interforze, ed è un solo comandante a dirigere l'impiego di aerei, navi e carri in un dato teatro. La specializzazione per teatri, o missioni, è anche una dei cardini della struttura militare americana. Negli Stati Uniti i capi di stato maggiore curano particolarmente l'acquisizione dei mezzi e l'addestramento generale del personale. A pianificare e dirigere le operazioni nelle singole aree regionali sono invece comandi specializzati, come il com

ando centrale per la regione del Golfo. Per le guerre stellari i sistemi d'arma sono ancora da venire, ma negli Stati Uniti è già stato creato un comando dello spazio ("Space Command") per quel teatro di guerra. Inoltre le più recenti dottrine operative per le operazioni militari valorizzano sempre di più la forza sinergica della gestione da parte di un unico comando di teatro dei mezzi delle varie forze armate. L'"Air Land Battle" (battaglia aeroterrestre) pone l'accento sull'efficacia dell'uso integrato delle forze da parte del comandante di terra che utilizzi appieno tutti i mezzi aerei per sviluppare l'energia dell'offensiva terrestre.

In Italia però la forza di resistenza corporativa delle singole forze armate è un potente fattore di freno alla ristrutturazione funzionale verso il modello americano. Per aggirare queste resistenze il Lb prevede un disegno di legge di ristrutturazione del massimo vertice della Difesa attraverso una doppia centralizzazione, operativa e tecnica. Si tratta di una proposta che conferisce una chiara preminenza al capo di stato maggiore della Difesa sui capi di stato maggiore di forza armata e sui futuri comandanti di missione. A questo accentramento si accompagna un analogo potenziamento del ruolo del segretario generale della Difesa in merito alla scelta dei nuovi sistemi d'arma. Nell'agosto 1985 il governo ha presentato il suo disegno di legge sulla riorganizzazione del vertice della Difesa (54).

4. La minaccia terroristica

Nel corso degli anni '80, e soprattutto nell'ultimo periodo, l'Europa è diventata teatro e obiettivo di un numero crescente di azioni terroristiche di matrice ``araba''. Ricordiamone un attimo le principali.

Nel 1984 una donna poliziotto inglese viene uccisa da fucilate sparate dall'ambasciata libica a Londra. L'episodio si collega alla volontà del regime di Gheddafi di liquidazione fisica dei dissidenti e alla volontà del governo britannico di tutelare gli esuli oppositori di Gheddafi. Sempre nel 1984 c'è la già citata operazione di minamento nel mar Rosso che, oltre alla possibilità di creare problemi energetici all'Europa, è in primo luogo una diretta minaccia all'Egitto, le cui entrate dipendono per un terzo dai pedaggi per il transito nel canale di Suez. Nella guerra Iran-Irak il governo egiziano fornisce appoggio agi irakeni. L'azione viene rivendicata dall'organizzazione "Jihad" islamica, mentre radio Teheran sostiene che il minamento è ``un duro colpo alle potenze arroganti''.

Nel giugno 1985 un gruppo di terroristi sciiti dirotta su Beirut il volo 847 della Twa, uccidendo un soldato americano e sequestrando 39 passeggeri. In cambio della liberazione degli ostaggi i terroristi chiedono la liberazione di settecento combattenti sciiti catturati dagli israeliani durante l'invasione del Libano. Dopo 17 giorni di trattative segrete lo scambio ha luogo e gli ostaggi vengono liberati. Le trattative vengono condotte attraverso la mediazione della milizia Amal, la più moderata delle organizzazioni sciite. I sospetti sugli autori del dirottamento si indirizzano invece sui fondamentalisti islamici, cioè sulle milizie sciite più radicali come Guerra santa islamica, Partito di Dio, Amal islamica; milizie direttamente collegate o finanziate da Iran e Siria.

Ai primi di ottobre del 1985, in risposta all'uccisione di tre israeliani a Larnaka (Cipro), l'aviazione israeliana bombarda il quartier generale dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) a Tunisi. Tra i circa settanta morti, dodici sono cittadini tunisini. Il 7 ottobre 1985 quattro terroristi palestinesi sequestrano la nave da crociera italiana Achille Lauro e i suoi 400 passeggeri. Per cinque giorni la nave naviga nel Mediterraneo orientale senza trovare né un permesso di scalo né risposta alla richiesta di liberazione di 50 palestinesi detenuti nelle carceri di Israele. In questo periodo i terroristi uccidono il passeggero Klaus Klinghoffer, di nazionalità americana e fede ebraica, ma tengono segreto l'accaduto. Grazie all'opera di mediazione dell'Olp e dei governi egiziano e italiano dirottatori accettano di porre fine al sequestro in cambio della libertà. La nave viene riportata al Cairo. Il giorno 11, aerei americani della 6ª flotta intercettano il Boeing 737 egiziano con a bordo i d

irottatori e Abul Abbas, il membro del comitato esecutivo dell'Olp che aveva svolto l'opera di mediazione, e lo costringono ad atterrare all'aeroporto siciliano di Sigonella. L'intenzione del governo americano, che ha fatto affluire a Sigonella una squadra speciale Seal ("6th Sea Air Land Team") della sua Marina, è di imbarcare tutti i passeggeri in un altro aereo e portarli negli Stati Uniti. Secondo il governo americano Abul Abbas, più che un mediatore per l'Olp, sarebbe infatti stato l'organizzatore del sequestro dell'Achille Lauro. Le prove fornite frettolosamente dall'amministrazione Reagan su Abbas non Convincono però il governo italiano, che ritiene anche inaccettabile l'estradizione "manu militari" dei dirottatori. A Sigonella, in una situazione che sfiora il confronto armato, carabinieri e avieri italiani impongono la volontà del nostro governo ai reparti speciali americani: i dirottatori vengono incarcerati in una prigione siciliana e Abul Abbas viene trasferito prima a Roma e poi in Yugoslavia.

Agli inizi di dicembre il volo 648 dell'Egypt Air, con un centinaio di passeggeri, viene dirottato su Malta. Unica richiesta dei dirottatori è il carburante, che viene rifiutato dal governo maltese. I terroristi minacciano di uccidere un passeggero ogni dieci minuti se le loro richieste non vengono esaudite. Due donne, una di nazionalità israeliana e l'altra americana, vengono assassinate. Un intervento delle truppe speciali egiziane libera 40 passeggeri, mentre gli altri 57 muoiono colpiti sia dai terroristi che dai militari egiziani. Il maggior sospettato per il dirottamento è il gruppo di Abu Nidal, un palestinese condannato a morte dall'Olp, capo dell'organizzazione Al Fatah - Comando rivoluzionario, ostile ad ogni ipotesi di soluzione della questione mediorientale basata sul riconoscimento dello stato d'Israele. Sempre su Abu Nidal si concentrano i sospetti sugli assalti del 27 dicembre agli stand della El Al degli aeroporti di Roma e Vienna, che causano 15 morti e decine di feriti.

A questa escalation terroristica che ha come obiettivi privilegiati cittadini israeliani e americani, l'amministrazione Reagan reagisce in modo progressivo. Dopo il dirottamento dell'aereo della Twa a Beirut l'amministrazione americana propone ad amici ed alleati una serie di sanzioni economiche contro il Libano, come la cancellazione dei voli per Beirut e il blocco navale. Dopo gli attentati di Vienna e Roma l'attenzione degli Stati Uniti si rivolge in particolare alla Libia. Agli alleati Washington chiede di seguirla nella strada di sanzioni economiche come l'embargo commerciale e il ritiro dei tecnici; misure che il governo americano attua nonostante le risposte negative degli europei. Anche le attività commerciali e finanziarie libiche negli Stati Uniti vengono congelate.

In poco tempo però le iniziative economiche e diplomatiche americane lasciano il passo a quelle militari. Nel 1986, alla fine di marzo, la 6ª flotta inizia le esercitazioni nel golfo della Sirte. Il governo libico aveva dichiarato da tempo il golfo della Sirte parte del proprio territorio; una misura non riconosciuta dal diritto marittimo internazionale, ma praticata anche dall'Italia a proposito del golfo di Taranto. A queste misure Gheddafi aveva accompagnato bellicistiche dichiarazioni definendo il confine marittimo della Sirte come una ``linea della morte'', superata la quale le navi straniere sarebbero diventate obiettivi militari. Ai primi missili lanciati dai libici contro gli aerei della 6ª flotta gli americani rispondono con il bombardamento della base missilistica. Due motovedette lanciamissili libiche che cercano di avvicinarsi alle navi americane vengono affondate dagli aerei. E' l'operazione "Prairie Fire" (prateria in fiamme), con cui gli Stati Uniti inaugurano la nuova strategia di risposta mi

litare al terrorismo.

Nei primi giorni d'aprile arriva la risposta terroristica. Una bomba esplode su un aereo della Twa in volo verso Atene, causando quattro morti. L'attentato viene rivendicato da una sconosciuta organizzazione palestinese. Un'altra bomba esplode in una discoteca di Berlino Ovest frequentata da militari americani, provocando due morti (un soldato americano e una donna turca) e decine di feriti. Il 15 aprile, sulla base di presunte prove della responsabilità libica negli attentati, peraltro mai mostrate alla stampa, scatta la rappresaglia americana, l'operazione "El Dorado Canyon". 18 bombardieri F-111, partiti dalle loro basi in Inghilterra, e 14 bombardieri A-6, partiti dalle portaerei Coral Sea e America, bombardano caserme e aeroporti nei pressi di Tripoli a Bengasi. Tra gli obiettivi c'è anche la caserma di Bab el Aziza, il quartier generale di Gheddafi, definito pochi giorni prima da Reagan come un ``cane rabbioso''. Il leader libico si salva dal bombardamento, ma tra i 37 morti dichiarati dal governo libi

co c'è anche una sua figlia. Un bombardiere americano F-111 viene abbattuto e muoiono i due piloti dell'equipaggio. Poche ore dopo il raid due missili libici, Scud o Otomat (55), esplodono a duecento metri dall'isola di Lampedusa, dove si trova una base radar tipo Loran ("Long Range", a lungo raggio) utilizzata dalla Marina americana per l'operazione.

L'emergere della minaccia terroristica e la scelta dell'amministrazione americana di una via principalmente militare contro il terrorismo sollevano alcune questioni di estrema importanza: qual è la natura di questa minaccia e quale è il modo più efficace di farvi fronte.

Il terrorismo di matrice arabo-islamica è una realtà indiscutibile, ma una parte consistente dell'opinione pubblica, soprattutto a sinistra, tende a vederlo come un fenomeno spontaneo, derivato dalla disperazione dei palestinesi contro un'avversario molto più forte militarmente come Israele, per di più appoggiato dalla superpotenza americana. Questa analisi è vera solo in parte. Innanzitutto non esiste solo il terrorismo ``palestinese'', ma anche quello religioso sciita, collegato ad una esplicita realtà e volontà di esportazione della rivoluzione integralista islamica avvenuta in Iran. In secondo luogo diversi paesi arabi hanno sempre cercato di condizionare il movimento palestinese, organizzando e finanziando organizzazioni palestinesi più vicine alla propria strategia di politica estera o direttamente sotto il proprio controllo.

Con il progressivo avvicinarsi, pur tra oscillazioni, dell'Olp di Yasser Arafat verso un'ipotesi di soluzione politica del problema palestinese (riconoscimento da parte di Israele del diritto dei palestinesi ad un proprio stato in cambio del riconoscimento dei palestinesi al diritto di esistere dello stato di Israele), la dipendenza delle organizzazioni palestinesi che rifiutano la soluzione politica dagli stati arabi che sostengono le stesse posizioni è aumentata. Siria e Libia sono gli stati che più appoggiano le organizzazioni palestinesi del fronte del rifiuto, mentre Egitto e Giordania sono i più impegnati nella soluzione politica patrocinata dall'Olp.

Bersagli del fronte del rifiuto diventano così non solo americani e israeliani ma anche la stessa Olp, l'Egitto, la Giordania, nonché i paesi europei schierati per la soluzione politica. Gruppi terroristici come quello di Abu Nidal ricevono esplicitamente supporto economico e logistico tanto dalla Siria quanto dalla Libia, solo che la Siria opera in modo discreto. Al contrario Gheddafi rivendica pubblicamente l'appoggio a tutte le organizzazioni palestinesi del rifiuto. Un convegno ``antimperialista'' svoltosi a Tripoli a metà marzo del 1985 vede, accanto agli indiani d'America e ai separatisti Moros delle Filippine, esponenti dell'ala militare dell'Eta basca e del gruppo di Abu Nidal (56). E il sostegno di Gheddafi non è solo verbale. Alcuni dei terroristi autori degli attentati agli aeroporti di Roma e Vienna viaggiavano con passaporti tunisini, che il governo di Tripoli aveva precedentemente sequestrato ai legittimi proprietari espulsi dalla Libia.

Il fatto che il terrorismo arabo-islamico sia "anche" uno strumento militare di alcuni governi non implica affatto che il modo migliore per batterlo siano gli interventi militari più o meno ``chirurgici''. L'intervento militare americano non è riuscito ad abbattere, come si proponeva, il ``cane rabbioso'' Gheddafi. Né tantomeno ad indebolirlo. La Libia si è compattata attorno a Gheddafi e così hanno fatto i paesi arabi, anche quelli più moderati. Tra l'altro non è escluso che il raid americano possa spingere Gheddafi a fornire all'Unione Sovietica quelle basi navali ed aeree di cui essa è priva nel Mediterraneo.

La tensione nel Mediterraneo è comunque già cresciuta, è diventata permanente ed ha coinvolto direttamente l'Italia. Sono peggiorati i rapporti degli Stati Uniti con gli alleati europei e con i paesi arabi moderati. In sintesi si è ulteriormente allontanata la prospettiva di una soluzione politica al conflitto mediorientale, mentre si è al contempo avvicinata la prospettiva di nuovi conflitti nel Mediterraneo. Sul piano politico la non utilizzazione da parte americana ed europea della disponibilità offerta da Arafat negli scorsi anni ha logorato la sua leadership ed ha contribuito alla svolta dell'Olp della primavera 1985, con la rottura del patto Giordania-Olp e l'allontanamento di una praticabile prospettiva di soluzione politica. Sul piano militare, se e vero che l'azione americana ha costretto l'Europa a prendere alcune misure diplomatiche ed economiche contro la Libia (che avrebbero dovuto essere adottate già da tempo), è altrettanto vero che sono emerse pericolose e velleitarie tendenze a seguire l'amm

inistrazione Reagan sulla strada della guerra non dichiarata alla Libia.

Alle dichiarazioni favorevoli alla guerra preventiva di Giovanni Spadolini (57) si sono accompagnate le richieste di rapido potenziamento degli strumenti offensivi, come la Fir e gli aerei imbarcati, anche questi talvolta legati ad ottiche d'impiego preventivo (58). La minaccia terroristica viene così trasformata in una guerra tra stati suscettibile di generare ancor più pericolosi confronti tra blocchi.

La minaccia terroristica potrebbe essere invece affrontata attraverso altri mezzi, soprattutto non militari. Un maggiore controllo sull'attività libica in Italia aumenterebbe la capacità di prevenire gli attentati, sanzioni economiche e diplomatiche in un clima di distensione militare contribuirebbero ad una revisione della politica libica rispetto al terrorismo o ad un cambiamento di regime; il rilancio dell'azione diplomatica per una soluzione politica al conflitto mediorientale toglierebbe spazio al terrorismo ``palestinese''. Infine, a livello militare, potrebbero essere potenziati strumenti di difesa non offensiva, migliorando le capacità di pronto avvistamento di attacchi militari dal Nord Africa e la difesa costiera.

5. Sicurezza come superiorità difensiva

Abbiamo visto nei paragrafi precedenti quanto si cambiato negli ultimi anni il ruolo militare dell'Italia. Abbiamo visto come da una posizione di sostanziale marginalità dell'impegno militare si sia passati a spese militari cospicue, ad interventi militari significativi, a programmazioni operative ambiziose, ad aver, un ruolo decisivo nelle scelte di riarmo nucleare. Abbiamo anche visto come si è sviluppata costantemente seppure motivata nei modi più diversi, la proiezione dello strumento militare nella ampia regione mediterranea. Con il Lb la Difesa ha fatto una sua sintesi dell'esperienza passata e ha definito una politica di sicurezza per il futuro. Ci pare giusto porci alcune domande. Quali sono i costi della politica di sicurezza proposta dal Lb? E' una politica di sicurezza adeguata alle effettive minacce militari all'Italia? E' una politica che aumenta la sicurezza nazionale, regionale e internazionale?

Vediamo alcuni costi della proiezione offensiva della forza delineata dalla Difesa. Il Lb prevede la costruzione di due portaerei e relativi velivoli. Il costo quasi definitivo dell'incrociatore Garibaldi è di 700 miliardi (59). I costi complessivi di acquisto e imbarco di 14 aerei "Harrier" a decollo corto per il solo Garibaldi sono stati calcolati da Guido Zara in oltre 1.000 miliardi (60). Quindi per avere due portaerei con relativi aerei occorrerebbero come minimo 2.700 miliardi. Il problema con le portaerei è che, con lo sviluppo di missili sempre più precisi e `intelligenti', esse abbisognano di un enorme numero di mezzi per difendere se stesse. Non a caso la formazione di combattimento della flotta americana consiste in ben tre portaerei, con circa duecento aerei di cinque diversi tipi, di oltre venti altre navi da guerra di scorta e una ventina di unità ausiliarie. Secondo Edward N. Luttwack, un analista americano consulente del Pentagono, una "task force" aeronavale ``con buone probabilità di soprav

vivere'' nel Mediterraneo costerebbe all'Italia dai 4 ai 12 mila miliardi, aerei esclusi (61). Secondo l'ex-generale Luigi Caligaris il costo necessario a mettere in piedi la Forza di intervento rapido sarebbe di 2.500 miliardi (62). Anche se si tratta solo di stime, siamo già a cifre che superano l'intero bilancio della Difesa di un anno, che superano di molto i tremila miliardi delle tre leggi promozionali del 1975-76 e i mille miliardi dell'ultima legge speciale per AM-X, EH-101 e Catrin. Inoltre queste stime sono a nostro parere delle sottovalutazioni. Quanto costerebbero, ad esempio, i nuovi aerei da trasporto strategico già dichiarati necessari per la Fir? E quanto costerebbe mantenere le decine di migliaia di volontari di truppa fondamentali per interventi esterni sgraditi alla società civile (63)?

Addossarsi tutte queste spese sarebbe comunque necessario se esse garantissero al paese una maggiore sicurezza rispetto alle effettive minacce militari.

Vediamo un po' in dettaglio le caratteristiche delle due minacce alla sicurezza dell'Italia: quella a nordest e quella a sud, utilizzando i dati dell'Istituto internazionale di studi strategici (Iiss) di Londra e di altri studiosi sulle forze militari in gioco (64).

Nello scenario di un'invasione dell'Europa da parte delle truppe del Patto di Varsavia viene generalmente assunto che sarebbero le forze del Patto dislocate in Ungheria, assieme alle forze russe del distretto militare (dm) di Kiev, a farsi carico del fronte italiano. L'Esercito ungherese dispone di una divisione corazzata di categoria 2 (con organici fino al 50% del totale), nonché di cinque divisioni motorizzate ("motor rifle") di cui due in cat. 2 e tre in cat. 3 (dotate solo del personale necessario per l'inquadramento). Queste divisioni dispongono di 1.200 carri armati degli anni '50 (T-54 e T-55) e di 30 moderni T-72. L'aviazione ungherese dispone di circa 150 aerei da intercettazione (120 MIG-21 e 25 MIG-23). In Ungheria sono schierate anche due divisioni corazzate e due divisioni motorizzate sovietiche, ambedue in cat. 1 (con organici completi). Sempre in Ungheria l'Aviazione sovietica dispone di 135 MIG-21 e di 60 aerei SU-17 e SU-24 da attacco al suolo. Altre sei divisioni corazzate (cat. 2), quattr

o motorizzate (cat. 3) e una d'artiglieria potrebbero essere spostate dal dm di Kiev e usate per l'offensiva. Comunque, per mettere in campo le forze delle cat. 2 e 3 il Patto di Varsavia dovrebbe ricorrere ad una mobilitazione che non passerebbe inosservata e permetterebbe analoghe misure alla Nato. Prima di raggiungere l'Italia queste forze dovrebbero passare attraverso l'Austria e/o la Yugoslavia, affrontando la resistenza dei due paesi. Per le forze che avessero superato le difese di Austria e Yugoslavia l'unica credibile via di penetrazione in Italia sarebbero i 60 chilometri della soglia di Gorizia.

A difendere le Alpi ci sarebbero comunque cinque brigate alpine. A difendere la soglia di Gorizia ci sarebbero invece 13 brigate corazzate ("armoured"), meccanizzate e alpine, la brigata missili ed altre unità antiaeree dell'Esercito. In totale 130 mila uomini. Questi uomini disporrebbero di consistenti forze corazzate: oltre ai vecchi M-47, 920 Leopard 1 e 300 M-60A1. Tra i 1.110 pezzi d'artiglieria ci sono 150 moderni FH-70 e 268 M-109 e M-110. 60 sono per ora i nuovi elicotteri controcarro A-129 in via di consegna, assieme ad alcune migliaia di missili anticarro Milan. L'Aviazione ha a disposizione circa 300 aerei da combattimento e bombardamento, tra cui un centinaio di nuovi Tornado (77 già operativi e gli altri in via di consegna). Inoltre nel giro di qualche anno saranno consegnati 187 caccia AM-X da attacco al suolo. La forza di difesa italiana rispetto a questa minaccia è tale che in uno studio del Centro alti studi difesa (Casd) del 1983 si prospetta la possibilità di fare fronte all'attacco delle

forze del Patto di Varsavia solo a livello convenzionale, senza ricorrere all'uso delle armi nucleari tattiche (65). Inoltre è verosimile che anche le forze del Patto di Varsavia abbiano considerato questi elementi di forza sia dell'Italia che di Austria e Jugoslavia. ``In effetti - nota Maurizio Cremasco, ricercatore dell'Istituto affari internazionali di Roma - un'analisi delle esercitazioni del Patto di Varsavia dal 1970 al 1976 potrebbe portare alla conferma dell'ipotesi di una pianificazione militare del Patto di Varsavia che escluda l'invasione dell'Italia'' (66).

La valutazione più realistica della minaccia a nordest ha contribuito ad aumentare l'attenzione e l'impegno militare italiano a sud. Nello scenario di un conflitto tra blocchi nel Mediterraneo la minaccia principale alla sicurezza dell'Italia è costituita dalla forza aeronavale sovietica. La 5ª squadra navale sovietica (Sovmedron, "Soviet Mediterranean Squadron"), concentrata principalmente nel Mediterraneo occidentale, è formata da elementi della flotta del Mar Nero più alcuni sommergibili della flotta del Baltico. Normalmente la 5ª squadra è costituita da circa 45 unità, tra cui 10-12 navi da combattimento, 7-8 sottomarini d'attacco e 2 sottomarini con missili "cruise" (67). L'aviazione di Marina sovietica dispone anche di moderni aerei da bombardamento, basati a terra ma con un ampio raggio d'azione, come i TU-22 "Backfire". Circa un centinaio tra TU-22 e i più vecchi TU-16 "Badger" sono a disposizione della flotta del mar Nero. Nel Mediterraneo c'è anche la 6ª flotta americana formata normalmente da 30-3

5 unità, tra cui due portaerei con oltre 150 aerei, 14 navi da combattimento, quattro sottomarini d'attacco, un gruppo anfibio (un battaglione di marines su tre navi), 12 navi d'appoggio (68). Oltre alla 6ª flotta americana c'è nel Mediterraneo la Marina italiana con tre incrociatori, quattro cacciatorpedinieri, 16 fregate, otto corvette, nove sommergibili, 24 cacciamine, due navi da sbarco e diverse navi appoggio. Dal 1976 la Francia ha spostato nel Mediterraneo (Tolone) circa metà della sua flotta, corrispondente a due portaerei, 14 navi da combattimento e scorta, undici sottomarini (due nucleari d'attacco e nove a propulsione convenzionale), cinque cacciamine e cinque navi da sbarco. Da alcuni anni la Francia partecipa anche alle manovre Nato nel Mediterraneo. La Spagna, che dal 1982 è entrata nella Nato, dispone di una discreta flotta. Si tratta di circa 35 unità, tra cui una portaerei, 11 caccia, 11 fregate, quattro corvette, 12 cacciamine. Dal 1985 la Spagna partecipa a manovre congiunte con altri paes

i Nato nel Mediterraneo, anche se non è ancora chiaro quante unità siano destinate ad operare continuativamente in questo mare. Anche l'Inghilterra, come i due paesi sopracitati, partecipa da alcuni anni alle manovre congiunte della Nato nel Mediterraneo. La Grecia, altro paese Nato, dispone di dieci sottomarini, 14 caccia, sette fregate, 17 cacciamine, una ventina di unità da sbarco. La Turchia, anch'essa membro della Nato, ha a disposizione 16 sottomarini, 12 caccia, sei fregate, 33 cacciamine e una sessantina di unità anfibie. Anche se una parte delle forze navali greche e turche sarebbe impegnata contro la flotta sovietica del mar Nero, il contributo dei due paesi nel Mediterraneo sarebbe comunque significativo. In uno scenario di confronto tra blocchi nel Mediterraneo bisognerebbe considerare l'apporto che paesi come la Libia, la Siria e l'Algeria potrebbero dare alle forze del Patto di Varsavia. Apporto che però sarebbe più che bilanciato dalle forze navali dell'Egitto e di Israele.

Anche approfondendo l'analisi alle forze aeree e missilistiche presenti nel Mediterraneo, la cui descrizione dettagliata richiederebbe un capitolo a sé, il quadro dei rapporti di forza nel Mediterraneo non cambia: in questo mare c'è una netta superiorità delle forze della Nato. Secondo Maurizio Cremasco: ``L'equilibrio militare nella regione Sud appare, in generale ed in alcuni specifici settori, ancora a favore della Nato. Nel fronte Sud risulterebbe impossibile quell'attacco di sorpresa (o con minimo preavviso) che per quanto poco credibile come ipotesi di inizio delle ostilità in Europa sarebbe tecnicamente possibile sul fronte centrale... Inoltre senza il pieno controllo degli stretti turchi e la possibilità di utilizzare porti e aeroporti lungo il litorale africano, lo stesso Sovmedron non appare in grado di sostenere operazioni belliche prolungate, soprattutto se si considera la superiorità delle forze aeronavali occidentali'' (69). Per le forze sovietiche la disponibilità di basi d'appoggio sul litora

le africano è incerta. ``Né la Libia o la Siria, né tantomeno l'Algeria - spiega ancora Cremasco - possono essere aprioristicamente considerati paesi totalmente prosovietici (...) L'allineamento sulle posizioni dell'Urss è soggetto a evidenti limiti. La convergenza sul piano politico si realizza principalmente quando vi è una coincidenza d'interessi e di aspettative e quindi sulla base del conseguimento di obiettivi nazionali. I legami stabiliti attraverso gli aiuti militari non appaiono da soli in grado di fornire certezza sulla continuità sul piano politico... di condizionare totalmente le scelte di politica estera del paese ricevente''. Quindi una realistica ipotesi di difesa dalle minacce militari nel Mediterraneo, pianificata in collaborazione con gli alleati, non richiederebbe raddoppi del bilancio della Difesa, dovuti alla costruzione di nuovi strumenti di proiezione della potenza militare.

E' ovvio che, cambiando le premesse, si arriva a conclusioni diverse. Se la minaccia a cui rispondere viene allargata alle minacce non militari, se invece della difesa nel Mediterraneo si pensa alla proiezione nelle aree del Nord Africa e del Medio Oriente, se si assume una velleitaria ottica nazionalistica per cui l'Italia dovrebbe rispondere a tutti questi impegni da sola è inevitabile che i costi economici dell'apparato militare siano destinati ad esplodere. E forse, quelli economici, non sarebbero neanche i costi più pesanti da pagare con una tale politica.

Se le attuali spese e l'odierna configurazione dello strumento militare sembra, nel complesso, adeguata a garantire la sicurezza italiana in un quadro europeo, dobbiamo chiederci se il progetto definito dal Lb aumenterebbe la sicurezza regionale e internazionale.

A livello nazionale le risorse devolute alla proiezione offensiva della potenza militare a sud comporteranno, anche nel caso di aumenti consistenti degli stanziamenti militari, una equivalente sottrazione di risorse necessarie al mantenimento di una adeguata difesa del territorio nazionale. Il meccanismo è molto semplice ed è già stato sottolineato dieci anni fa dal deputato comunista Enea Cerquetti: ``In definitiva i potenziamenti raggiunti nel periodo '68-'74 non hanno cancellato punti deboli delle Forze armate, già denunciati nella stessa pubblicistica militare nei settori delle armi anticarro, della protezione antiaerea, della difesa delle coste, dei porti, del traffico marittimo. Al contrario stiamo per avere una linea di carri che ha una configurazione altamente offensiva, abbiamo una Aeronautica Militare in squilibrio verso il bombardamento, e una Marina Militare che cura sempre di più le sue capacità di proteggere convogli militari da sbarco più che altri convogli'' (70). Ancora oggi il Lb lamenta l'

arretratezza della difesa anticarro, la poca resistenza della rete radar ai disturbi elettronici, la mancanza di radar aerotrasportati per identificare aerei che volando a pelo d'acqua - cercassero di raggiungere il territorio italiano. A queste carenze se ne potrebbero aggiungere molte altre, tra cui la mancanza di un satellite europeo per controllare la situazione nel Mediterraneo (solo la Francia ne ha uno). Nuove e vecchie carenze difensive non sono state risolte, mentre si acquisivano nuove potenzialità offensive con la portaerei, le navi da sbarco, gli aerei da bombardamento strategico e nucleare. Ma il drenaggio delle risorse alla difesa non è solo economico. La concentrazione dell'attenzione a sud e sui conflitti locali distoglie risorse anche intellettuali dalla minaccia a nord-est ed estrania il dibattito italiano sulla sicurezza da quello degli altri paesi europei.

A livello di sicurezza regionale la proiezione offensiva della potenza militare delineata dal Lb non ci pare garantire una maggiore stabilità. Se consideriamo come regione quella mediterranea, compresi Medio Oriente e Nord Africa, gran parte dell'instabilità dell'area è dovuta direttamente o indirettamente alla mancata soluzione politica del problema palestinese. L'arretramento di questa soluzione politica e delle forze che la sostengono, avvenuto in questi ultimi anni, è dovuto a molti fattori: la debolezza delle forze che in Israele vogliono questa soluzione; la debolezza dell'Olp di Arafat che pure verso questa soluzione ha cercato di lavorare; il relativo interesse di molti paesi arabi a trovare una soluzione possibile e praticabile al problema palestinese; l'abbandono da parte dell'amministrazione Reagan dell'impegno, iniziato dalla precedente amministrazione Carter, per una soluzione politica; l'ostilità dell'Unione Sovietica ad una soluzione che, anche se positiva, si era sviluppata senza il suo appor

to; la mancanza di determinazione europea (e italiana) nel sostenere questa soluzione politica anche in presenza di una nuova amministrazione americana con opinioni divergenti. All'allontanarsi della soluzione politica al problema palestinese è corrisposto un uso sempre maggiore, ma sempre meno produttivo, della potenza militare. Con l'operazione "Pace in Galilea", Israele pensava di aiutare la minoranza cristiano-maronita ad assumere il potere. Un Libano controllato dall'alleato Gemayel avrebbe dovuto garantire, attraverso la repressione dei palestinesi, la sicurezza di Israele a nord. Nulla di ciò è stato ottenuto.

Al contrario, alla vecchia minaccia palestinese si è ora aggiunta quella degli sciiti più o meno fondamentalisti, con le loro tecniche di attacco suicida con autobombe. Risultati non diversi hanno ottenuto con il loro uso della potenza militare i contingenti americano e francese a Beirut. Al raid dell'aviazione israeliana contro il quartier generale dell'Olp di Tunisi sono seguiti il sequestro dell'Achille Lauro e gli attentati contro gli uffici della El Al a Vienna e Roma. Ai raid di Reagan contro la Libia è seguito l'attacco missilistico di Gheddafi contro Lampedusa. E non c'è alcun motivo razionale che faccia supporre che la catena dell'escalation militare e della tensione diminuirà in futuro. Anzi, un conflitto regionale si sta già pericolosamente allargando, coinvolgendo sempre nuovi attori e nuovi teatri, avvicinandosi pericolosamente all'Europa e alle sue armi nucleari. Analoghe considerazioni sulla sicurezza regionale possono essere svolte sulla proiezione della potenza militare nell'area mediterrane

a per risolvere contenziosi di natura economica ed energetica. Invece gli interventi, anche militari, che hanno avuto maggior successo nella regione sono stati quelli basati sull'autolimitazione della forza e collegati ad una prospettiva di soluzione politica dei conflitti. Di questa natura è stato l'intervento del contingente italiano a Beirut e quello del contingente Onu nel Sud del Libano, quello della Mfo nel mar Rosso e anche l'azione di sminamento del canale di Suez. Tutte azioni o legittimate dall'Onu o basate sul consenso preventivo di tutte le parti in causa (nonché sull'abbandono dell'impegno quando il consenso delle parti in causa è venuto a mancare).

La sicurezza internazionale ha assunto un significato del tutto nuovo con l'era nucleare. Allo sviluppo delle capacità distruttive delle armi nucleari si è accompagnato un parallelo sviluppo di iniziative e discipline necessarie al controllo di questo potenziale distruttivo senza precedenti. Si è cercato di limitare gli arsenali nucleari degli stati che li detenevano e si è cercato di impedire che nuovi stati acquisissero armi nucleari. Se sul secondo obiettivo qualcosa di significativo si è ottenuto, i livelli degli armamenti nucleari delle cinque potenze che ufficialmente li possiedono hanno raggiunto un livello tale da poter far saltare più volte in aria l'intero pianeta. Una condizione assurda che pone una seria minaccia: la fine della specie umana. Così, assieme ad una sempre più diffusa coscienza nucleare, si è anche sviluppata una giusta sensibilità di tutti i paesi ed i popoli affinché tra le potenze nucleari vi fosse un equilibrio il più possibile stabile, che evitasse l'esplodere di un conflitto nu

cleare. E' convinzione generalizzata che il teatro operativo europeo è quello in cui con maggiore probabilità potrebbe scoppiare una guerra nucleare. La distensione a livello europeo è così diventata uno degli obiettivi principali di quelli che in senso largo potremmo definire come pacifisti. Questa situazione di relativa stabilità europea è stata ultimamente messa in discussione. I pericoli connessi con le nuove armi e dottrine "warfighting" (letteralmente di combattimento, cioè che assumono che per dare credibilità alla deterrenza occorre migliorare la capacità di iniziare, sostenere e condurre vittoriosamente a termine una guerra nucleare) sarebbero di molto aumentati da una progressiva militarizzazione dei rapporti Nord-Sud che portasse la tensione verso il teatro europeo. Che e proprio quello che sta ora succedendo. Anche sotto questo aspetto il progetto di sviluppo militare del Lb non sembra aumentare la sicurezza internazionale. La maggiore attenzione dedicata dal Lb ad ipotesi di impiego operativo a

sud si accompagna ad un'analisi superficiale, che elude il dibattito aperto dagli altri alleati europei nella Nato, reticente sugli armamenti nucleari dislocati in Italia. Ma nascondere le dimensioni dell'armamento nucleare presente in Italia e ignorare i problemi posti dalle nuovi armi e dottrine operative (convenzionali, nucleari e integrate) non vuol dire risolverli. Anche negli ambienti militari sta emergendo una embrionale coscienza nucleare, espressa dal citato documento del Casd in cui si chiede il ritiro di almeno una parte delle armi nucleari tattiche. Ma il problema è più ampio. E' ora di chiedersi se la sicurezza italiana e europea venga aumentata dallo sviluppo continuo delle armi nucleari o dalla introduzione di una nuova generazione di armi chimiche (71). Così come a livello mondiale è ora di chiedersi che senso abbia aumentare arsenali nucleari capaci di distruggere più volte il pianeta. Anche se si dice che le armi nucleari abbiano garantito quarant'anni di pace in Europa non è dimostrabile i

l contrario, cioè che senza le armi nucleari questa pace non ci sarebbe stata. Ma, soprattutto, non è detto che ciò che è stato valido per il passato lo sia per il futuro. Anzi le caratteristiche tecniche e le dottrine d'impiego delle armi nucleari fanno pensare proprio il contrario. In un mondo dominato dagli unilateralismi riarmisti delle superpotenze e dalla capacità di "overkill" (letteralmente di `sovrauccisione', cioè di annientare la popolazione avversaria più di una volta), atti di disarmo nucleare unilaterale ci sembrano essere un contributo alla sicurezza collettiva. La progressiva riduzione degli arsenali nucleari e il ritorno ad una situazione di dissuasione nucleare minima ci sembra essere l'ipotesi più auspicabile. Inoltre, come abbiamo cercato di dimostrare, anche un Italia nuclearmente disarmata avrebbe la capacità di difendere se stessa e contribuire alla difesa dell'Europa.

Nel criticare la politica di sicurezza proposta dal Lb abbiamo già implicitamente indicato alcuni elementi di una diversa proposta di sicurezza. Al disarmo nucleare unilaterale dell'Italia dovrebbe corrispondere un impegno militare convenzionale realistico, basato su una maggiore collaborazione con gli alleati europei a tutti i livelli, da quello operativo a quello della costruzione di nuovi armamenti. Alla rinuncia della proiezione di potenza nella regione mediterranea dovrebbe corrispondere una più adeguata capacità militare difensiva e una politica di sicurezza in cui i mezzi non militari abbiano un ruolo maggiore.

Una politica estera basata sull'essere amici di tutti, sempre e comunque, non è una politica estera. Ma una politica estera sovramilitarizzata non porta alla soluzione delle tensioni. In una omogenea e coerente politica di sicurezza, maggiore spazio devono avere gli strumenti della diplomazia, quelli di pressione economica, la valorizzazione di vecchie e nuove istituzioni sovranazionali per la risoluzione dei conflitti. Il disinteresse storico ed il latente scetticismo dei governi e dell'opinione pubblica italiana per l'Onu va ribaltato. E' ormai urgente e matura la possibilità di istituire nuovi fori per la risoluzione di conflitti in aree regionali ad alta tensione. E' curioso come il Lb affermi che il ruolo svolto dal Gruppo di Contadora in America centrale sia positivo e non si ponga il problema di sviluppare un analogo luogo di confronto per il Mediterraneo, che è proprio ciò di cui c'è bisogno.

Sia i rapporti Est-Ovest che quelli Nord-Sud richiedono perlomeno una ridefinizione della strategia europea e dei modi di funzionamento della Nato. Rispetto ai processi di riarmo nucleare sviluppati da Unione Sovietica e Stati Uniti, diversi paesi Nato, come Spagna, Norvegia, Islanda e Danimarca hanno rifiutato e tutt'ora si rifiutano di schierare armi nucleari. Rispetto alle spinte dell'amministrazione Reagan per un confronto militare con i paesi del Terzo mondo (più o meno legato al terrorismo o ai contenziosi energetici o al confronto globale con l'Urss) vanno prese chiaramente le distanze. L'utilizzo delle basi Nato nel Mediterraneo per operazioni unilaterali americane che esulano dagli obiettivi difensivi della Nato è inaccettabile. La sistematica mancanza di consultazione dei governi europei da parte dell'amministrazione Reagan sulle operazioni delle unità americane in Europa non lascia spazio. O le operazioni delle forze Nato nel Mediterraneo vengono subordinate anche all'autorità politica dei paesi e

uropei, oppure l'uscita dell'Italia dalla Nato diventa una necessità. La prima ipotesi può passare per una riforma della Nato che delinii con molta chiarezza nuovi meccanismi politici e operativi (strutture di comando) che riaffermino almeno un potere di veto del paese ospitante sull'utilizzo delle forze Nato per altri fini da quelli difensivi. La prima ipotesi potrebbe anche realizzarsi molto più semplicemente con l'avvento di una nuova amministrazione al governo degli Stati Uniti. Comunque, sia per valutare la possibilità di una riforma che per preparare l'uscita dalla Nato, sarebbe utile una dimostrazione della volontà dell'Italia di non accettare gli atti unilaterali degli Stati Uniti, ad esempio decidendo l'uscita dall'alleanza militare ma rimanendo nell'alleanza politica della Nato (come fece a suo tempo la Francia). Un simile atto, non definitivo, porrebbe con la giusta forza il problema della nostra divergenza con il nostro maggiore alleato. Limitarsi alle parole non farebbe altro che alimentare la c

onvinzione dell'amministrazione Reagan di poter trascinare gli alleati europei verso impegni da questi non condivisi.

Accanto alle misure di natura politica e giuridica è però anche necessario iniziare a sviluppare nuove strategie europee di difesa, che non siano pure forme di debole e titubante resistenza a quelle americane e che rispondano in modo diverso da queste alla reale minaccia militare del Patto di Varsavia. La superiorità tecnologica dei paesi occidentali e anche la maggiore flessibilità e capacità di iniziativa degli eserciti occidentali (dovuta alla libertà tipica dei sistemi democratici occidentali) possono coniugarsi in un modello di difesa più solido, ma che non possa essere interpretato dall'avversario come una maggiore minaccia per il suo territorio. Un modello in cui la superiorità difensiva di un paese dissuada il potenziale aggressore dall'attaccare e contemporaneamente lo spinga a ricercare anche lui maggiori capacità difensive. La ricerca e il dibattito sulla ``difesa difensiva'' (o ``difesa non offensiva''), che è già iniziato in altri paesi europei occidentali (71), è il segno di una rinascita europ

ea anche nel pensiero strategico, una rinascita che cerca di coniugare nel reale una prospettiva di pace con una maggiore sicurezza.

NOTE

1. Sulla funzione di repressione e deterrenza interna come costante delle Forze armate italiane vedi ROCHAT G., MASSOBRIO G., "Breve Storia dell'Esercito italiano dal 1861 al 1943", Giulio Einaudi, Torino, 1978.

2. Sul tentativo golpista del 1964, impostato dal generale De Lorenzo. vedi TERRACINI U. e altri, "Sugli eventi del giugno-luglio 1964 e le deviazioni del SIFAR", Feltrinelli, Milano, 1971. Gli altri tentativi golpisti o di destabilizzazione avvenuti alla fine degli anni '60 e nei primi anni '70 sono stati oggetto di procedimenti penali e di inchieste giornalistiche. Mancano però ricostruzioni storiche che colleghino le singole trame, dalla strage di piazza Fontana al golpe Borghese, dalla Rosa dei Venti all'allarme nelle caserme del 1974. Sul ruolo pretoriano delle forze armate in questo periodo vedi anche ROCHAT G., MASSOBRIO G., "op. cit.", p. 309 e CEVA L., "Le Forze armate", Utet, Torino, 1981, pp. 368-369.

3. Cfr. LAIRD M. R., ``A Strong Start in a Difficult Decade, Defense Policy in the Nixon-Ford Years'', "International Security", autunno 1985, pp. 5-26.

4. STATO MAGGIORE DELLA MARINA, ``Prospettive e orientamenti di massima della Marina Militare per il periodo 1974-1984'', "Rivista Marittima", apr. 1974. Ampi stralci del documento, noto come ``libro bianco della Marina'', sono riportati in CERQUETTI E., "Le Forze armate italiane dal 1945 al 1915", Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 353-358, da cui citiamo.

5. Gli articoli dei fautori della difesa territoriale sono in gran parte raccolti in ISTITUTO STUDI E RICERCHE SULLA DIFESA (Istrid) (a cura di), "La difesa del territorio", Roma, 1980.

6. "Ibidem". Vedi in particolare gli interventi, favorevoli alla difesa territoriale. del deputato socialista Falco Accame e del deputato della Sinistra indipendente Eliseo Milani e quello, contrario, di Aldo D'Alessio responsabile comunista per i problemi delle forze armate.

7. Cit. in ARKIN W. M., ``A Global Role for Nato'', "Bulletin of the Atomic Scientist", gen. 1986, pp. 4-5.

8. Alla sottovalutazione del controllo delle armi nucleari da parte dei militari e politici italiani fa riscontro la poca attenzione accademica su questo argomento. Come positiva eccezione a questa tendenza citiamo la buona introduzione al controllo delle armi nucleari di CASADIO F. A., ``La gestione dei sistemi strategici: il `controllo dei conflitti' e le ricerche sulla pace'', in JEAN C. (a cura di), "Il pensiero strategico", Franco Angeli, Milano, 1985, pp.133-188.

9. Cfr. ISTITUTO AFFARI INTERNAZIONALI (Iai) (a cura di), "L'Italia nella politica internazionale 1983-1984", Franco Angeli, Milano, 1986, p. 164.

10. "Ibidem", p. 163.

11. CICCARDINI B., ``L'Italia deve avere una sua atomica o può fidarsi degli ombrelli altrui?'', "Il Tempo", 30 ago. 1982.

12. BOSCO M., ``Un confronto metodico sui problemi delle F.A.'', "Il Popolo", 13 mar. 1983.

13. LAGORIO L., "Indirizzi di politica militare", Ministero della difesa, Roma, giu.-lug. 1980. Le citazioni che seguono sono tratte da questa pubblicazione.

14. LOVINO F., CARUSO G., ``Conflitti nel mondo'', "Rivista militare", gen.-feb. 1982, pp. 15-23.

15. La cartina è tratta da ARKIN W. M., FIELDHOUSE R. W., "Nuclear Battlefields", Ballinger, Cambridge (Usa), 1985, pp. 4-5. L'area di responsabilità del Comando centrale americano (Uscentcom) è stata recentemente allargata fino a coprire l'Afghanistan e il Pakistan. Cfr. HARRISON S. S., ``Measures to Defuse the Indian Ocean and the Gulf'', "International Herald Tribune", 3 apr. 1986.

16. LAGORIO L., "Appunti" 1918/1981, Le Monnier, Firenze, (1981), pp. 236.

17. "Ibidem, pp. 174-177.

18. ISTITUTO AFFARI INTERNAZIONALI (Iai) (a cura di), "L'Italia nella politica internazionale 1980-1981", Edizioni di Comunità, Milano, 1982, p. 182.

19. Cfr. "Ibidem", pp. 180-181.

20. Cfr. il punto 5 della lettera di accordo tra il Governo italiano e quello libanese, riportato in IAI (a cura di), "L'Italia nella politica internazionale 1982-1983", Edizioni di Comunità, Milano, 1985, p. 77 nota 24.

21. Le operazioni di "peace keeping" sono un'istituzione relativamente nuova nel campo degli interventi militari e rispondono al tentativo di dotare la comunità internazionale di strumenti in grado di garantire le norme del diritto internazionale limitando al minimo l'uso della forza tra gli Stati. La maggior parte delle operazioni di "peace keeping" è stata controllata dall'Organizzazione delle nazioni unite. A partire dagli anni '60 l'Onu ha condotto 13 operazioni di questo genere, in cui sono morti 664 uomini. Vale qui la pena di riportare l'analisi ufficiale dell'Onu sul concetto e sulla pratica del "peace keeping": ``Poco dopo la creazione delle Nazioni Unite nel 1945, divenne chiaro che alcuni mezzi previsti dallo Statuto per mantenere la pace internazionale non si sarebbero potuti applicare a causa del clima di guerra fredda sviluppatosi tra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Così, invece dell'impegno comune dei paesi più forti per imporre la pace mondiale, come previsto dallo Statuto, le

Nazioni Unite iniziarono a creare missioni di osservatori militari e, in seguito, forze armate con armi leggere fornite da piccole e medie potenze. Sebbene anche la Lega della nazioni avesse usato delle tecniche simili (ad esempio mandando nel 1935 una forza multilaterale di 3.300 uomini a controllare la corretta esecuzione del plebiscito sul destino della Saar), le operazioni di "peace keeping" sono una vera innovazione delle Nazioni Unite. Il personale dell'Onu, mandato con l'accordo delle parti in causa, non punta a imporre la pace ma a contenere le situazioni esplosive per dare una possibilità alla pace. Si tratta essenzialmente di azioni di freno, mirate a fermare o a controllare un conflitto mentre si stanno portando avanti i tentativi di portare le parti in causa al tavolo del negoziato... La definizione delle operazioni di "peace keeping" nei rapporti del segretario generale è quella di un'operazione che comprende personale militare ma senza potere di imposizione ("enforcement"), stabilita dall'Onu

per aiutare a mantenere o riportare la pace in aree di conflitto. Le operazioni sono di due tipi: missioni di osservatori e missioni di "peace keeping". Ambedue sottostanno agli stessi principi. Sono create dal Consiglio di sicurezza e, eccezionalmente, dall'Assemblea generale, e sono sotto la direzione del segretario generale. Esse devono godere dell'approvazione dei governi ospitanti e, di norma, anche delle altre parti coinvolte. Il personale militare necessario viene fornito dagli stati membri su basi volontarie. Gli osservatori militari non sono armati e, mentre i soldati della missioni di peace keeping dell'Onu sono armati con armi leggere, essi non sono autorizzati all'uso della forza se non per l'autodifesa. Le operazioni non debbono interferire con gli affari interni del paese ospitante e non devono essere in alcun modo usate per favorire una delle parti in conflitto... Le operazioni di "peace keeping" sono state generalmente usate in conflitti regionali. Esse assolvono un ruolo di un imparziale e o

ggettivo terzo attore che aiuta a creare e a mantenere la cessazione del fuoco e forma una zona cuscinetto tra le parti contrapposte''. Cfr. UNITED NATIONS, "The United Nations at Forty", United Nations Publication, New York, 1985, pp. 90-91.

22. La spartizione delle cariche di stato e di governo avviene in Libano sulla base di un accordo tra le diverse comunità religiose, stipulato decine di anni or sono. Questo sistema statale, non basato su elezioni che tengano conto delle modifiche avvenute nel corpo elettorale, non può essere considerato democratico. A livello di cariche governative e statali la minoranza cristiano-maronita è sovrarappresentata. Anche tra gli ufficiali delle forze armate libanesi, soprattutto negli alti gradi, i maroniti sono sovrarappresentati.

23. Cit. in IAI (a cura di), "L'Italia nella politica internazionale 1982-1983, op. cit.", p. 94.

22. Discorso del Ministro LAGORIO alla Commissione difesa della Camera dei deputati, 13 ott. 1982, testo del Servizio pubblica informazione Difesa p.l.

25. L'espressione ``guerra parallela'' sembra fosse stata inventata dallo stesso Mussolini, come rileva Giorgio Rochat riportando la testimonianza del generale Soddu citata in ROSSI F., "Mussolini e lo Stato Maggiore. Avvenimenti del 1940", Tipografia Regionale, Roma, 1951, p. 35. Sull'analisi della guerra parallela alla Germania vedi ROCHAT G., MASSOBRIO G., "op. cit.", pp. 270-275.

26. La distinzione tra `falchi' e `colombe' è molto usata negli altri paesi occidentali. Pur essendo schematiche queste definizioni sono utili dal punto di vista conoscitivo. Esse individuano differenti approcci alla politica di sicurezza in cui si manifestano non solo differenti analisi, ma anche diverse visioni politiche e ideologiche del mondo. In Italia la distinzione è scarsamente usata e prevale un neutrale giudizio di ``esperti'' come tecnici al di sopra delle parti. Anche questo è un segno della marcata arretratezza culturale sulle questioni di sicurezza del nostro paese.

27. OSTELLINO P., CALIGARIS L., "I nuovi militari. Una radiografia delle Forze armate italiane", Mondadori, Milano, 1983. Le citazioni che seguono sono rispettivamente alle pp. 38,

28. Cit. in IAI (a cura di), "L'Italia nella politica internazionale 1982-1983, op. cit.", pp. 82-83 per la prima citazione; p. 92 per la seconda.

29. SPADOLINI G., "Indirizzi di politica militare", presentati da Giovanni Spadolini nel novembre 1983, riportati in "Informazioni parlamentari difesa (Ipd)",, n. 19-20, 1983, pp. 29-36, da cui sono tratte le citazioni che seguono.

30. Si tratta di Eugenio Rambaldi e Umberto Cappuzzo. In particolare cfr. l'intervista rilasciata da quest'ultimo a "Panorama Difesa", ott.-nov. 1982.

31. Il differente uso tecnico e politico delle armi pesanti da parte del contingente italiano è descritto in ANGIONI F., "Un soldato italiano in Libano", Rizzoli, Milano, 1984, pp. 101-102: ``Anche gli altri contingenti della forza multinazionale disponevano di un supporto navale o aeronavale. Il controllo di questi mezzi o di queste armi non era, per i francesi e gli americani, assegnato ai comandanti di contingente, ma mantenuto dagli organi di comando superiori, dislocati fuori dal Libano. Nel nostro caso invece si era ritenuto opportuno, a livello politico e militare, far dipendere anche l'impiego del fuoco navale dal comandante del contingente. Una decisione che doveva rivelarsi molto saggia. Permise a chi aveva il controllo minuto per minuto della situazione a terra di reagire alle offese, facendo intervenire i cannoni o minacciandone l'intervento al momento opportuno e con la necessaria immediatezza. Comportarsi in maniera diversa, reagendo `a zona' o non tempestivamente, ci avrebbe fatto superare que

l confine molto labile che separa l'autodifesa dalla rappresaglia''. Angioni racconta poi di come, nel settembre 1983, la minaccia dell'uso dell'artiglieria navale italiana sia bastato a spostare il tiro delle artiglierie druse. Cfr. "ibidem", pp. 105-109.

32. Ricorda Angioni che ``una volta lo Stato maggiore libanese decise di sostenere la polizia in una grossa operazione di `ripulitura' della città dagli elementi sospetti; fu chiesto il concorso della forza multinazionale. Ogni contingente, nell'ambito del proprio settore, avrebbe dovuto circondare i quartieri, partecipare ai rastrellamenti delle case ed effettuare arresti (...) Durante la riunione con i responsabili libanesi... cercai di spiegare l'inopportunità della partecipazione di forze di pace ad operazioni di quel tipo (...) Il nostro compito era sostenere l'Esercito libanese nella difesa da nemici esterni, e non partecipare a operazioni contro la popolazione (...) Non tutti erano d'accordo, ma noi non cambiammo idea''. "Ibidem", pp. 60-61.

33. Si tratta del "War Powers Act" approvato dal Congresso americano nel corso della guerra nel Vietnam.

34. Il 16 settembre 1983 il ministro della Difesa Spadolini dichiara a "La Repubblica" che ``su questa storia è giusto dire una parola chiara: i soldati hanno in Italia l'obbligo dell'obbedienza agli ordini legittimi dei loro superiori''. Secondo Franco Angioni la decisione di passare dalle partenze volontarie a quelle comandate viene presa, su proposta di Italcon 2, dallo stato maggiore dell'Esercito e non dal governo, che viene solo informato della nuova misura. Cfr. ANGIONI F., "op. cit.", p. 80.

35. Intervista di Vittorio Marulli a "Il Giornale", 16 apr. 1984.

36. MARULLI V., ``Compiti, responsabilità e impegni della Marina militare alla luce della situazione del Mediterraneo e delle aree adiacenti'', conferenza tenuta al Centro alti studi militari (Casd) il 19 giugno 1984, "Quaderni del Casd 83/84, p. 14.

37. Intervista di Basilio Cottone a "Il Giornale", 20 apr. 1984.

38. COTTONE B., ``L'Aeronautica militare nell'evoluzione dello Strumento nazionale. Situazione, problemi, prospettive'', conferenza tenuta al Casd il 12 giugno 1984, "Quaderni del Casd 83/84", p. 4.

39. Intervista di Umberto Cappuzzo a "Il Giornale", 16 apr. 1984.

40. MINISTERO DELLA DIFESA, "La Difesa. Libro bianco 1985", Ministero della difesa, Roma, nov. 1984, 2 voll. Il vol. 2 è un'appendice documentaria. A questa pubblicazione si riferiscono le citazioni che seguono, ove non diversamente specificato.

41. La "Air Land Battle" (Alb), la nuova dottrina operativa dell'Esercito americano, è esposta nel manuale operativo ("Field Manual") 100-5. Ampi stralci di questo manuale si trovano in CENTRO SICILIANO DI DOCUMENTAZIONE GIUSEPPE IMPASTATO (a cura di), "Airland Battle. La strategia di guerra Usa 1984-2019", Satyagraha editrice, Torino, 1985. Nello stesso volume c'è la traduzione del documento "Air-Land Battle 2000"; una versione lievemente modificata dall'Alb sottoscritta nell'agosto 1982 sia dal generale americano Meyer che dall'ispettore delle forze armate della Germania Federale Glanz. Nella pubblicazione "Angriff als Verteidigung" (1984) il gruppo parlamentare dei verdi tedeschi ha criticato l'impostazione offensiva della nuova dottrina nelle sue varie versioni. Una traduzione del documento dei verdi tedeschi si trova in "Futura, bollettino di informazioni per la pace e il disarmo", suppl. a "Arcipropone", settimanale di informazione dell'Arci di Firenze, n. 49, 1985. Sulle affinità tra Alb e Fofa vedi P

LESH D. T., ``Airland Battle Natòs Military Posture'', "Adiu Report", mar.-apr. 1985, pp. 7-11. La necessità di una più chiara definizione della strategia Nato rispetto a quella dell'Esercito americano ha portato nel 1985 il Comitato piani difesa della Nato a definire un quadro concettuale militare ("Conceptual Military Framework", Cmf). Sul Cmf e le sue somiglianze con l'Alb vedi DE WIJK R., ``Nato Plans for the 1990s'', "Adiu Report", set.-ott. 1985, pp. 6-9.

42. Cfr. la direttiva a lungo termine del comandante supremo delle forze alleate in Europa (Saceur), approvata dal Comitato piani difesa della Nato il 9 novembre 1984, riportata in "Ipd", n. 6-7-8, 1985, pp. 19-22.

43. A p. 41 del cit. "La Difesa Libro bianco 1985", a proposito della missione a nord-est, si afferma che ``la manovra difensiva'' (sic) prevede come primo compito di ``individuare ritardare, logorare il movimento delle forze avversarie "prima ancora che esse investano le posizioni di difesa", impiegando a tal fine le forze aeree e il fuoco dei sistemi d'arma a più lunga gittata'' (il corsivo è nostro). Dato che la dottrina ufficiale della Nato e dell'Esercito italiano e quella della difesa avanzata, tesa a contenere l'offensiva avversaria a ridosso della frontiera, il programmato attacco di logoramento delle forze avversarie prima del contatto diretto con quelle proprie non potrebbe che avvenire nei territori dell'Austria e della Jugoslavia. La scelta di acquisire una profondità di manovra nel territorio avversario è una delle caratteristiche, assieme all'utilizzo delle nuove tecnologie, dell'Alb e della Fofa. Sempre nel 1984 il ministro Spadolini spiega che ``le nuove tecnologie... miglioreranno... la dife

sa in profondità e la mobilità delle forze'' nello scacchiere nordorientale. Cfr. SPADOLINI G., "Nota aggiuntiva allo stato di previsione per la Difesa 1985", Ministero della difesa, Roma, ott. 1984, p. 3. Nel 1985 Spadolini ritorna con più chiarezza sull'argomento, spiegando che per realizzare la difesa avanzata a nord-est bisogna ``interdire l'alimentazione dello sforzo offensivo nemico mediante la neutralizzazione, soprattutto con il fuoco in profondità, degli scaglioni successivi e delle riserve''. Un ruolo di primo piano spetta in queste operazione, oltre che ai carri armati, agli aerei ed elicotteri che devono ``logorare il dispositivo avversario, reciderne i flussi di rifornimento ed impedire la manovra delle riserve''. Cfr. SPADOLINI G., "Nota aggiuntiva allo stato di previsione per la Difesa 1986", Ministero della difesa, Roma, ott. 1985, pp. 4 e 5. In maniera molto più esplicita sulla proiezione offensiva della forza nei territori altrui si esprime Carlo Maria Santoro, docente dell'Università di Bo

logna che ha fatto parte del comitato ristretto per la redazione del "Libro bianco". A proposito della missione a Nord Est, Santoro prevede esplicitamente la proiezione immediata, quasi preventiva della forza militare italiana per bloccare l'avanzata sovietica a Karlovac e Lubiana (Jugoslavia) e sull'asse Innsbruck-Graz (Austria). Questa nuova strategia, definita esplicitamente come applicazione della "Air Land Battle" nel Nord-Est, sarebbe giustificata da una poco credibile strategia sovietica di sfondamento in Austria per poi attaccare il Trentino, nonché da una ancora meno credibile ipotesi di non resistenza e/o collaborazione di Austria e Jugoslavia ad un'invasione sovietica. Cfr. SANTORO C. M., CALIGARIS L., "Obiettivo difesa", Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 55-79.

44. Cfr. ARKIN W. M., ``Evolving Military and Political Role of U.S. Military Forces and Nuclear Weapons in Italy'', relazione presentata al convegno ``Armi nucleari e controllo degli armamenti in Europa'', Castiglioncello (Li), 21-25 ott.

1985, p. 4. L'Unione scienziati per il disarmo (Uspid), organizzatrice del convegno, ha curato la pubblicazione degli atti nel fascicolo V-XII/1985 della rivista "Scientia". Cfr. anche, dello stesso autore e di Richard Fieldhouse, il capitolo ``Le forze americane in Italia'', in ISTITUTO DI RICERCA PER IL DISARMO LO SVILUPPO E LA PACE (Irdisp) (a cura di), "Quello che i russi già sanno e gli italiani non devono sapere" (2ª edizione), Irdisp, Roma, mar. 1984, pp. 7-24. Una stima pressoché coincidente con quella di Arkin è in DE ANDREIS M. ``The Nuclear Debate in Italy'', "Survival", mag.-giu. 1986, pp. 195-207.

45. Cfr. "Ipd", n. 21, 1983, pp. 48-49.

46. Cfr. COTTA RAMUSINO P., ``Intervento di Paolo Cotta Ramusino'', relazione presentata al citato convegno ``Armi nucleari e controllo degli armamenti in Europa'', p. 7.

47. Dichiarazione di Spadolini al Senato della Repubblica del 20 febbraio 1985, in "Ipd", n. 1-2, 1985, pp. 46-47.

48. Il testo del d.d.l. governativo sull'aviazione imbarcata emanato il 6 agosto 1985, è in "Ipd", n. 15-16-17, 1985, p. 65. 49. Il dibattito tra Marina e Aeronautica sull'aviazione di Marina o sugli aerei imbarcati si è sviluppato con molta ampiezza e forte polemica nel 1984-85. Una sintesi degli argomenti si può trovare nel capitolo sulla politica strategica e militare dell'annuario dell'Istituto affari internazionali di Roma, "L'Italia nella politica internazionale 1984-85", di prossima pubblicazione presso l'editore Franco Angeli. Schematicamente, il contenzioso tra le due armi riguardava due nodi: il modello di difesa e il monopolio sui velivoli ad ala fissa. Per l'Aeronautica la volontà della Marina di dotarsi di una propria aviazione, anche imbarcata su portaerei, corrispondeva ad una politica di proiezione aggressiva della forza. Essendo quella della Marina una politica errata e poco costituzionale, l'Areonautica non vedeva alcun motivo di applicarla e di intaccare il proprio monopolio sui velivoli a

d ala fissa. La Marina richiedeva una propria aviazione per diversi motivi, alcuni di tipo funzionale generale (per i quali anche la Marina tedesco occidentale possiede aerei basati a terra), altri di tipo funzionale specifico (protezione della portaerei Garibaldi in operazioni lontane dalle basi aeree metropolitane). Se il criterio principale di scelta fosse stato quello di consolidare un modello di difesa strutturalmente difensivo, si sarebbe potuti arrivare ad una rottura del tradizionale monopolio dell'Areonautica italiana sugli aerei e alla costituzione di un'aviazione di Marina alla tedesca. Il criterio principale seguito da Spadolini è stato invece quello di una parziale ridistribuzione del potere sugli aerei tra le sub-corporazioni di forza armata. Il monopolio dell'Aeronautica sugli aerei è stato rotto, ma solo limitatamente agli aerei che verranno imbarcati sulla Garibaldi. La Marina avrà il totale controllo sulla potenza della sua portaerei ma dovrà dipendere per il pattugliamento marittimo e la l

otta antisommergibile dagli aerei dell'Areonautica.

50. Vedi al proposito quanto afferma Carlo Maria Santoro, che ha preso parte alla stesura del "Libro Bianco": ``L'enucleazione di una apposita missione per gli interventi esterni, tuttavia, creò qualche problema di ordine politico. Il sospetto che la Missione 5 potesse in qualche modo assumere un carattere offensivo e di "force projection" soprattutto nelle "outer area" della Nato, indusse il Ministro della Difesa a trasferire la questione della costituenda FOIR nell'ambito della Missione 4 (difesa del territorio, cioè la meno inquietante di tutte)''. Cfr. SANTORO C. M., CALIGARIS L., "op. cit.", p. 98.

51. SPADOLINI G., "Nota aggiuntiva allo stato di previsione per la Difesa 1985, op. cit.", p. 3.

52. Cfr. ROSSI S. A., ``Diecimila `Rambo' nelle sabbie mobili di ministeri e bilanci'', "Il Sole 24 Ore", 17 dic. 1985. Sulla strutturazione e gli obiettivi della Forza di intervento rapido cfr. CALlGARIS L., CREMASCO M., ``Italian Rapid Intervention Force'', "Paper Iai"/02/85, Istituto affari internazionali Roma. Nella parte curata da Caligaris si distingue accuratamente tra operazioni in territorio nazionale, continentale ed oltremare, nonché tra operazioni d'intensità diverse. Le distinzioni sono collegate alla scelta delle diverse unità militari da assegnare per ogni specifica operazione al comando della Fir. Le operazioni esterne al territorio nazionale a media e alta intensità vanno ben oltre il "peace keeping" e prevedono l'intervento unilaterale dell'Italia ``per assolvere impegni presi dal paese e/o proteggere i cittadini e gli interessi italiani all'estero''. La concezione offensiva che accompagna questa impostazione della Fir, e il suo legame con la dottrina dell'Alb, è evidente nella descrizione

di operazioni in profondità (fino a 80 km.) nel territorio jugoslavo che dovrebbero essere sviluppate da unità del 5º corpo d'armata. Viene spontaneo da chiedersi se le opinioni di Caligaris siano condivise dalle autorità militari e sé, in caso affermativo, queste si siano premurate di sentire l'opinione del governo jugoslavo.

53. Cfr. CHIPMANN J., ``French Military Policy and African Security'', "Adelphi Papers" n. 201, International Institute for Stategic Studies (Iiss), Londra, estate 1985, pp. 17-18. I "Transall" da trasporto di cui dispone la Francia possono percorrere a pieno carico solo 1.800 km. Anche con la possibilità di essere riforniti in volo questi aerei debbono comunque disporre di scali intermedi per raggiungere il teatro operativo dell'Africa centrale. Scartata l'ipotesi di acquistare l'aereo da trasporto americano "Starlifter" C-141, il governo francese ha ripiegato sulla possibilità di usare aerei civili come l'Airbus. Le autorità francesi non ritengono però che questa sia la soluzione adeguata e nel 1984 l'allora ministro della Difesa Hernu ha avviato colloqui con funzionari dei governi europei ed americano per lo sviluppo congiunto di un aereo da trasporto strategico per il 2000.

54. Cfr. "Ipd" n. 15-16-17, 1985, pp. 63-65.

55. Sulla possibilità che i missili lanciati contro la base radar della Guardia costiera americana di Lampedusa siano, invece che Scud balistici sovietici, missili lanciati da una motovedetta libica (che è equipaggiata con missili Otomat dell'azienda italiana Oto Melara), cfr. WATSON R. e altri ``Reagan's Riders'', "Newsweek", 28 apr. 1986.

56. Cfr. NORDLAND R., WILKINSON R., ``Inside Terror, Inc.'', "Newsweek", 7 apr. 1985.

57. Intervista di Giovanni Spadolini a "La Repubblica" del 23 apr. 1986, dove il ministro della Difesa afferma: ``Contro missili balistici a guida inerziale... non c'è difesa possibile né avvistamento tempestivo. Salvo, naturalmente l'attacco preventivo alle loro basi di lancio o la rappresaglia dopo''.

58. Cfr. CALIGARIS L., ``Il Sud, naturalmente'', in "Fuoco sull'Italia", suppl. a "Panorama" del 20 apr. 1986. Nell'articolo viene riproposto tutto l'arsenale di strumenti militari offensivi caldeggiati di volta in volta dai falchi: la portaerei, la Fir, ecc. Cfr. anche SILVESTRI S., ``E se la miglior difesa fosse l'attacco?'', "L'Europeo", 18 gen. 1986. Nell'articolo la minaccia mediterranea è chiaramente identificata nella Libia, contro la quale si prevede l'utilizzo, a seconda della necessità, sia della Fir che dell'aviazione imbarcata sul Garibaldi. L'auspicio di un attacco preventivo, esplicito nel titolo dell'articolo, è stato esaudito tre mesi dopo dalle portaerei americane.

59. Il costo attuale del Garibaldi è stato ricavato portando in lire 1986 i costi sostenuti nei vari anni per l'incrociatore tuttoponte. Cfr. il quinto capitolo di questo volume.

60. Cfr. ZARA G., ``Il bilancio della difesa non consente sprechi e inutili sovrapposizioni'', "L'Avanti", 27 mar. 1985.

61. Intervista di Edward N. Luttwack al "Corriere della Sera", 14 lug. 1984.

62. Cfr. CALIGARIS L., CREMASCO M., "op. cit.", p. 65.

63. La scelta di aumentare i volontari di truppa a breve ferma (o soldati di leva a lunga ferma) non è come generalmente si crede in Italia una scelta tecnica, bensì principalmente politica. Il problema tecnico legato alla complessità tecnologica dei moderni sistemi d'arma, che richiedono un maggiore periodo di addestramento per il personale, potrebbe essere risolto in altri modi. In primo luogo con la valorizzazione delle conoscenze precedentemente acquisite dai soldati di leva; in secondo luogo attraverso un periodo di ferma anche più lungo ma retribuito come un lavoro; in terzo luogo attraverso misure di incentivazione al reclutamento per alcuni anni di giovani ``poveri ma intelligenti'', cui proporre in cambio di 3-5 anni di servizio il pagamento degli studi universitari. Ma la scelta del soldato volontario, che fa del lavoro militare una professione in analogia con quella del sottoufficiale e dell'ufficiale, mira a ben altri risultati politici. La storia dei conflitti degli ultimi dieci-quindici anni mo

stra come le truppe di leva siano sostanzialmente inaffidabili per interventi aggressivi e di occupazione in territorio straniero. I soldati di leva americani in Vietnam, quelli russi in Afghanistan, quelli portoghesi nelle colonie africane, quelli israeliani rispetto all'invasione del Libano, tanto per fare gli esempi più significativi, hanno posto tali e tanti problemi ai leader politici e militari da spingerli sulla strada del ritiro delle truppe. Al contrario l'affidabilità di eserciti totalmente volontari per operazioni aggressive e di occupazione è stata confermata, come mostra l'efficienza con cui l'Esercito inglese occupa da decenni l'Irlanda e l'avventura delle Falkland-Malvine. La stessa scelta del governo americano di passare da un esercito di leva ad uno tutto volontario (1973) è basata su questo tipo di considerazioni, tese a garantire al potere politico uno strumento militare per interventi esterni libero dai condizionamenti della società (i militari di leva sono la società civile nelle forze a

rmate). Infatti con il reclutamento di volontari si attua un processo di autoselezione per cui entrano a far parte delle Forze armate persone che possiedono valori particolari, diversi dai valori della maggioranza della popolazione. Ciò ha molta importanza dal punto di vista politico quando si consideri che la differenza di valori tra società e militari di carriera riguarda temi come l'uso della forza nelle relazioni internazionali. Alla vecchia critica di Palmiro Togliatti, che vedeva nei militari di professione dei possibili ``pretoriani del potere'' (in una società poco sviluppata), ne va sostituita una nuova che sottolinea il pericolo che forze armate di soli militari di carriera diventino (nelle società sviluppate) una specie di ``pretoriani della politica estera del potere''. Sulle ragioni del cambiamento del modello militare americano dalla coscrizione al volontariato e sulla formazione di un corpo militare con opinioni diverse da quelle della società vedi BACHMAN J. G. e altri, "The All Volunteer For

ce", University of Michigan Press, Ann Arbor, 1977. Sulla diversità di concezioni tra militari di carriera e società in Italia sono significativi alcuni dati emersi da un'inchiesta condotta tra il 1983-84 dall'Università di Bologna su un campione rappresentativo di ufficiali dell'Esercito. Anche se la ricerca non entra nel merito degli atteggiamenti dei militari rispetto alla politica estera, tuttavia due dati dimostrano la diversa concezione politica dei militari e la loro volontà di condizionare la politica militare del paese. Il 43,7% degli ufficiali intervistati preferirebbe un ``ordinamento democratico presidenziale'' invece di quello parlamentare attualmente in uso; il 57,3% è favorevole ad affidare il Ministero della difesa ad un militare anziché ad un civile. Cfr. PRANDSTRALLER G. P., "La professione militare in Italia", Franco Angeli, Milano, 1985. La scelta di aumentare i volontari di truppa nelle Forze armate italiane è motivata esplicitamente da Caligaris con l'inaffidabilità dei soldati di leva

per quegli interventi esterni della Fir che non rientrano nel campo del "peace keeping": ``A livello politico l'uso dei soldati di leva... farebbe sorgere seri problemi se essi fossero utilizzati in missioni come quelle previste per la forza di intervento rapido... in situazioni che spesso superano il compito tradizionale di difesa del confine militare. L'opposizione delle famiglie dei soldati, degli stessi soldati e di alcune forze politiche, che è stata superata durante la crisi di Beirut, potrebbe causare il fallimento dell'operazione''. Cfr. CALIGARIS L., CREMASCO M., "op. cit.", p. 46.

64. INTERNATIONAL INSTITUTE FOR STRATEGIC STUDIES (Iiss), "The Military Balance 1985-1986", Iiss, London, 1985. Vedi anche DE ANDREIS M., "op. cit.", pp. 21-26.

65. Cfr. CENTRO ALTI STUDI DIFESA (Casd), "Il concetto strategico dell'Alleanza Atlantica per gli anni '90 alla luce della possibile evoluzione della dottrina della risposta flessibile", Ministero della difesa, Roma, giu. 1983.

66. CREMASCO M., ``Situazione internazionale nell'area mediterranea e problematica del modello di difesa `italiano ''', in ISTITUTO STUDI E RICERCHE SULLA DIFESA (Istrid) (a cura di), "Gli indirizzi della difesa italiana, Roma, 1982, p. 113.

67. ARKIN W. M., "op. cit.", pp. 4-5. Secondo il "Military Balance 1985-1986" la 5ª squadra navale sovietica è formata da 9-10 sottomarini, 6 navi da combattimento, due navi anfibie, un cacciamine, e 17-25 navi ausiliarie.

68. "Ibidem", p. 6-7. Secondo il "Military Balance 1985-1986" la 6ª flotta americana consiste in sei sottomarini a propulsione nucleare, (Ssn), due portaerei, 12 navi da combattimento, una unità di Marines su tre navi da sbarco.

69. CREMASCO M., ``La politica militare italiana nel Mediterraneo'', in F. Tana (a cura di), "La lezione del Libano", Ipalmo-Franco Angeli, Milano, 1985, p. 96. La citazione seguente è a p. 97.

70. CERQUETTI E., "op. cit.", pp. 366-367.

71. Dopo un periodo di stasi nel riarmo chimico, negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno aumentato le spese di ricerca e sviluppo per le nuove armi chimiche binarie (così denominate perché formate da due composti chimici che si mescolano, dando vita ad un aggressivo, solo al momento del lancio del proiettile). Si tratta della bomba "Big Eye", trasportata da aerei, e dei proiettili per artiglieria da 155 mm. e per il nuovo lanciarazzi multiplo (Mlrs, "Multiple Launch Rocket System") che alcuni paesi Nato - tra cui l'Italia - stanno costruendo. Il composto chimico delle binarie è un gas nervino dell'ultima generazione. Secondo i militari americani le zone privilegiate di impiego delle nuove armi chimiche sono quelle assegnate ai comandi europeo e centrale delle forze armate degli Usa. Di conseguenza sono cresciute le pressioni dell'amministrazione Reagan per un impegno europeo al futuro spiegamento delle nuove armi chimiche in Europa. Nel maggio 1986 il Comitato piani difesa della Nato (che riunisce i ministri

della Difesa dei paesi dell'Alleanza), ha ``preso atto'' della decisione del governo americano di iniziare la produzione delle nuove armi chimiche. Una posizione ambigua, da molti giudicata ``pilatesca'', frutto di una mediazione tra paesi indisponibili ad ospitare le nuove armi chimiche (Norvegia, Danimarca, Olanda e Grecia) e paesi più disponibili (tra cui l'Italia). L'uso delle bombe ai gas nervini produrrebbe, in una zona densamente popolata come l'Europa, effetti distruttivi paragonabili e quelli delle armi nucleari di teatro. Su tutti gli aspetti della nuova corsa al riarmo chimico vedi ROBINSON J. P., ``Chemical and Biological Warfare: Developments in 1984'', in "SIPRI Yearbook 1985", Taylor and Francis, London and Philadelphia, 1985, pp. 159-190. E, sempre del medesimo autore, ``Chemical and Biological Warfare: Developments in 1985'', in "SIPRI Yearbook 1986", Oxford University Press, Oxford e New York, 1986, pp. 159-179. Sul rinnovato impegno militare italiano in campo chimico, che per ora sembra l

imitarsi ad un miglioramento della capacità di difesa passiva da attacchi chimici, vedi DE ANDREIS M., MIGGIANO P., ``Dossier armi chimiche'', "Irdisp Paper", Roma, 1985.

71. Nella Repubblica Federale Tedesca le ricerche sulla difesa difensiva fanno principalmente capo ad un gruppo di ricercato del Max Plank Institut di Starnberg. Cfr. MUELLER A., ``Structural Stability at the Central Front'', relazione presentata al citato convegno ``Armi nucleari e controllo degli armamenti in Europa''. Cfr. AFHELDT H., "Verteidigung und Frieden. Politik mit militaerischen Mitteln", Hanser, Muenchen, 1976. Cfr. anche del medesimo autore "Defensive Verteidigung", Rowohlt Taschenbuch Verlag, Hamburg, 1983. Dall'agosto 1985 il Centre of Peace and Conflict Research dell'Università di Copenhagen pubblica il bollettino "Nod, Non-Offensive Defence", che documenta sull'evoluzione del dibattito su questo argomento a livello europeo.

 
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