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Archivio Partito radicale
Negri Giovanni - 29 ottobre 1986
RELAZIONE DEL SEGRETARIO GIOVANNI NEGRI
32º CONGRESSO - ROMA - HOTEL ERGIFE

29,30,31 OTTOBRE - 1,2 NOVEMBRE 1986

SOMMARIO: Nel momento in cui il Congresso è chiamato a discutere se e come continuare l'attività del Partito radicale in effetti si pone il problema del se e del come sia possibile oggi, in Italia, condurre da democratici la battaglia per la democrazia. Il Pr vive infatti oggi in un sistema che è drammaticamente diverso da quello prefigurato dalla Costituzione, dove le regole del gioco non vengono rispettate. Da qui la difficoltà, per chi non rinuncia ad essere partito della Costituzione scritta, ad operare come minoranza nel momento in cui non esiste neppure la possibilità teorica di divenire forza di maggioranza o comunque di affermare battaglie maggioritarie. Ma tutto ciò è teoricamente impossibile in un sistema informativo che nega da tre anni anche un secondo di dichiarazione o intervista in voce a Marco Pannella. In questo sistema quindi nessuna battaglia politica promossa dai radicali riesce a divenire momento di confronto politico democratico, parlamentare o popolare, cioé potenziale alternativa demo

cratica. Ma questo problema non si pone solo per il Pr ma per tutti coloro che condividono le nostre stesse speranze di rinnovamento; a questi partiti, a queste forze, a queste persone si rivolge il Pr perché creino fatti nuovi adeguati alla gravità della situazione.

Spetta al Congresso valutare se e come in questa situazione esista e sia individuabile una soglia di forza soggettiva del partito sufficiente per garantire alla battaglia radicale la speranza di aprire dei varchi di effettiva e reale lotta politica, anziché di pura gestualità, di attivismo fine a se stesso.

RELAZIONE DI GIOVANNI NEGRI

A trent'anni dalla nascita del Partito Radicale, dopo trent'anni di lotta politica, civile, democratica, non violenta, nutrita di grande passione, e di un alto contributo fornito alla società, al paese, al suo diritto positivo; dopo trent'anni di attività vissuti nel solco di una storia che affonda le sue radici in una cultura e in uomini troppo spesso misconosciuti e incompresi, il congresso dei radicali è chiamato a compiere una scelta di grave responsabilità. Occorre infatti decidere, compagne e compagni, se e come oggi sia possibile continuare le attività del Partito Radicale o decretarne, invece, la cessazione.

So, credo di sapere quanto su ognuno di noi pesi la consapevolezza di questa responsabilità che, in un senso o nell'altro, in questi giorni ci assumeremo. E credo che voi possiate capire quanta fatica, quanto travaglio e forse davvero un poco quanta paura comporti per me oggi presentarmi a questo congresso con questa relazione.

Non sono diversi al fondo, ritengo, i sentimenti che occupano ciascuno di noi. Prospettare la cessazione o lo scioglimento del Partito Radicale vuol dire prefigurare, magari in modi diversi per ognuno una svolta e forse una lacerazione nella storia della propria vita; sia per coloro il cui impegno politico in questo partito e attraverso questo partito affonda lontano negli anni e nei decenni, sia per coloro che vi sono giunti solo da poco, solo ieri od oggi stesso, come alla conquista di una nuova consapevolezza, di un nuovo valore per sé e per gli altri. Ma soprattutto, è un senso di smarrimento che ci prende al pensiero di quello che non potremo più fare, delle possibilità, della forza, delle occasioni che non avremo più se decideremo di rinunciare a questo luogo e strumento di azione politica che ci siamo così duramente costruiti.

Non possiamo e non sarebbe giusto nascondercelo. L'istinto, e, i riflessi di un senso comune che è naturale siano forti in ciascuno di noi, ci inducono a guardare a questo, a quello che siamo o piuttosto siamo diventati, al prestigio e alla credibilità, al potere di intervento che abbiamo pur conquistato, o insomma alle ``cose'' che abbiamo; e ci vien fatto di dirci che è già molto, che è irresponsabile gettarle via. Ma poi - questo il dilemma che ci tormenta e su cui ci tormentiamo - ci volgiamo a chiederci se in un contesto come quello in cui ci troviamo non si corre il rischio che siano le cose a conquistare noi, e a trasformarci in altro da quello che vogliamo essere o crediamo di essere. E allora, quando la riflessione si concentra sulle ragioni e le speranze per le quali a questo partito siamo giunti sale invece l'angoscia nel misurare il grado di impotenza cui siamo ridotti, e con noi e più di noi le ragioni e le regole della democrazia di diritto; frutto, la nostra, di questa impotenza. Consentitemi,

compagne e compagni, di rivendicare con orgoglio per tutti e per ciascuno di noi, ve lo devo, il segno di rigore e di forza autentica (perché è forza interiore, perché è forza di responsabilità) dei quali noi tutti stiamo dando prova, con la disponibilità a rinunciare ad ogni avere di questo partito.

In realtà, lo sappiamo bene, lo abbiamo detto e ripetuto, ma dobbiamo continuare a ripeterlo perché troppi sembrano non averlo capito o non vogliono capirlo, nel discutere se e come possa continuare il partito radicale di null'altro discutiamo qui che del se e del come sia possibile oggi, nel nostro paese, condurre da democratici la battaglia per la democrazia. Speriamo che questo intendano gli interlocutori di cui come non mai oggi abbiamo bisogno; speriamo che in questo spirito ascoltino, e in questo spirito rispondano.

Di questo discutiamo ben sapendo che così come gli uomini, la storia e la cultura ai quali ci richiamiamo, così come le nostre lotte presenti e passate, così come la nostra identità e la nostra immagine, per lo più oscurata alla stragrande maggioranza dei cittadini anche questa scelta sarà probabilmente compiuta nell'incomprensione o nell'indifferenza, per risultare forse drammaticamente chiara e intelligente solo nel tempo.

Troppi equivoci, troppi falsi interrogativi, troppo cinismo hanno fin qui circondato un analisi che in questi anni, particolarmente dal congresso di Firenze ad oggi, siamo andati sviluppando.

E lo abbiamo fatto ovunque: in ogni piazza e in ogni strada del paese dove siamo riusciti ad essere presenti, così come in quel Parlamento della Repubblica che non riconosciamo essere sede legittima di rappresentanza del popolo e della sovranità, ma solo sua sede di fatto.

Si è parlato inopinatamente di suicidio del partito radicale quasi che la causa della possibile cessazione radicale, delle attività del partito sia riconducibile alla nostra soggettiva volontà. Non c'è nulla di più falso e di più mistificante. Noi vogliamo, noi speriamo, noi chiediamo di poter continuare a lottare, facendo crescere lo straordinario patrimonio politico e militante che questo partito rappresenta.

Circa un anno fa qualcuno provò a sostenere la tesi di una crisi del partito, quasi che si fossero manifestati cedimenti o perdite di capacità di iniziativa politica da parte delle poche migliaia di iscritti al partito radicale. Quella tesi è durata poco. No: chi va cercando all'interno della politica radicale o dei circa tremila (ora quattromila) iscritti al Partito Radicale le cause della possibile cessazione delle attività e dunque va altrettanto cercando al loro interno, i possibili rimedi non ha ancora compreso nulla. Si è parlato con illecito paragone storico, di un

nuovo aventino quasi che non faccia parte della nostra storia, semmai, lo scegliere le vie della non violenza attiva, cioè del tentativo di dialogo contro tutte le logiche del tanto peggio-tanto meglio, della disperazione che non costruisce nulla. Vogliamo infatti un vero dialogo con tutti coloro che sanno ancora essere capaci di contraddizioni, di ragionamento, di dibattito sulla grande questione della condizione effettiva della democrazia e del diritto in Italia.

Non ci interessano confluenze, accorpamenti, accordi partitici elettorali. Tanto meno ci interessa quella che altri chiamano politica-spettacolo: non siamo noi né i suoi interpreti né i suoi protagonisti.

Forse abbiamo fornito rappresentazioni politiche drammatiche di non violenza e di speranza, mai abbiamo ridotto a mero consumo, privo di moralità, la battaglia e la lotta politica.

Il dibattito sicuramente travagliato che noi ci apprestiamo a sviluppare in questo congresso sarà ancora una volta pubblico, trasparente, condotto di fronte agli osservatori, di fronte ad amici ed avversari.

A tutti voi, compagne e compagni che ben lo sapete, a voi osservatori, invitati, ospiti del nostro congresso, voglio ricordare che il partito radicale può essere obbligato a compiere il passo della cessazione delle proprie attività per ben altri motivi: perché non ama illudersi e non ama illudere, perché non intende pagare lo scotto di una facile, superflua, inutile sopravvivenza anche al prezzo del far morire quelle che sono le speranze e le ragioni per le quali si è costituito, per le quali è cresciuto, per le quali ha combattuto.

Noi abbiamo voluto e saputo serbare e fino a queste ore la speranza di far crescere e coltivare quelle consapevolezze democratiche che troppo spesso sembrano sopite, silenziose, annichilite.

Bastano forse pochissime parole per riassumere tutto il senso del dramma radicale e della scelta che dobbiamo compiere: manca di moralità politica, è priva di moralità quella forza politica, quel partito che accetta di essere ridotto a mero strumento di testimonianza.

In larga parte, compagni, già ci hanno ridotto ad essere oggi solo questo. Noi non possiamo correre il rischio di divenirlo definitivamente: sarebbe davvero, questo sì, un pericolo mortale, un'imprudenza, un'irresponsabilità.

Il Partito Radicale è nato, si è costituito e ha conservato i tratti caratteristici del partito politico così come la Costituzione democratica e repubblicana del 1948 ha voluto che i partiti e le organizzazioni politiche fossero organizzati. Partito libero, di liberi cittadini che si uniscono per concorrere alla determinazione della politica nazionale; partiti di idee, partiti di valori, per schieramenti di idee e di valori attorno ai quali le energie civili del nostro paese erano chiamate a radunarsi e ad unirsi.

Il Partito Radicale vive oggi, o si vorrebbe vivesse oggi in un sistema che è drammaticamente altro, diverso da quello voluto e prefigurato da una Costituzione che è stata non solo tradita ma ormai di già seppellita.

Noi non diciamo che questo sistema, questo regime, questo assetto di Costituzione materiale è oggi classificabile come dittatura, o come tirannia. Noi non demonizziamo, né siamo presuntuosi.

Affermiamo di trovarci di fronte a qualcosa che noi, e ancor più forse gli stessi protagonisti del sistema non hanno compiutamente analizzato non comprendere, non sanno giustificare e dunque non sanno modificare.

Ciò che però affermiamo questo è sì scientificamente provato e dimostrato è che ci troviamo dinnanzi a un assetto, a un sistema cosiddetto democratico, che è profondamente alieno, diverso, a volte antitetico, comunque altro da quello prefigurato dalla Costituzione.

E così come questo sistema è drammaticamente altro rispetto alla Costituzione sulla quale sostiene di fondarsi il dramma del Partito Radicale altro non è che la conseguenza di una condizione di non certezza del diritto e delle regole nella quale si trova oggi anche ogni cittadino. E' l'intero paese, ben prima del Partito Radicale, ad avere una profonda necessità di ridefinire, ricostituire, conquistare democrazia, certezza delle regole, Stato di diritto, stabilendo un equilibrio di garanzie, poteri, doveri e diritti che è venuto meno.

Un partito che non rinuncia a essere, che vuole essere partito della Costituzione scritta, un partito che intanto accetta di essere minoranza in quanto esiste la possibilità almeno teorica di divenire forza di maggioranza, oggi è letteralmente impossibilitato a vivere in un sistema e in una Costituzione materiali dove vigono - se e quando vigono - regole del gioco arbitrarie, che spesso non sono neppure tali poiché si traducono semplicemente in quella che è la legge del più forte, la legge della prepotenza.

Nato per far vivere e crescere l'ordine democratico e repubblicano, il partito radicale non riesce a vivere nel disordine partitocratico, nel disordine dei poteri, nel disordine a-democratico.

Abbiamo trascorso questi dodici mesi, dal congresso di Firenze ad oggi, chiedendo, proponendo, incalzando, a volte supplicando risposte su quelle patenti, flagranti degenerazioni che possono oggi determinare il venir meno dell'esperienza politica radicale.

Non abbiamo in verità ricevuto molte risposte. Abbiamo potuto ascoltare ragionamenti e consigli, a volte anche moniti di sicura intelligenza: li abbiamo apprezzati, ma le parole rivolteci non sono esaurienti né sufficienti.

Credo che occorra ben altra profondità, ben altro ragionare nostro e ben altro ragionare comune con chi radicale non è, per arrivare forse a una soluzione del dilemma che è oggi il dilemma non del Partito Radicale, bensì della società italiana.

Certo, siamo consapevoli delle conseguenze che una decisione di chiusura del partito radicale può provocare o scatenare, dirette e indirette.

E' vero: è pericoloso che il partito della non-violenza; il partito che concepisce la democrazia non come valore ontologico, astratto, ma come mutamento, crescita, rivoluzione democratica continua, sviluppo del diritto e dei diritti, chiuda i propri battenti. E' pericoloso che il partito che ha fatto della politica per la vita il suo fondamento, ipotizzi ora la sua cessazione.

Riflettiamoci su questo, compagni, perché certo una decisione di questo genere comporta comunque una grave, pesante responsabilità.

Ma almeno tutto ciò non ci è negato: abbiamo saputo sempre convertire disperazione, rabbia, violenza in impegno civile, democratico e costituzionale, nonviolento. Certo, è vero che la nonviolenza, la speranza democratica, il valore supremo della vita, così come essi sono definiti nel preambolo allo statuto del partito radicale non saranno da noi individualmente negati in ogni caso, e saranno coltivati come le ragioni del nostro impegno civile, se impegno civile ci sarà.

Ma è altrettanto vero che non si possono ricordare i pericoli, le conseguenze di una possibile cessazione del partito della nonviolenza solo nel momento in cui questo partito pone in gioco tutto se stesso e si fa concretamente probabile la sua chiusura per essere invece disattenti e distratti nel quotidiano, ogni qualvolta nelle istituzioni, nel regime dell'informazione, nell'amministrazione della giustizia si sono piegate le regole fin nei loro dettagli, si sono piegate le leggi, si piega la Costituzione per corrispondere spesso al più basso, mediocre, immediato bisogno o interesse di parte o di clan.

Non è possibile essere solo attenti ora, ed essere disattenti a ciò che nelle istituzioni espropriate del loro ruolo e della loro funzione, noi siamo andati denunciando in questi anni.

Né è possibile liquidare come un fastidio, come un indebita forzatura le analisi e gli argomenti dei radicali.

E' evidente che non esiste la democrazia perfetta, che la democrazia deve essere continua conquista e continua crescita. Ma noi qui parliamo d'altro: parliamo di una più che constatata non certezza del diritto, che vanifica la possibilità anche per la più nobile e grande delle istanze e delle battaglie civili di giungere al suo sbocco naturale, cioè al trasformarsi in confronto e in reale alternativa democratica per il paese. Questa non è una analisi dei soli radicali. Durante quest'anno abbiamo voluto verificare le nostre tesi sullo stato della certezza del diritto e sulle regole del gioco interpellando per iscritto con un questionario un larghissimo campione di magistrati, docenti universitari, giornalisti, avvocati.

L'esito della ricerca-sondaggio - che è stata resa pubblica durante l'assemblea radicale del luglio scorso - conferma, talora con risultati clamorosi, che assai larga è la percezione in termini analitici della diffusa illegalità o per lo meno di una condizione di diseguaglianza fra cittadini e fra cittadini e Stato.

Le opinioni emergenti, che sono talvolta largamente prevalenti e talaltra non maggioritarie ma significativamente presenti fra i diversi gruppi interpellati che svolgono un ruolo particolare nell'applicazione del diritto, rappresentano senza alcun dubbio una spia importante di un diffuso malessere democratico.

Basta richiamare qui alcuni dati, solo come esempi, tra i tanti emersi dalla ricerca che è stata già resa nota in un apposito fascicolo e pubblicato in parte anche da alcuni quotidiani e settimanali. Solo il 19% del campione complessivo risponde che la situazione della certezza del diritto nel nostro paese è piena e soddisfacente contro il 77% che ritiene che è insoddisfacente o totalmente insoddisfacente; l'incertezza del diritto è considerata dal 55% causa della vanificazione e dell'indebolimento delle regole del gioco e da ben il 74% come fonte di confusione fra ruoli e funzioni dei poteri costituzionali. Sulla necessità della legislazione d'emergenza il 30% è garantista (``non si deve mai utilizzare''), il 34% l'approva per tutto il tempo necessario ed il 33% è possibilista. Rilevantissimo è anche il giudizio sullo straripamento del potere dei partiti: il 53% degli interpellati considera che sia proprio la prassi politica (cioè le regole derivanti dall'attività dei partiti) a costituire in Italia la font

e reale del diritto; ed addirittura il 91% ritiene che i partiti abbiano dilatato in maniera abnorme i loro poteri valutando, con il 76% delle risposte, che tale situazione svuoti le istituzioni rappresentative dei poteri costituzionali. Anche la valutazione sul ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo è drastica: solo il 26% è convinto che la Rai-Tv sia imparziale e neutrale, come prescrivono i compiti dell'istituto, mentre il 70% pensa che lo sia poco o per niente.

E non voglio qui entrare nel merito di quel dossier sull'informazione RAI che conoscete, e che dimostra come non solo o tanto i radicali quanto le istituzioni e i temi centrali della vita civile siano o annullati o resi totalmente opachi dal servizio pubblico radiotelevisivo; che dimostra come l'informazione sia ingessata, controllata, rigidamente preconfezionata a prescindere da ciò che qualsiasi partito - o qualsiasi potenziale soggetto di informazione - concretamente fa; che dimostra l'inesistenza di controllo di sorta sulla RAI da parte del Parlamento e l'annullamento delle Tribune Politiche (che per alcuni sono l'unica possibilità di voce) a tutto vantaggio dell'arbitrio totale del superpartito, dei padroni-padrini della RAI; che dimostra come l'``esempio Pannella'' (zero secondi di voce, dico bene zero, al TG1 delle 20 da tre anni, dico bene tre anni, a questa parte) non sia che uno degli esempi di come e quanto si usi in modo eversivo il sedicente servizio pubblico, pagato e mantenuto dal contribuente

.

Questa è la situazione nella quale e per la quale noi non chiudiamo ma veniamo, siamo già stati chiusi.

Ma sia chiaro che basterebbe un attimo di questo congresso, basterebbe un'alzata di mano non solo per sopravvivere nel contingente ma per garantire al partito l'eternità, o quanto meno quell'eternità relativa che sembra essere la caratteristica di fondo dei partiti così come i partiti sono strutturati. Accettando regole costumi della Costituzione materiale, accettando le quote di parastato che ci sarebbero dovute e forse anche volentieri concesse, sopravvivenza ed eternità ci sarebbero assicurate. Il loro prezzo certo sarebbe la fine delle ragioni e delle speranze radicali.

Non è moralismo: è una fredda valutazione di opportunità che ci spinge a rigettare questa strada. Così come non è vero che la partitocrazia è per noi un temibile Moloch, dalle cui fauci fuggire prima che l'immacolato e vergine partito radicale gli sia sacrificato. Il Moloch non è tanto la partitocrazia ma la sua crisi, ciò che la sua crisi può generare se non avrà uno sbocco, un esito democratico.

Non c'è un Palazzo del Potere politico dove mille uomini, concentrato del male, tramano contro un paese e una società sana, priva di difetti, equilibrata e onesta.

Oggi, aprendo gli occhi, si vede un Palazzo vuoto, disertato fisicamente, che non è più sede di alcuna scelta politica che conti, al massimo un notaio di contratti stipulati altrove.

E' di questo che abbiamo paura. Abbiamo timore di una partitocrazia che apparentemente acquisisce sempre più potere ma perde in realtà poteri, in un momento nel quale le grandi trasformazioni del nostro tempo di già minacciano fortemente il primato al quale crediamo, che è il primato della politica.

Di fronte a potentati economici a dimensione sovrannazionale, a poteri dell'informazione e tecnologie che possono rivelarsi tanto straordinari strumenti di sviluppo e di crescita umana e democratica quanto mezzi di abbrutimento e di violenza su centinaia di milioni di uomini e donne, è necessario imporre al sistema politico, alle istituzioni, all'informazione che è la vera agorà del nostro tempo, almeno è la certezza delle regole, senza la quale non ha più argine il disordine, la Babele dei poteri, il libero arbitrio.

Non agitiamo, non abbiamo mai agitato alcun qualunquismo. La nostra bandiera non è quella della sola, pure legittima, protesta antipartitocratica. La nostra bandiera è un altra. Cosa chiediamo? Chiediamo democrazia; chiediamo una Repubblica con dei partiti che siano veri partiti; chiediamo dei partiti che siano partiti dei cittadini.

Questo ci interessa, perché riteniamo che chiunque non si misuri oggi con questo nodo sia oggi portatore di progetto vano, fallimentare, inadeguato a questo Paese, alla sua crescita, alla società del nostro tempo.

Il Partito Radicale come partito dell'intransigenza democratica, come partito delle istituzioni e della difesa della Repubblica, forse stupisce qualcuno, assuefatto all'immagine che di noi si è data. Ma nel momento in cui ci apprestiamo forse a decidere la cessazione delle nostre attività, abbiamo il dovere di rivendicarlo.

Da Ernesto Rossi a Marco Pannella, eccolo il partito che ha contrastato la repubblica dei grandi monopolii e dei potentati, ecco l'avversario della repubblica di certi giudici, eccolo il partito che ha combattuto la Repubblica della P2 e delle commistioni sanguinose fra P2 e P38.

E' questo il partito che ha avuto amore e cura delle istituzioni repubblicane e della Costituzione, almeno quanto ha avuto amore e cura di se stesso. Ed è questo il partito che per amore, cura, salvezza di queste speranze e di queste ragioni può deliberare la sua cessazione.

Vi devo, compagne e compagni, due cose. Un bilancio politico del 1986 e un progetto di cessazione delle attività. Spetta infatti al Congresso approvare, mutare o respingere il progetto di cessazione e spetta al Congresso il giudizio sul bilancio delle iniziative del partito nell'anno che è trascorso.

Sarebbe tuttavia ipocrita, parlando dell'attraversata di questi dodici mesi, non esprimere il mio punto di vista.

Io non sono d'accordo con quei compagni che affermano, quasi ci fosse bisogno di giustificare il desiderio, la volontà, la drammatica speranza di poter continuare le attività del partito - che sono stati raggiunti in questo 1986 da questa ``Ditta'' - Partito radicale (composta ora di quattromila compagne e compayni circa, e composta fino a giugno di duemila-duemilatrecento persone) dei risultati ancora non decisivi, inadeguati, marginali, ma che tutto sommato debbono spingerci a ribaltare aprioristicamente l'ipotesi di cessazione.

Io non sono affatto d'accordo poiché ritengo che proporzionalmente agli strumenti e alle energie delle quali ha potuto disporre il Partito radicale in questo assetto di costituzione materiale, voi, poche centinaia, poche migliaia di militanti e di cittadini, i nostri compagni eletti in Parlamento, avete, abbiamo tutti quanti conquistato risultati che dodici mesi fa al congresso di Firenze non erano neanche immaginabili. Si è compiuto un miracolo radicale: questa è stata la forza politica che forse più è riuscita a produrre, ad avere capacità, umiltà e tenacia di iniziativa, conquistando rispetto alla sua soggettiva capacità, grandi e rilevanti risultati. Ma in assenza di agibilità democratica reale essi servono a ben poco, durano lo spazio di una stagione.

Con la loro mozione, con la loro risoluzione, i Radicali hanno macinato uno straordinario lavoro, hanno saputo letteralmente dare corpo, in modo non-violento, a quelli che sono i loro valori, ideali e speranze.

Valgano per tutti due nomi: Enzo Tortora e Olivier Dupuis. Non si scommettevano neppure due lire sulla battaglia per la vita del diritto, sulla battaglia per la ricerca della verità sulla vicenda di Enzo; non si scommettevano due lire sulla inspiegabile carcerazione che sceglieva Olivier, riproponendo i temi dell'affermazione di coscienza, del diritto alla vita, del nuovo internazionalismo che è il nostro, così come Altiero Spinelli riconosceva poco prima di morire in una lettera rivolta proprio a Olivier.

Non si scommettevano due lire su quelle iniziative referendarie per la giustizia che insieme e grazie anche ai compagni socialisti e agli amici liberali, hanno saputo scuotere "per un attimo" un intero ordine giudiziario, provocare una crisi in seno a una giunta dell'Associazione Nazionale Magistrati, dominata da istinti corporativi; imporre ora, per qualche settimana, l'attenzione sulla questione giustizia a tutta la classe politica, la corrispondenza con i reiterati messaggi di grande onestà intellettuale e di alto significato del Capo dello Stato, in particolare in occasione del 40· anniversario della Fondazione della Repubblica.

E ancor meno si scommetteva sulle battaglie per il diritto alla vita, fosse esso il diritto alla vita contro lo sterminio e l'olocausto della fame che inghiotte milioni di esseri umani ogni anno, o contro il terrore nucleare, civile e militare. Battaglie che anni fa apparivano velleitarie, inconcludenti, balzane, fatte da un partito da sempre accusato di peccare di assenza di realismo, di assenza di prudenza, di assenza di serietà. Ora sono battaglie di molti, se non di tutti, e determinano persino, per uno sprazzo di settimane, la vera attualità politica. Noi ne siamo davvero felici, dell'una come dell'altra cosa. Peccato che l'identità radicale sia spazzata da tutto questo oggi come allora, e che tutto autorizza a pensare che queste grandi istanze civili non arriveranno mai a tradursi in reale confronto.

No, Compagni, il problema non è di bilancio politico. Il problema è che in questo sistema politico e dell'informazione nessuna autentica battaglia, sia essa promossa dai radicali, oppure dai Radicali unitamente ad altre forze politiche, o da altre forze politiche o sindacali o associazioni (battaglie che magari non sono le nostre, ma che è giusto che possano dividere - come in democrazia accade - le coscienze della gente, dell'opinione pubblica) riesce a divenire momento di confronto politico democratico, parlamentare o popolare, cioè potenziale alternativa democratica, potenziale elemento di cambiamento strutturale.

E se ciò non accade, ogni cosa imputridisce, fallisce.

E' la storia, in larga parte, della lotta allo sterminio per fame, dove onestà vuole che si dica che è già ``cessata'', che è fallimento politico perché ci hanno obbligati a cessarla, e non certo per nostra volontà o con la nostra complicità.

Ragionateci.

Duecento deputati, il presidente della DC in testa, propongono una legge per la salvezza di milioni di vite umane. Il Presidente del Consiglio afferma che è questo il problema più scottante per la pace e la sicurezza internazionale. "L'informazione tace". Le lobby di interesse si mettono alacremente al lavoro, chi specula e si arricchisce sulla pelle del terzo e quarto mondo passa all'attacco. I radicali non possono far altro che digiunare (e alla televisione, bella cultura davvero, avanti con gli sputi su chi digiuna, avanti con le battute sugli spaghetti a mezzanotte! Cosa importa se qualcuno in questo paese ha ``inventato'' il digiuno, per cui nelle galere non si ammazza ma si digiuna, il disoccupato sottoproletario non si buca ma organizza l'azione non-violenta! Se si spara si ha il titolo di testa, altrimenti si può crepare di silenzio). La volontà di salvare il massimo di vite umane diventa persino legge dello Stato (art. 1 de]la legge 73), ecco un'Italia potenziale protagonista - alla CEE, all'ONU, ne

l terzo e quarto mondo - di un grande atto non tanto o solo umanitario ma di politica estera, di pace e sicurezza, internazionale.

E anche quest'anno, ecco Marco Pannella in visita a quel Sommo Pontefice le cui parole sono lasciate cadere nel vuoto, ecco la Marcia di Natale, e poi Emma Bonino che da sola chiama a Roma decine di capi di stato e di governo del Sud del Mondo al convegno di Food and Disarmement International, viene lanciato un Manifesto-Appello nel quale i leaders di questi paesi si dicono pronti a sviluppare - in caso di intervento straordinario per la vita - la sfera dei diritti umani e Civili dei loro popoli; ecco i radicali che alla Camera impongono una risoluzione, approvata, affinché sia investito il Consiglio di sicurezza dell'ONU e per avviare una comune politica europea verso il Sud del mondo. Risultato? Zero. Il tentativo, per certi versi innovativo di Forte, ma la sostanziale riduzione a zero, a mediocrità, di quello che poteva e doveva essere il passo di una politica di pace, di una nuova politica estera. Qualcuno forse vorrebbe da noi la grande campagna contro Forte, per farne il capro espiatorio: ce lo viene a

chiedere chi vede i difetti del FAI e da anni e anni tace sulle migliaia di miliardi che con l'alibi della lotta alla fame sono finiti in affari, a volte in sporchi affari sotto l'etichetta della ``cooperazione allo sviluppo''. Quello non si tocca! Quello è il potere reale, che nel silenzio fa le scelte che contano! E i radicali? Premi Nobel, Parlamento Europeo, autorità religiose, sindaci di mezza Europa, marce e digiuni... enormi costi politici, umani per smuovere volontà politica. La volontà politica diventa anche legge, ed ecco che la legge, di fatto, non ha valore e forza di legge.

Ecco come non noi facciamo cessare la lotta allo sterminio per fame, o qui dobbiamo decidere se cessarla o meno, ma ecco come già ce l'hanno fatta e ce la stanno facendo cessare, a meno che si accetti di farne una pia opera di testimonianza... E poi ci si chiede ``perché pensate di chiudere'' o ci si incoraggia ad andare avanti! In cosa si traduce questa richiesta? Se non c'è risposta politica, o se non vi è progetto politico per rimuovere questa situazione, a me pare non possa che tradursi in un ``siete tanto bravi, continuate a digiunare ancora un po'...''.

Tutto questo, sullo sterminio per fame, accade nel momento in cui i fatti tornano a darci ragione, mentre dal sud del mondo e da bacini vicino alla nostra area giungono i segni della disperazione, del terrorismo internazionale che porta nuova morte, che le nostre arti diplomatiche del sotterfugio, del tacere le verità o del pronunciarle a mezza bocca, non hanno saputo ne impedire né contenere; nel momento in cui un'onda di povertà, di miseria, di disperazione, di violenza che giunge dal sud del mondo rischia di divenire fenomeno stabile per il nostro paese. Davvero eravamo così balzani, velleitari, imprudenti, ponendo il problema di depotenziare violenza, miseria, fame, rumori di guerra attraverso un grande atto internazionale di pace che ancora non è stato compiuto?

Ma certo, anche quest'anno abbiamo saputo essere la forza politica dell'internazionalismo federalista e nonviolento, di chi ha compreso che pace e sicurezza internazionale possono fondarsi solo su una comune politica e su un nuovo assetto politico del nostro continente, di chi ha imparato la lezione di Altiero Spinelli, non avendo mai messo il suo nome sull'Altare per meglio ridurre le sue idee in polvere, come altri hanno fatto.

L'internazionalismo di chi ha compreso che la pace è una politica concreta o non è, e deve essere quella politica attraverso la quale gli uomini possono vivere, in un itinerario che parte dalla sopravvivenza per arrivare alla libertà. Noi abbiamo dato corpo non-violento a questa politica: non la abbiamo scritta in una mozione e basta. Lo abbiamo fatto con Olivier in carcere, con i nostri iscritti italiani e non italiani, con Sandro Ottoni, Gaetano Dentamaro, Danilo Airola, Carlo Mastrogiacomo, decine di ragazzi pronti a seguire la stessa via dell'obiezione di coscienza federalista europea, dell'affermazione di coscienza; con la manifestazione dell'Aja insieme agli amici dell'MFE per i poteri costituenti al Parlamento di Strasburgo e i referendum consultivi sull'unità europea in ogni stato membro nel 1987; con Paolo Pietrosanti e Franco Corleone in galera a Varsavia durante il congresso del PDUP, con Antonio Stango che facendo la spola fra la Farnesina e la Bulgaria crea con il caso Filipov - per la prima vol

ta in Italia uno di quei fatti che in Francia o in Inghilterra smuovono opinione pubblica, diplomazia, partiti e governo; con i parlamentari radicali ogni giorno impegnati per avere verità e legge sul crimine italiano del traffico d'armi, per la riduzione delle spese militari, per la riforma della legge sull'obiezione di coscienza. Ma per voi tutti, cari compagni impegnati particolarmente in queste lotte, state pur tranquilli che non si è aperta e non si aprirà neppure l'anticamera del salotto Carrà. Voi non pagate e non volete essere pagati. Voi non potete essere soggetti d'informazione in grado di forzare i tempi rigidi della TV lottizzata che deve assegnarci due minuti l'anno, che si crepi di fame, si sia in carcere a Roma, Bruxelles o Varsavia, o si faccia una qualsiasi riunione fa lo stesso. Quello è il vostro, nostro tempo. Per fortuna qualche risultato c'è e ci torna indietro, anche se abbiamo lavorato nel silenzio: forse anche per questo saranno con noi al congresso due amici per i quali abbiamo lott

ato e che sono fra i principali esponenti del dissenso sovietico, Leonid Pliusc e Vladimir Bukowsckj.

Ma è ancora possibile, e per quanto tempo, accettare questo ruolo di testimonianza che mai diventa informazione e politica, dalla fame a tutto il resto?

Abbiamo attraversato e vinto quest'anno il caso Tortora. E' stata la vittoria di Enzo Tortora, è stata la vittoria di Enzo Tortora, è stata la vittoria radicale per la giustizia, è stata la vittoria della migliore coscienza civile del paese. Solo tu Enzo, solo voi, poche migliaia di compagni radicali, solo voi pochi commentatori, intellettuali, giuristi (penso a Leonardo Sciascia e al Manifesto, ad Alfredo Biondi e ad Enzo Trantino, a Giuliano Vassalli e a Marcello Gallo), che avete voluto e potuto continuare a cercare la verità in questi anni; solo voi compagni socialisti che avete sostenuto in modo determinante questa battaglia, sapete quanto è costata. A coloro che adesso con un sorriso sardonico ci dicono che l'assoluzione di Tortora, è la riprova definitiva di come in Italia esista la certezza del diritto e una corretta amministrazione della giustizia, dobbiamo rispondere ``Non bestemmiate''.

Quella sentenza ha certamente aperto una riflessione generale sulla cultura del pentitismo e le deviazioni della giustizia, facendo esplodere lo scandalo delle condanne senza prova e provocando un risveglio di consapevolezza su degenerazioni insopportabili.

Si è aperto un terreno di confronto, ma per richiamare attenzione sulla giustizia in Italia c'è voluto il caso di uno degli uomini più popolari e conosciuti del nostro paese, la sua forza di rassegnare le dimissioni dal Parlamento europeo consegnando le proprie mani di nuovo ai ferri della giustizia napoletana, la sua forza di sopportare altri mesi di carcerazione; c'è voluto un Parlamento europeo sdegnato e incredulo di fronte agli incredibili contorni di questa vicenda e c'è voluta una lunga traversata di un mare di menzogne e di omertà di Stato.

Abbiamo saputo creare giurisprudenza ottenendo che un Pretore convocasse finalmente quei magistrati che violavano il codice di procedura penale, ritardando oltre il lecito (come sempre avviene) il deposito delle motivazioni della precedente sentenza di condanna. Abbiamo dimostrato che l'istanza di legittima suspicione non è un istituto praticabile da parte di un imputato normale, di un imputato medio di un maxi processo, perché c'è voluta un'intera organizzazione di partito solo per poterla notificare ai coimputati di Tortora, e senza la passione e la dedizione di centinaia di radicali in tutta Italia ciò non sarebbe stato possibile. Più crollava l'intero castello di accuse e di menzogne nei confronti di Tortora, più gli Italiani aprivano la televisione la sera e sentivano censurare e sconfessare dalla RAI le tribune politiche degli esponenti radicali, sol perché denunziavano alcuni specifici comportamenti di alcuni magistrati napoletani. Il servizio pubblico radio televisivo ha fatto la propaganda, durante

il processo d'appello, al libro di Gianni Melluso. Ha incitato a credere, dando loro telecamere e microfoni per le interviste, ai mascalzoni che hanno potuto, incontrastati, dominare la scena processuale favorendo il disegno di chi è riuscito a far credere per anni e anni a tutta l'opinione pubblica italiana che la questione ``giustizia a Napoli'' e la lotta alla camorra si potessero riassumere nella vicenda del signor Enzo Tortora. Si vuole adesso dimenticare la funzione di quel pugno di pentiti, di giornalisti e di magistrati che hanno edificato le loro carriere, le loro immunità e le loro impunità sulla pelle di Tortora. Fra tutti gli arrestati del grande maxi-blitz del 17 giugno 1983 sapete quanti sono gli assolti? Il 70%. Uno degli autori del maxi blitz è al CSM, dove se non erro si occupa del trasferimento di magistrati. E perché dimenticare il linciaggio dei socialisti quando si associavano a noi nel chiedere che la commissione parlamentare Antimafia verificasse l'Amministrazione della giustizia a Nap

oli? O dimenticare - fatto inaudito - quell'ex direttore del TG2 che abusò per 11 minuti dei microfoni pagati dal contribuente per diffondere insulti su chi si era permesso di criticare alcuni giornalisti, provocando in tutta Italia minacce fisiche ai militanti radicali, poiché questo avvenne?

E il ruolo del Mattino di Napoli, l'impossibilità di fare luce sul caso Cirillo o sui soldi della ricostruzione, sulla funzione reale svolta ad esempio da personaggi quali Giovanni Senzani?

Ma di quale certezza del diritto si va parlando? Quella che è passata dalle pandette a Pandico. Quella che è scritta nei rapporti di Amnesty International, dei quali si può leggere qualcosa in Gran Bretagna, perché in Italia è impossibile, visto che dell'Italia si parla.

Si vada a rivedere subito quella scandalosa vicenda giudiziaria del nostro paese che si chiama 7 Aprile, perché accanto ai protagonismi del dottor Di Persia è bene che si incominci a fare verità e luce sul dottor Calogero, che si ricostruisca anche questo pezzo di storia italiana.

Siamo il partito di queste battaglie per la vita del Diritto. Ma non si inganni l'opinione pubblica: siamo il partito di tutte le battaglie per l'affermazione del Diritto nel nostro Paese. Quelle per gli agenti di custodia obbligati a lavorare in condizioni fatiscenti, per la riforma dei corpi di pubblica sicurezza e le condizioni di vita e di lavoro delle forze dell'ordine, per un bilancio degno del nome di bilancio della Giustizia, affinché la Magistratura possa assolvere ai suoi alti e delicati compiti. Siamo il partito che, unico, ha saluto a Napoli denunciare concreti misfatti della Camorra e le commistioni di questa con il potere politico. Chiediamo Stato di Diritto e Certezza del Diritto perché convinti che senza Stato di Diritto e Certezza del Diritto avremo sempre più uno Stato imbelle contro mafia e camorra, occupato dai terzi livelli della mafia e della camorra, dove si celebrano alcuni maxi-processi da gettare negli occhi all'opinione pubblica, per meglio continuare a non celebrare quei processi

che non si vogliono celebrare.

Le nostre proposte, puntuali, non sono mancate.

Non bastano le amnistie improvvisate ed episodiche.

Occorre la grande riforma della Giustizia!

Ma nessuno ragiona, in realtà, su quel programma straordinario di leggi che abbiamo proposto in ogni sede istituzionale e di partito, per evitare il collasso degli apparati e l'esplosione di quella potenziale polveriera che è la questione giustizia.

In questo 1986, dunque, un grande contributo di Enzo e di tutti voi con i referendum. Ma che ne sarà? L'istinto, la vocazione che prevale e vince, nel sistema politico e dell'informazione è uno solo: liberarsi dei referendum e tacere. Magari almeno lo si facesse con buone leggi! Saremmo più che d'accordo. Invece no: con la Corte Costituzionale via il CSM, con il Senato via l'Inquirente attraverso una mediocre e pericolosa leggina, resta la responsabilità civile ma già si profila il testo di legge Casini-Violante, quello dei magistrati-deputati addetti ai lavori.

Ma davvero qualcuno può pensare che questo sia un quadro a tinte troppo fosche e non invece la ragionevole previsione di quello che sta per accadere, conseguenza naturale di quell'assenza di regole del gioco democratico della quale siamo qui a discutere? Noi non amiamo e non dobbiamo né illuderci né illudere. Né sulla Giustizia, né sul resto, ad esempio su quei referendum sul Nucleare che senza Partito Radicale non esisterebbero. Nel Belpaese dove è stato inutile gridare come dei cani nel deserto sul sequestro di aria, acqua, terra, sole, quest'anno è arrivata la morte per dighe, frane, acque, vini, il cancro da nucleare, il saccheggio delle coste e del patrimonio naturale e culturale. Ma anche qui semplicemente ragionevole prevedere qualche equivoca, superflua conferenza energetica (e ha ragione il nostro avversario Felice Ippolito: la classe politica non può scaricare su tecnici e scienziati responsabilità che sono sue e solo sue). Ma nel frattempo si lavora a sgomberare i referendum, così pericolosi per g

li equilibri politici, così decisivi come banco di prova della serietà di ogni forza politica, filo o antinucleare essa sia. Non ho davvero migliori parole di quelle di Ippolito, con il quale sono lieto di avere almeno un punto in comune: la questione nucleare è oggi questione di democrazia, dentro i partiti e al di fuori di essi, affinché il popolo abbia diritto di voce. Così come è questione di democrazia il referendum sulla caccia, visto che per la seconda volta in pochi anni un milione di cittadini chiede che si esprima la gente e per la seconda volta il pochi anni arriva la prova del nove: di fronte agli ``Argomenti'' delle lobbies bresciane non c'è Costituzione, Corte Costituzionale, parlamento, Partiti che tengano.

Sarebbe ingiusto dimenticare, ripercorrendo questo 1986, tante altre battaglie ognuna delle quali potrebbe essere sviluppata, se questo fosse effettivamente consentito e permesso di fare al Partito Radicale.

Ad esempio il contenimento di quel debito pubblico che rischia di soffocare come una cappa insopportabile l'economia del paese, sul quale si fondano i poteri di oligarchie partitocratiche e di corporazioni, che incide profondamente sulle fasce più emarginate e povere e sulle stesse volontà e possibilità di respiro, di ripresa, di iniziativa, che pure la società italiana manifesta. O ancora l'impegno contro le degenerazioni del sistema sanitario e la lottizzazione delle U.S.L., o contro la speculazione che il proibizionismo garantisce al mercato di morte della droga.

Soprattutto, il tentativo di esercitare un'opera di indirizzo e di controllo del servizio pubblico radiotelevisivo che nel parlamento dei partiti e impossibile, insieme alle denunce delle disinvolte malversazioni che - in assenza di controllo - si compiono a questa RAI del malaffare: perché il malaffare è l'altra faccia della medaglia di una gestione eversiva dell'informazione.

I nostri deputati sono stati questi: quelli dell'utilizzo delle prerogative parlamentari per visitare agenti di custodia e detenuti, dell'impegno per impedire l'archiviazione delle vicende P2, fondi neri IRI, brogli elettorali del 1983; del no a un insegnamento religioso che è diretta conseguenza di quel nuovo Concordato che osteggiamo perché non era affatto battaglia di retroguardia osteggiarlo.

A proposito di Parlamento, una nota stonata del bilancio di questo 1986 è semmai quella degli sporadici, anche se gravi casi di violazione delle regole del partito di cui si è reso protagonista chi continua a confiscare seggi parlamentari e indennità che il partito avrebbe avuto bisogno di utilizzare per le sue lotte.

Casi davvero tristi, nei quali sono andati sommandosi stanchezze, piccoli calcoli personali e incapacità politica.

Un grazie invece, credo da parte di tutti, ai Parlamentari che si sono dimessi, consentendo l'avvicendamento di altri militanti radicali alla Camera: questa è la nostra moralità, la nostra trasparenza, la nostra regola.

Allo stesso modo, enorme è stato il contributo che è stato offerto e fornito anche quest'anno alle iniziative del partito dalle compagne e dai compagni impegnati ogni giorno a garantire la difficile vita di quel servizio pubblico che è Radio radicale. Il nostro riconoscimento non è formale, a maggior ragione ora che Radio Radicale vede minacciata la propria esistenza, non dalla soggettiva volontà di liquidare una straordinaria esperienza di informazione e di comunicazione di massa ma dall'assenza di regole giuste e certe nel mercato dell'informazione. Le vicende del partito e di Radio Radicale, senza volere fare troppo facili analogie, rappresentano in questo momento due esempi di come e quanto l'assenza di regole certe rischi di essere il tratto comune, definitivo, che connota tanto il mondo della politica, quanto quello dell'informazione.

Qui davvero sta il punto. Che si parli della giustizia, del caso Tortora, della sorte della lotta allo sterminio per fame o via via di tutti gli altri suoi aspetti, fino a culminare nella questione della cessazione, la vicenda radicale è il segno, lo specchio, della vicenda italiana. E' poi questa caratteristica, ne sono convinto, che consente di trovare una risposta a quello che altrimenti si porrebbe come un quesito insolubile e paradossale: da dove nasce, cioè, la forza quasi incredibile di cui il Partito Radicale ha saputo dare prova giorno dopo giorno, nel mentre stesso che con tanta ragione e ragionevolezza prendeva atto della propria impotenza?

Il fatto è che il venir meno delle regole connota ormai talmente come dato strutturale un po' su ogni piano il funzionamento della società italiana e del rapporto fra società e Stato in Italia, e l'etica della camorra va a tal punto imponendosi come scelta di civiltà nel nostro Paese, che da ogni parte la questione delle regole viene avvertita come nodale, prioritaria o addirittura pregiudiziale.

E' l'esperienza che tutti facciamo ormai quotidianamente. A proposito del fisco o del Parlamento, della sanità come dell'informazione o della previdenza, per non parlare naturalmente della giustizia, c'è un'invocazione diffusa: senza regole ritrovate non c'è via di uscita. E i dati che poc'anzi richiamavo circa i risultati di un sondaggio sulla certezza del diritto da noi promosso sono del resto ben eloquenti. Che vuol dire questo se non che esiste un potenziale di sintonia fra impostazione radicale e sentimenti diffusi nel Paese quale mai nel passato si era verificata?

Mai nel passato. La storia di trent'anni di presenza radicale può davvero sintetizzarsi in quella di un tenace, testardo riproporre il tema della pregiudizialità delle questioni di regola e diritto rispetto a ogni altra, di contro a culture politiche che in nome di altri valori (la classe, la rivoluzione, o invece la difesa dell'Occidente o quant'altro) non tanto rifiutavano quanto irridevano ad un tale criterio di priorità. L'ironia della storia fa sì che oggi la crisi di quelle ideologie si consumi in modo ormai irreversibile nel momento stesso in cui si impone nel senso che ora dicevo l'attualità della proposta radicale di sempre. Così avviene che dove e quando riescono davvero ad arri vare per quello che sono, non contraffatte in modo grottesco dai "media", le proposte radicali volte a stabilire o a ristabilire diritto, suscitino echi, consensi, magari clamore, e comunque aprano confronto politico. Sta in primo luogo qui la spiegazione del prestigio, dell'autorevolezza senza precedenti della parola e del

la proposta radicale nel palazzo, fra la classe politica, dove appunto arriva non-mediata, non per il tramite dei "media". Nella crisi sempre più profonda, e quasi ormai scomparsa dei partiti come parti politiche dei cittadini, quando cioè i partiti trasformatisi in macchine volte ad occupare come che sia potere riescono sempre meno ad essere il luogo della politica, le proposte imperniate sulle questioni delle regole e dei diritti emergono come ancoraggi, e occasioni cruciali, se non addirittura uniche, per restituire senso e nobiltà alla politica, al far politica e al farla nei partiti: per i militanti come per i dirigenti.

Consensi, adesioni, assunzioni di responsabilità comuni, dunque, su proposte provenienti da casa radicale, dal partito, o a titolo più o meno personale dai suoi esponenti, e tutte in vario modo riferite alla dimensione della regola: dai referendum sulla giustizia all'autoconvocazione dei parlamentari per riconquistarsi un Parlamento vero, alla richiesta di una riforma elettorale tale da essere una riforma di regole che consentano al sistema politico e alle istituzioni di funzionare finalmente secondo regole e responsabilità. Ma poi, il risvolto della medaglia. Lo svanire, il ridursi dell'iniziativa politica a dibattito inconcludente, i pericoli sui referendum che ho appena richiamato... ``Le cose'', i meccanismi, i funzionamenti, i riflessi di questo regime (e in tanta parte ormai di questa società) schiacciano, travolgono, vanificano.

Vale nel palazzo, per quei tentativi di trovarsi un diverso modo di essere in politica, quello che vale fuori nel Paese, per il Partito Radicale: manca ogni punto fermo, ogni certezza di regole nella battaglia per conquistare regole. In partitocrazia tutto è soltanto questione di rapporti di forza e la forza dov'è? Arriviamo al cuore del paradosso drammatico di cui la cessazione del Partito Radicale è il segno. Il Paese, tanta parte del Paese, aspira a regole e diritto, e ha un disperato bisogno di darsi forza per questo, di darsi una forza che sappia esprimere e far pesare in modo adeguato questa aspirazione in sede politica. Come non era mai stato in passato, insomma, la situazione è matura per informarsi di un grande ``partito del diritto e delle regole'' capace di candidarsi alla guida e alle trasformazioni del Paese. Di più, anzi: la sola vera grande contrapposizione di parti politiche che oggi la società ha bisogno di esprimere, il solo scontro in grado oggi di restituire verità e dignità alla politica

in Italia è forse quello fra un simile partito del diritto e delle regole e il partito del corporativismo più o meno populista e peronista, il partito del perenne trasformismo che si riconosce in questa costituzione materiale, e in essa e di essa vive.

Il fatto però è che le dinamiche di questa partitocrazia e del suo sistema dell'informazione fan sì che a questa necessità la grande parte del Paese, che pure la sente o intuisce, non riesce a dare forma e sbocco. La nostra vicenda, dicevo, ne è segno e prova. Per il suo passato e per il suo presente, non c'è dubbio di un simile potenziale ``partito del diritto'', il Partito radicale non potrebbe non essere il nucleo forte iniziale; ma la gente, la gente che chiede diritto non è in grado - perché non è messa in grado - di riconoscerlo come tale, per quello che è. Per rispetto a questa verità, perché non possiamo accettare che la grande forza dell'alternativa necessaria e matura sia ridotta alla caricatura di sé, alle dimensioni del partitino impotente, si pone la questione della cessazione.

Il problema si pone per questo a noi, ma non solo a noi. Si impone e noi lo poniamo a tutti coloro che in una forma o nell'altra condividono le preoccupazioni e le speranze che sono le nostre. Amici degli altri partiti che siete venuti nella nostra assemblea di luglio e ci avete detto che non pos siamo cessare perché la democrazia italiana ha bisogno del Partito Radicale, non basta: anzi, non è questo. Questo Paese ha bisogno di democrazia, questo Paese ha bisogno della grande forza che sia capace di conquistarla. Di questo stiamo parlando in questa sede; ed è in questo dibattito che vi chiediamo di intervenire, ma di intervenire davvero.

Le risposte che ci aiutano e credo aiutino tutti partono di qui. E' vero o non è vero che questo occorre al Paese? E se è vero, quali passi, assumendo quali impegni, dandoci reciprocamente quali garanzie, che siano così garanzie per il Paese, possiamo, potete compiere nella direzione necessaria?

Siamo qui per capire e decidere. Come chiediamo a ogni cittadino, fino all'ultimo, di creare con l'iscrizione fatti nuovi che modifichino il quadro al punto da darci ragione di speranza, così chiediamo ai nostri interlocutori politici che sono in questo Congresso, che ci ascoltano e ci parleranno, di cogliere essi - se credono, se vogliono e se possono l'occasione di questo momento di confronto per tentare di creare fatti nuovi adeguati alle dimensioni di un problema che non può essere e non è solo un problema del Partito Radicale.

E' nello spirito con cui dico questo che credo noi dobbiamo e possiamo guardare oggi ad alcuni dei momenti che hanno segnato la nostra presenza nel 1986. Benché ciò non abbia direttamente riguardato il partito e il suo esecutivo, non si può dimenticare infatti che, come già accennavo, che dai radicali, dal leader radicale che sono giunte qualche me se fa proposte che mi sembrano di grande significato e attualità. Da un lato vi è una riflessione rivolta agli amici dei partiti laici e socialisti su un sistema che apparentemente esalta il loro ruolo ma che in verità li penalizza e ancora sottrae loro quel primato culturale, politico elettorale che in altri paesi è invece da tempo una realtà ed e stata una riflessione volta almeno a definire degli appuntamenti di confronto e di dialogo che attualmente, purtroppo, ancora mancano.

Per altro verso è stata invece avanzata una proposta a tutte le forze, gli esponenti, le energie che definirei di ``democrazia critica'', che non intendono supinamente accettare questo stato di cose, affinché ci si unisca per giungere ad una riforma istituzionale ed elettorale che per avere queste dignità deve essere un'autentica riforma politica, e non certo risolversi nei microaggiustamenti della Commissione Bozzi o in quella controriforma elettorale, di stabilizzazione partitocratica che va perorando Gianfranco Pasquino.

E' stata indicata la via maestra del sistema uninominale all'anglosassone: noi ci auguriamo che a partire da quella via si sviluppi almeno un libero confronto tra i partiti e tra i parlamentari.

Certo io mentirsi se dicessi qui che senza il partito Radicale, senza un Partito Radicale dotato di una effettiva agibilità democratica, sarebbe possibile far crescere una forte prospettiva dei laici e dei socialisti, o giungere ad autentiche riforme elettorali, democratiche, scongiurando pericolose e ormai non lontane controriforme, o garantire per altro verso a tutto il patrimonio delle battaglie radicali una qualche possibilità di affermarsi effettivamente.

Personalmente non ci credo: al Partito Radicale è negata l'agibilità democratica al punto che dobbiamo, per moralità, arrivare forse a chiudere i battenti; ma senza anche il Partito Radicale e il valore politico che rappresenta credo che queste prospettive siano impossibili. E al Partito Radicale viene oggi concessa o la dimensione di testimonianza o quell'agibilità politica che in qualsiasi situazione storica sempre esiste, foss'anche quella clandestina per ripararsi dalla repressione poliziesca o quella clandestinizzata da mass-media che rendono superflua la repressione poliziesca.

Agibilità politica sì, ma non agibilità democratica: devo ribadirlo anche alla luce degli ultimi mesi di impegno. Credo ci possano capire, in questo frangente, quei rari intellettuali che hanno saputo leggere in filigrana la vicenda radicale. Molto ci capirebbe Pasolini. Penso ci capiscano Leonardo Sciascia, Gianni Baget Bozzo con il suo individuarci come ``un'intransigente minoranza politica che sa dare voce a grandi maggioranze civili e politiche'' o Angelo Panebianco quando dipinge la felice immagine dei ``protestanti in terra di controriforma clericale''.

Così come siamo, in queste condizioni, non è più possibile dare voce, né predicare. Ci vorrebbero testimoni silenziosi del silenzio di democrazia, e questo non lo possiamo accettare.

Veniamo allora al progetto di cessazione, ma consentitemi prima di rivolgere un pensiero deferente sia a tutti gli iscritti al Partito Radicale che al Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

A tutti gli iscritti al Partito Radicale, uno a uno, in tanti quanti siamo cioè in tanti quanti mai siamo stati, perché mai il Partito è stato tanto forte come numero di iscritti. Grazie per quanto avete saputo fare e dare: soprattutto a voi, compagne e compagni che non sapete mai dire no a ciò che vi si chiede senza mai dire signorsì, a voi che senza guadagnare nulla avete impiegato tanto vostro tempo e tanto vostro denaro per fare e pagare la politica radicale.

Grazie a chi si è iscritto in questi mesi per salvare il Partito Radicale, contribuendo a dargli comunque forza a prescindere da quello che sarà l'esito che il congresso determinerà, sia esso nella direzione della cessazione o della continuazione delle attività. Mi auguro che tanti altri cittadini in queste ore e giorni ci raggiungano con la loro tessera.

Vorrei in particolare citare, ma non posso farlo perché sono per fortuna tantissimi, tutti coloro che dal mondo della cultura, dell'arte, dello spettacolo ci hanno con coraggio dato la mano e sappiamo che a volte il farlo non è facile. Lo stesso vale per i tanti compagni socialisti, amici liberali, laici, parlamentari, dirigenti e militanti di questi e anche di altri partiti (siano essi comunisti o democristiani, missini o demoproletari o verdi) che con la loro iscrizione hanno manifestato non solo, credo, una generica solidarietà ma voluto sottolineare ciò che ci ha potuto unire almeno in questo tratto di strada, dando vita con la doppia tessera ad uno di quei fenomeni originali, nuovi, diversi, dei quali la politica avrebbe infinito bisogno.

Grazie anche a voi, ``iscrizioni dello scandalo'', che dal buio degli ergastoli avete preso la tessera radicale: sono le iscrizioni delle quali più si è parlato anche se a voi, di questa scelta, nessuno vi ha fatto parlare. Ci avete scritto di essere pronti a rinviarci la tessera perché non volete che le vostre storie personali possano colpire l'immagine del Partito Radicale. Tenetela quella tessera: non colpirà la nostra identità, che è ciò che è più prezioso, e fatene invece - ve lo chiediamo noi tutti - ragione di speranza e di non violenza.

Tantissime sono poi le iscrizioni giunte dalle fasce più povere e più emarginate del paese: i pensionati, i disoccupati, i senza casa; così come le tessere di molti avvocati e per altro verso dei detenuti che hanno voluto sostenere il Partito della Giustizia. Per tutti, poiché non potranno essere qui, voglio fare i nomi di Alberto Franceschini, Maurice Bignami e gli altri detenuti nel carcere di Rebibbia che provenendo dalle esperienze più diverse e a volte politicamente opposte hanno fatto prima della dissociazione dalla lotta armata, poi della non violenza, ora di una iscrizione a quel partito radicale che rispetta tutta la loro identità e diversità, una scelta di straordinario valore non solo per noi ma per l'intero Paese, per un Paese che si vuole pacificato, col Diritto e dal Diritto.

Dunque un pensiero deferente a tutti gli iscritti, titolari di una scelta definitiva.

Se vi fosse stata una informazione su questo loro atto di iscrizione, sulle loro storie personali e politiche che li hanno condotti dai mondi e dalle vicende umane più diverse a questo nostro partito, si sarebbe probabilmente verificata un'ondata di conoscenza e di riconoscimento del Partito Radicale tale da impedirci di anche solo prendere in considerazione il progetto di cessazione, cosa che invece dobbiamo £are.

Ma un pensiero deferente va anche al Presidente della Repubblica, che porta la responsabilità della suprema magistratura dello Stato. Deferente non solo per il rispetto non formale che nutriamo nei suoi confronti, ma perché - ben lo sappiamo - il dibattito che qui si svolge non può non costituire e in un certo senso deferire un'analisi e un problema anche a Francesco Cossiga, tutore di una Costituzione che non esiste più nella effettiva realtà della vita di questa Repubblica e di quella Costituzione materiale che l'ha usurpata e soppiantata.

Il progetto di cessazione che ora formalmente presento al trentaduesimo Congresso deriva dal preciso mandato affidatomi dalla risoluzione approvata l'anno scorso a Firenze. Ho cercato di adempiere a questo compito - un compito non solo difficile, ma che mi costa molto, perché è costoso proporre il suo esito - definendo quello che mi pare il progetto più adeguato, in grado di tradurre operativamente l'ipotesi di cessazione sulla quale il Congresso è chiamato a pronunciarsi. Cessare le attività del partito, compagne e compagni, non significa mettere all'incanto il nostro patrimonio ideale e politico, i militanti che siamo, i caratteri distintivi del partito a cominciare da quelli più semplici, più materiali, come il nome e il simbolo del partito stesso. La cessazione delle attività deve anzi mantenere al partito una precisa capacità di tutela di questo patrimonio, soprattutto affinché in caso di competizione elettorale non vi sia chi possa ritenere pensabile l'approfittarne gratuitamente, candidandosi ad esser

e un troppo facile erede.

Competizioni elettorali che non so se si verificheranno anticipatamente, anche se lo credo estremamente probabile, ma alle quali ovviamente il partito, una volta acquisita la delibera di cessazione delle attività, non concorrerà. E' perciò evidente che in tale caso sarà necessario dotarsi di tutti gli strumenti e degli organi minimi attraverso i quali intervenire in tutte le sedi necessarie contro chi eventualmente tentasse di impossessarsi dell'operato del Partito Radicale, della sua storia o tentasse di manipolarne il patrimonio, l'identità, l'immagine.

Il nostro è stato un lavoro complesso, anche di carattere tecnico, che si è avvalso di giuristi (fra i quali ringrazio il prof. Chiola, che abbiamo molto disturbato in questi mesi).

Non vorrei che si prestasse un'attenzione meramente superficiale, ritenendolo un piccolo argomento di intendenza, alla questione delle modalità giuridiche attraverso le quali procedere alla delibera di cessazione. C'è un aspetto politico, c'è un aspetto tecnico-giuridico con le sue incidenze e con il suo peso tutto politico.

Quello che confermo, comunque, è il progetto di cessazione che ho illustrato due settimane fa, non essendo intervenuti quei fatti nuovi che avrebbero potuto e persino dovuto indurmi a modificarlo.

Fra le diverse ipotesi possibili (cessazione diluita nel tempo, legata magari al verificarsi di questo o quel fatto politico; oppure di previsione di cadenza progressiva, scadenzata, dei diversi organi del partito) abbiamo innanzitutto ritenuto che se cessazione ha da essere, sia allora delibera di cessazione immediata delle attività, esecutiva da subito.

Seconda conseguenza, la proposta di sostituzione degli organi ordinari previsti dallo statuto del partito (il segretario, il tesoriere, la giunta federale, il consiglio federale) con un organo straordinario, evidentemente diverso, atto a garantire solo quei compiti minimi, indispensabili affinché la cessazione delle attività non assuma la forma dello scioglimento giuridico del partito, poiché ciò consentirebbe a terzi di impossessarsi del patrimonio politico e dei segni distintivi del partito stesso.

Quindi un organo denominato comitato per la cessazione delle attività che deve essere formato da un numero di componenti variabile tra le tre e le nove persone, comunque in numero dispari.

Abbiamo scelto questa strada con una elezione diretta, in Congresso, del comitato piuttosto che ricorrere a soluzioni certo possibili ma che ci parevano ambigue (ad esempio affidare queste responsabilità di compiti minimi o agli eletti in Parlamento, oppure agli eletti interessati dagli organi uscenti).

Abbiamo poi precisato il mandato, i compiti, che al comitato per la cessazione delle attività debbono essere affidati. Occorre su questo estrema chiarezza e si tratta infatti di compiti precisi: il comitato dovrà garantire il blocco di ogni iniziativa e di ogni nuova attività politica e finanziaria, a cominciare da quelle di natura elettorale, fin dal momento successivo alla delibera.

Dovrà portare ad esaurimento definitivo le attività che sono in corso, relative però alle sole iniziative pregresse alla delibera di cessazione, nei limiti dovuti agli impegni verso terzi. Ciò significa ad esempio che in caso ipotetico di referendum il P.R. non parteciperà alla campagna elettorale, mentre invece facendo attualmente e comunque parte di diversi comitati promotori di referendum (che sono peraltro riconosciuti come ``poteri dello Stato'') alle loro eventuali riunioni prenderà parte anche il rappresentante radicale.

Compito ancora di questo comitato la difesa attiva del nome del simbolo del partito in caso di competizione elettorale e nei confronti di un corretto uso ed interpretazione dei trascorsi del partito da parte di terzi. Dunque comitato titolato a intervenire, precisare, esporre la propria posizione laddove terzi intendessero usare o interpretare le attività trascorse del Partito Radicale.

Altro compito, la destinazione delle quote del finanziamento pubblico spettate e spettanti al Partito. La gestione del rapporto con i soggetti autonomi; la gestione finanziaria conseguente al bilancio 1986 e al mandato di cessazione; la gestione dei contenziosi giudiziari che sono in corso e naturalmente la titolarità di iniziativa giuridica in nome e per conto del Partito Radicale, qualora fosse necessario procedere alla tutela giudiziaria del nome, del simbolo, dell'identità e del patrimonio politico radicale.

L'ultimo punto di questo progetto di cessazione che è stato definito riguarda gli eletti in Parlamento, che pur mantenendo sino all'esaurimento della legislatura in corso la loro specifica, attuale identità formale di eletti radicali (poiché ovviamente non vi è altra soluzione) opereranno esclusivamente con lo stesso mandato e su richiesta specifica del comitato per la cessazione delle attività, senza capacità autonoma di iniziativa. Dal punto di vista finanziario gli eletti radicali dovranno versare le quote e le indennità parlamentari al Comitato stesso.

Questo è dunque il progetto di cessazione, i cui dettagli sono meglio precisati sull'ultimo numero di Notizie Radicali. Tocca ora a voi vagliarlo. Per quanto mi risulta, nel presentarlo devo però al Congresso due precisazioni e un invito.

Io credo che fino all'ultimo momento utile dell'ultimo giorno utile di Congresso, tutto il nostro tempo debba essere impiegato al meglio sia per il nostro dibattito collettivo, sia come tempo di ascolto rigoroso, attento delle parole di tutti i nostri interlocutori politici, siano essi responsabili delle istituzioni o responsabili di altri partiti.

Questo Congresso radicale è la sede più naturale, più libera, a disposizione di tutti coloro che intendono confrontarsi ed esprimersi nella direzione della conquista di una Democrazia di Diritto.

Avranno per noi grande rilievo le presenze e le assenze, le risposte e i silenzi: dobbiamo saperli ascoltare o rilevare con umiltà.

Il dialogo con chi non è radicale assume questa volta un valore straordinario: ed è anche per questo che non ci attendiamo dai nostri interlocutori generici saluti o generici incoraggiamenti.

Piuttosto ci si contesti l'analisi, si dica o ci si spieghi che sbagliamo, oppure ci si consigli e si indichino delle strade percorribili, o si ragioni su ciò che è fattibile dai partiti e nei rispettivi partiti. Credo sia questo il dialogo utile.

La seconda precisazione consiste nel ribadire che gli stessi organi del Partito che presentano al Congresso un progetto di cessazione praticheranno fino in fondo questa umiltà e questa attenzione verso ogni intervento. Questo progetto non è per noi una scontata verità assoluta: esso può essere mutato, variato dal Congresso in base alle sue valutazioni politiche e giuridiche, giacché anche queste ultime sono rilevanti. Allo stesso modo, avrà per noi piena legittimità ogni posizione e ogni proposta congressuale: incarni essa un diverso progetto di cessazione, un progetto di continuazione o un progetto di rifondazione o di quant'altro si manifesterà.

"Spetta al Congresso dare delle valutazioni politiche". E' evidente che alcuni fatti verificatisi in queste ultime settimane comportano almeno delle riflessioni: penso ad esempio al numero (certo non straordinario ma che non ha per noi precedenti) degli iscritti al partito o a quella minima possibilità in più di informare e parlare al Paese che abbiamo conquistato; penso agli effetti - seppure episodici - che la sentenza di Napoli ancora provoca o al recente, nuovo appello del Capo dello Stato per una svolta immediata nell'amministrazione della Giustizia.

Mi riferisco, ancora, alla prima positiva dichiarazione ufficiale del nuovo Presidente della RAI, che è quanto meno degna di attenzione.

Non sono che degli esempi che tuttavia comportano una riflessione congressuale e che chiedono non dei pre-giudizi (positivi o negativi essi siano) ma dei giudizi.

Spetta al Congresso, ancora, valutare se e come in questa situazione esista e sia individuabile una soglia di forza soggettiva del partito, di suoi iscritti, mezzi, strumenti giudicati indispensabili e sufficienti per garantire alla battaglia radicale la speranza, o un estremo tentativo, di aprirsi dei varchi di "effettiva", "reale" lotta politica, anziché di pura gestualità, di attivismo fine a se stesso. Tenendo presente che acquisire tale e tanta forza per sopportare questa condizione di battaglia politica comporterebbe il travolgimento di ostacoli e barriere di non democrazia, di silenzio, di ostilità e di censura; comporterebbe la possibilità di dialogo reale con decine di milioni di persone, per ricostituire almeno parzialmente un'immagine ora inesistente o lesa.

Tutto questo significherebbe in una parola fare ciò che sinora non siamo mai riusciti a fare, perché probabilmente è impossibile farlo.

Infine un invito. Penso sarebbe un grave errore dividersi fra presunti ``continuisti'' e presunti ``liquidatori disperati'' di un'esperienza politica.

I due termini di confronto sono questi: e a ben vedere la sorte del Partito Radicale non deve essere neppure l'oggetto primo del nostro dibattito ma solo la conseguenza. Il primo oggetto del nostro dibattito, come dicevo all'inizio, è quello infatti del comprendere se e come sia oggi possibile condurre da democratici la battaglia per la democrazia.

Credo sbaglierebbero quei compagni che non partissero da questo punto, cimentandosi con questo vero, grande ostacolo che ci sta di fronte, che non possiamo più ignorare, pena il venir meno delle giuste speranze, delle giuste ragioni, delle giuste ambizioni del Partito Radicale.

Ecco, il mio compito è terminato. Non riesco, nonostante ciò che vi ho detto, a non avvertire un minimo di speranza; non posso soprattutto non nutrire una profonda fiducia nella grande trasparenza e nella grande intelligenza di cui questo partito ha saputo e sa essere capace. E se è difficile terminare dicendo viva il Partito Radicale, consentitemi di dire con voi: vivano le ragioni, vivano le speranze del Partito Radicale.

 
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