di Olivier DupuisSOMMARIO: Gli interessi nazionali sono riusciti a bloccare e a limitare uno dei pochi esperimenti di unità sovranazionale tentati dopo la seconda guerra mondiale: il Trattato del Nord Atlantico che ha dato vita alla Nato. Si è così pervenuti ad un sistema di doppie decisioni e di sovranità solo parzialmente limitate, dove le confusioni e i risentimenti nazionalistici sono spesso più presenti e avvertibili rispetto ai vantaggi concreti.
(Le alternative alla difesa militare - Cap.II - IRDISP - Febbraio 1987)
Passiamo ora all'analisi della politica di difesa dell'occidente: cercheremo di capire come, nel quadro occidentale, ed in particolar modo in quello della NATO (dove la necessità di internazionalizzazione dei problemi della sicurezza è già teoricamente e politicamente riconosciuto), dei sistemi di difesa nazionali possano coesistere con sistemi di difesa integrata. Saremo cosi` portati a misurare tutti i limiti generati da tale contraddizione, sia a livello della mera difesa territoriale, che, e soprattutto, a livello politico globale, cioè a livello della capacità, per l'occidente in generale, e per l'Europa in particolare, di definire e di costruire la propria storia, la propria " storicità" come direbbe Alain Touraine.
L'obbligatorietà di una concezione difensiva sovranazionale s'impone, all'indomani della seconda guerra mondiale, in seguito alla disfatta delle due grandi potenze militari ed industriali, la Germania ed il Giappone, la comparsa e l'affermazione delle nuove potenze americana e sovietica, i due principali vincitori.
Prescindendo dalle valutazioni sulla presunta natura strumentale del pericolo sovietico che avrebbe determinato la creazione dell'Alleanza atlantica, limitiamoci ad analizzare il carattere saliente del Trattato Nord Atlantico (1).
"Non si tratta solo di un'alleanza militare conclusa in vista di prevenire l'aggressione o di respingerla nel caso questa avesse luogo: esso prevede anche un'azione comune e permanente nel campo politico, economico e sociale" (2). L'esistenza di una forza difensiva integrata alle dipendenze di un Comando supremo, di una struttura civile con il Consiglio atlantico come massima autorità e di una struttura militare con al vertice il Comitato militare dotato di poteri sovranazionali, tradotte in disposizioni nei trattati, nei protocolli e nei memoranda che impongono vincoli agli Stati aderenti per quanto riguarda l'organizzazione e lo schieramento dello strumento militare, le conseguenti concessioni di basi militari: tutto questo configura chiaramente un parziale trasferimento delle prerogative difensive ad un organo sovranazionale e altrettanto precise limitazioni delle sovranità nazionali dei paesi aderenti.
A riprova di quest'ultima affermazione basti citare quanto dichiarato dal generale de Gaulle il 21 febbraio 1966 nel momento in cui la Francia decise di ritirarsi dalla cooperazione militare integrata dell'Alleanza atlantica e di chiedere la chiusura delle basi americane sul suo territorio: "Au total, il s'agit de rétablir une situation normale de souveraineté dans laquelle ce qui est francais, en fait de sol, de ciel et de mer et de forces, et tout élément étranger qui se trouverait en France ne reléveront plus que des seules autorités francaises" (3).
La posizione francese se da una parte conferma la caratteristica sovranazionale dell'Alleanza Atlantica e le limitazioni politiche, anche se non propriamente giuridiche (4), della sovranità nazionale che questa impone, dall'altra sembrerebbe contraddire l'ipotesi che vede nella difesa nazionale una via politica capace di assicurare la sicurezza nel momento in cui il mondo è in via di integrazione accellerata. Ma la decisione francese fu determinata da valutazioni estranee ai problemi generali della sicurezza : la Francia di de Gaulle esprimeva il rifiuto del bipolarismo Usa-Urss perseguendo nel contempo un disegno di egemonia militare e tecnologica in Europa che non muterà anche con i successori del generale. Sul piano strettamente militare nulla cambiava nella Nato. La Francia rimaneva nell'organizzazione politica del Patto atlantico e "faceva affidamento, in ultima analisi, sull'intervento nucleare americano, del quale la 'force de frappe' fungeva, in caso di scontro con l'Est, da 'detonatore'"(5). Del re
sto la stessa force de frappe dipende per la sua possibile utilizzazione dalle informazioni del sistema americano Early Warning System.
I limiti della Nato non devono essere ricercati infatti tanto nella imposizione ai paesi europei di una dimensione sovranazionale delle strutture e delle politiche di difesa e di sicurezza, quanto nella caratteristica imperiale americana di una integrazione che si sviluppa sulla base di una strategia esclusivamente militare. Lasciamo da parte l'aspetto economico, che consideriamo come derivante naturale della potenza commerciale americana. Si tratta invece della delega agli Usa di assumersi la responsabilità della difesa del sistema occidentale, fatta salva però la riserva di una pretenziosa e impossibile autonomia nelle scelte attinenti alla sicurezza nazionale.
Se l'Alleanza non ebbe un coerente sviluppo, cioè non riusci da una parte a rafforzare i contenuti sovranazionali e ad ottenere un'effettiva e completa integrazione degli strumenti militari e dall'altra non sviluppò una originale concezione della sicurezza, ciò fu dovuto solo in parte al ruolo dominante degli Usa sui loro alleati. Molto va ricondotto all'incapacità dei paesi europei di realizzare una vera unione politica su questo terreno. Ancora Altiero Spinelli precisa che i termini dell'alternativa non si pongono fra difesa nazionale e difesa sovranazionale: "L'unità imperiale sotto l'egida americana è certo anche assai umiliante per i nostri popoli ma è superiore al nazionalismo perché contiene una risposta ai problemi delle democrazie europee, mentre il ritorno al culto delle sovranità nazionali non è una risposta. L'unità fatta dagli europei è in realtà la sola, vera alternativa all'unità imperiale. Il resto è schiuma della storia, non è storia. Le due forme stanno procedendo insieme e noi le vediamo
sotto i nostri occhi; e guardate, non si può abolire l'una nella misura in cui si sviluppa l'altra. Perché l'una corroderà alla lunga l'altra" (6).
Le strutture nazionali di difesa permangono quindi per ragioni estranee a quelle della sicurezza, della difesa. Lo stesso Trattato Nord Atlantico, nel suo art.5, definisce "gli obblighi degli Stati in caso di attacco armato, che consistono nello stabilire subito, individualmente e d'accordo con le altre parti, un'azione, ivi compreso l'impiego della forza, se giudicata necessaria da ciascuna delle parti". Ciò significa che all'opposto di una vera politica di integrazione, non si è voluto purtroppo limitare la libertà di ogni stato d'intraprendere l'azione che giudicherà necessaria, ma che si prevede solo che tutto ciò deve essere "stabilito in comune".
Per vedere concretamente come si esplicita questo doppio livello di responsabilità e per cercare di individuare le ragioni di questa specie di riserva nazionale, analizziamo il comportamento della Nato nel caso della crisi del Golfo della Sirte dell'aprile del 1986.
E' evidente che in quel caso, in seguito al dichiarato attacco missilistico libico contro la flotta statunitense nel golfo della Sirte, gli Usa dovevano immediatamente invocare il Trattato del Nord Atlantico e chiedere, ai sensi dell'art.9 dello stesso, la convocazione del Consiglio Atlantico. Non vi è dubbio infatti che ai sensi dell'art.5 del Trattato "un attacco armato contro una o più di essi (dei suoi membri) in Europa o nell'America settentrionale sarà considerato quale attacco diretto contro tutte le parti". Lo stesso articolo 5, così come modificato a Londra il 22 ottobre 1951, definisce del resto le caratteristiche dell'attacco e la competenza territoriale della Nato, precisando che questo deve riguardare non solo i territori delle parti, ma anche "le navi o gli aeromobili" nel Mediterraneo.
Dopo l'incidente della Sirte era quindi necessario (e obbligatorio!) attivare gli organi formali della Nato per definire l'azione comune ai sensi dello statuto della Nato. Gli Stati Uniti invece fecero sapere agli alleati che le operazioni susseguenti sarebbero state effettuate "sotto responsabilità nazionale" (7). Non risulta che gli altri Stati membri della Nato si siano opposti a questa decisione rivendicando l'obbligo di azione comune o perlomeno di concertazione politica.
Da questo episodio possiamo quindi individuare le ragioni di questa riserva nazionale di difesa. Per quanto riguarda gli Stati Uniti la risposta risiede probabilmente nella stessa impostazione imperiale della Nato che affida agli Usa il compito di proteggere, con il loro ombrello atomico e la loro forza tecnologica e finanziaria, i vassalli europei.
Sono gli Usa quindi che decidono, di volta in volta, se usare la sigla Nato o quella nazionale, secondo le condizioni del momento, per dispiegare la propria forza militare. Ancor più significativa appare la riluttanza degli europei ad attivare meccanismi di responsabilità comune che pure l'Alleanza atlantica ha predisposto, ed in generale ad assumere una propria iniziativa comune nei confronti delle minacce alla sicurezza come quelle che provengono dal terrorismo.
Una esplicita risposta la fornisce ancora una volta Altiero Spinelli: "L'Europa non esiste e dunque non poteva decidere un bel niente. Semmai questa crisi ha messo in luce, e stavolta inequivocabilmente, il paradosso di una situazione che va avanti da quarant'anni, dalla fine della seconda guerra mondiale. Gli Stati d'Europa, dapprima per necessità, poi per comodo, hanno scaricato sulle spalle degli Usa i grandi problemi della politica estera e della difesa che li riguardano direttamente...Ora in Europa non esistono più Stati sovrani, nel pieno senso storico della parola; gli eserciti, le diplomazie, ma non la sostanza della piena sovranità. E si vede soprattutto in politica estera e nella strategia militare. Dalla Germania al Lussemburgo, questo vuoto di sovranità viene riempito con grande animazione parlamentare, con frenetiche richieste di chiarimenti, di dibattiti su quello che bisogna fare , e nessuno alla fine intende fare. I ministri degli esteri europei svolazzano da una capitale all'altra, si consul
tano, si agitano, ma soprattutto mugugnano contro il 'Grande Fratello' che invece brutalmente agisce con la decisione che gli altri non hanno" (8).
Ma gli eserciti nazionali si giustificano anche per altro: determinano una domanda di beni e servizi considerevole e rappresentano uno strumento interno per ridurre o ritardare la disoccupazione. Infatti le ipotesi di integrazione e standardizzazione degli armamenti in Europa hanno avuto scarso successo non solo per l'ovvia resistenza americana ma anche e soprattutto per l'opposizione delle industrie nazionali che perderebbero il loro monopolio nazionale e quindi grosse fette delle commesse, oggi garantite dai bilanci nazionali. Indifferenti a questo proposito risultano le considerazioni prettamente difensive :esse consiglierebbero la standardizzazione, sia al fine di ridurre i costi delle armi con produzioni a più larga scala, sia al fine di rendere più efficace la ricerca e lo sviluppo dei nuovi sistemi d'arma, potendo cosi` contare su più alti investimenti.
Sempre nel campo dell'impiego, lo strumento militare permette di accelerare e ritardare l'entrata dei giovani nel mercato del lavoro e dunque di limitare la disoccupazione giovanile, di ridurre le spese sociali. E' questo che spiega, secondo noi, la decisione delle autorità belghe di portare la durata del servizio militare da 10 a 12 mesi - da 8 a 1O mesi qualora il servizio militare sia svolto presso le forze armate belghe in Germania. Questo fatto aggiunge un altro elemento a sostegno della tesi dell'esistenza di interessi estranei alla difesa e alla sicurezza nella ostinata quanto anacronistica volontà di mantenere strutture difensive nazionali.
Ma questi elementi che ipotecano pesantemente ogni politica europea di difesa militare futura, rappresentano anche, paradossalmente, l'ostacolo maggiore ad ogni politica di disarmo o di limitazione degli armamenti. In primo luogo esse contrastano con un considerevole numero di importanti interessi e comportano dunque dei costi sociali ingenti. Poi, esse rendono più complesse le negoziazioni politiche attraverso il moltiplicarsi degli accordi necessari e degli interessi esistenti.
D'altra parte, senza voler entrare nella problematica della conversione delle fabbriche d'armi, lo stesso peso economico di questo settore della produzione rappresenta un grosso ostacolo ad ogni politica di disarmo o solo di congelamento delle armi. Così ,per esempio, le stime statunitensi circa le conseguenze economiche di un congelamento della produzione di armi nucleari e di sistemi di lancio prevedevano una perdita potenziale di 350.000 posti di lavoro. "Nè un governo sovietico, nè un governo statunitense riterrebbe prudente dar seguito a tale proposta", afferma il professor Seymour Melman (9).
NOTE
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1. Washington, 4 aprile 1949.
2. Servizio informazioni della Nato, NATO documentazione, edito da "Notizie Nato", Roma, 1977, p.32.
3. Annuaire francais de droit intern, 1966, p. 411.
4. "La sovranità territoriale dello Stato che ospita le basi straniere continua ad essere tutelata erga omnes dal diritto internazionale generale, salvo ad essere, nel caso di specie, ovvero nei rapporti tra i due Stati, derogata per quanto attiene alla creazione ed al funzionamento delle basi stesse", Sergio MARCHISIO, Le basi militari nel diritto internazionale, A:Giuffrè editore, Milano, 1984, p.185 .
5. Franca GUSMAROLI, I si e i no della difesa europea, Società editrice il Mulino, Bologna, 1974, p.15 .
6. L'Europa degli europei, Notizie Radicali, n.265, 1986, p.6 .
7. IL MESSAGGERO, lunedì 14 aprile 1986.
8. Intervista ad Altiero Spinelli di Cristina Mariotti, La grande assente, L'ESPRESSO, 27 aprile 1986, n.16, anno XXXII, pp. 25, 26 .
9. Seymour MELMAN, Conversione economica : perché ?, Columbia University, New York, 1984.10