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Dupuis Olivier - 1 febbraio 1987
VI. LA DIFESA POPOLARE NONVIOLENTA
di Olivier Dupuis

SOMMARIO: Nel dibattito sull'efficacia della difesa popolare nonviolenta (DPN) si fronteggiano oggi diverse scuole di pensiero; l'Autore conduce qui una analisi delle posizioni più significative, elaborando un proprio punto di vista.

(Le alternative alla difesa militare - Cap.VI - IRDISP - Febbraio 1987)

"La 'difesa popolare nonviolenta' o 'difesa civile' può essere succintamente definita come il rifiuto di collaborare con la potenza occupante. E'una politica di difesa della società civile (per società civile, gli autori intendono l'insieme delle istituzione politiche, sociali, economiche, culturali e religiose con la cui mediazione gli uomini partecipano alla vita associata. ndr) contro una oppressione militare, combinando in modo pianificato azioni collettive di non-collaborazione, e di contrapposizione con l'avversario, in modo che questo sia messo nell'incapacità di raggiungere i suoi obiettivi e che, in particolar modo, non possa stabilire un regime politico da imporre alla popolazione" (1).

La questione che si pone è quella di sapere se questa teoria di difesa sia solo una risposta al problema di come resistere all'aggressore, senza abdicare, senza rinunciare alla propria libertà, escludendo allo stesso tempo l'uso prioritario o esclusivo della violenza militare. Oppure se ambisca a trovare una risposta ai rischi di guerra termonucleare, o più generalmente a tutte le minacce alle sicurezza.

In effetti, in questo dibattito ci sono principalmente due scuole che si fronteggiano su ciò che si potrebbe chiamare il campo di efficacia della difesa popolare nonviolenta (DPN). In primo luogo c'è la scuola che potremmo chiamare della complementarità che prevede una certa forma di coabitazione tra il sistema di difesa militare e civile da una parte e la messa in atto di meccanismi di transarmo dall'altro. C'è poi la scuola dell'alternativa, per cui un tale compromesso è inconcepibile e per la quale la DPN deve essere teorizzata e promossa come alternativa globale al sistema di difesa militare.

Schematicamente ritroviamo da una parte il MAN francese e movimenti come il MIR-IRG e dall'altra l'Unione Pacifista Francese e il Movimento Nonviolento Italiano. Si tratta del dibattito che oppone i rivoluzionari (per i quali la credibilità della dissuasione riposerebbe esclusivamente sulla preparazione di alcune misure di difesa nonviolenta) e i riformisti (per i quali la preparazione di alcune misure di difesa civile può portare alla credibilità della dissuasione scaturente dal congiungimento di diverse forme di difesa) (2). Queste due scuole, comunque, si ritrovano sul fatto che entrambe vanno al di là della semplice difesa contro un aggressore, in quanto esse propongono di sopprimere, o in ogni caso diminuire, il carattere aggressivo o offensivo che rivestono le strategie di difesa attualmente in vigore.

Prima di passare in rivista le diverse correnti di pensiero della dottrina della DPN, ci sembra importante analizzare brevemente l'origine e lo sviluppo del concetto di nonviolenza. Lo faremo senza nascondere il nostro intento, che è di mostrare che essenzialmente la concettualizzazione della DPN si fonda su un equivoco fondamentale, che è quello della trasposizione di un metodo d'azione politica, o mezzo nel senso in cui Gandhi lo intendeva, sul terreno dei fini, degli obiettivi. Non vogliamo negare attraverso questo il valore di alcune misure indicate dagli studiosi; vogliamo soltanto dire che un obiettivo non può, non è, in sé e per sé mai nonviolento: lo possono essere o lo sono le azioni che cercano di raggiungere tale obiettivo.

E' forse con Henry David Thoureau, con i suoi famosi discorsi sulla disobbedienza civile del 1848 e 1849, che possiamo trovare i principali elementi teorici di ciò che sarà più tardi chiamato la nonviolenza. Ma ciò che Thoureau teorizza è la possibilità di agire sul quadro legale, sulle leggi della nazione se si stima che esse siano ingiuste e che si vuole cambiarle. E' in questa prospettiva che Gandhi concepisce la nonviolenza, prima in Sudafrica, poi in India.

Gandhi considerava la nonviolenza come strumento politico di conquista dei diritti e della dignità, prima ancora che mezzo per ottenere l'indipendenza anche se - ovviamente - le due cose erano legate. Ricordiamo in effetti che Gandhi postpone parecchie volte l'offensiva finale contro gli inglesi in quanto egli considerava che l'indipendenza non si limitava alla partenza degli inglesi (3). In questa stessa prospettiva, anche se essa resterà per la parte essenziale nel campo degli scritti, si può situare Leon Tolstoj. Più vicini a noi ritroviamo Marthin Luther King, Cesar Chavez, il movimento contro la guerra del Vietnam e - parzialmente - alcuni movimenti ambientalisti ed ecologisti ed infine, in modo statutario e sistematico, il Partito Radicale in Italia.

Tra tutti questi sostenitori della nonviolenza però, nessuno ha dato una sistemazione organica alla DPN. Alcuni, come Gandhi, l'hanno considerata, ma nel senso di una lotta politica di un genere molto simile a quella per la conquista dei diritti del popolo indiano. Sono le azioni e le dichiarazioni ulteriori di Gandhi che ci sembra permettano di propendere a favore di una tale ipotesi. Così, se già nel 1931 Gandhi teorizza la possibilità che la futura India indipendente rinunci alle forze armate per assicurare la sua difesa, egli lega tutto ciò alla condizione che l'India abbia la forza morale per farlo. Ed è più che verosimile che davanti alle resistenze e poi al rifiuto di questa ipotesi - prima dell'indipendenza - da parte del Partito del Congresso, Gandhi stimò da un lato che tale momento non era ancora venuto, e dall'altro che battaglie più urgenti erano presenti nell'ordine del giorno del suo calendario d'uomo politico nonviolento (la divisione dell'India, la lotta contro la miseria, tra le altre ).

Che Gandhi non abbia mai considerato il disarmo o l'assenza di armamenti come una condizione-miracolo o come un fine ultimo, ma che li abbia sempre interpretati come dei processi, come dei mezzi, come degli obiettivi senz'altro necessari a breve termine, ma in ogni caso insufficienti, si comprende chiaramente da une delle sue più note dichiarazioni: "Credo che nel caso in cui l'unica scelta possibile sia tra codardia e violenza, io consiglierei la violenza...Preferirei che l'India ricorresse alle armi per difendere il suo onore piuttosto che in modo codardo divenisse o rimanesse testimone impotente del proprio disonore...Tuttavia sono convinto che la nonviolenza è infinitamente superiore alla violenza" (4).

Per quanto riguarda l'origine della teorizzazione della DNP, possiamo attribuirla a Bertrand Russel, che nel suo articolo "Guerra e non resistenza" dell'agosto 1915 proponeva agli inglesi il ricorso ad una resistenza nonviolenta organizzata nel caso in cui i nazisti fossero riusciti ad invadere l'Inghilterra. Altri accenni alla DPN, privi però di una sistemazione organica, si trovano nel 1934 in Richard Gregg, nel 1935 in Barthelemy de Ligt e nel 1937 in Kenneth Boulding. L'ultimo autore teorizza anche il transarmo.

Ma la prima analisi scientifica della dottrina della difesa popolare nonviolenta viene fatta da un militare inglese, Stephen King-Hall, nel suo libro , "Defence in the Nuclear Age", del 1958. Nello steso periodo Johann Galtung precisa in termini non soltanto strategici ma politici la dottrina in "Defence without a Military System" del 1959. Nel settembre del 1967 si tiene il primo incontro internazionale sull'argomento ad Oxford. Ne scaturirà l'opera che resta il punto di riferimento più sistematico sulla difesa civile, "The Strategy of Civilian Defence", pubblicata sotto la direzione di Adam Roberts e con la collaborazione dello storico e stratega Liddell Hart.

Infine, per inquadrare storicamente e politicamente la DPN, è interessante ricordare che anche alcune istituzioni statali hanno mostrato un interesse alla dottrina. In Danimarca, il ministero del Disarmo e della Cultura chiede all'Istituto per la Ricerca sulla Pace e i Conflitti di Copenhagen di redigere una analisi sulle difese non militari. Anders Boserup e Andrew Mack, incaricati della ricerca, presentano le loro conclusioni nel 1974 con il rapporto pubblicato sotto il titolo "War without Weapons". In Olanda è lo stesso governo che in un documento ufficiale del 1975 afferma l'intenzione di "promuovere la ricerca sulle possibilità offerte dalla risoluzione nonviolenta dei conflitti, tramite la difesa civile". Viene quindi costituito un gruppo di lavoro con rappresentanti dei ministeri degli Affari Esteri, della Difesa, degli Interni, della Giustizia, dell'Educazione, sotto la responsabilità del ministero degli Affari Scientifici, che nel 1977 pubblica un primo rapporto. Ma i cambiamenti politici bloccano s

ostanzialmente questo progetto. Anche il governo svedese, nel dicembre del 1980, affida ad una commissione di sette membri l'incarico di redigere un rapporto su le differenti forme di resistenza non militare. Questa commissione conclude il suo rapporto nel febbraio 1984 (5).

Dopo questa breve analisi storica passiamo adesso ad analizzare i punti di forza e di debolezza della DPN. Prenderemo in esame in questo capitolo le varie correnti di pensiero, quelle che fanno capo a Theodor Ebert (tedesco, professore di Scienze Politiche alla Libera Università di Berlino, legato in qualche modo ad una parte del movimento Grünen), a Jean Marie Muller (francese, fondatore del MAN, Mouvement pour une Alternative Nonviolente), a Gene Sharp (americano, professore al Centro Affari Internazionali dell'Università di Harvard), a Jacques Semelin (francese, ricercatore presso l'IRNC, Istituto di ricerca per la soluzione nonviolenta dei conflitti) e membro del MAN.

Partendo della domanda "Perché le strategie di difesa tradizionali sono inadeguate?", Ebert analizza 4 contraddizioni della politica difensiva contemporanea: "1) La gestione delle crisi, gli interventi militari e presumibilmente anche lo svolgimento di guerre progressivamente più estese, sono affare di pochissimi uomini all'interno di una ristrettissima élite...Oggi a manovrare un dispositivo di sterminio automatizzato bastano i tecnocrati. Il popolo resta completamente tagliato fuori, vittima di una politica decisa dall'alto, nello stile dell'assolutismo, informata tardivamente, insufficientemente o per nulla... 2) La popolazione civile, nelle guerre moderne, è totalmente e direttamente coinvolta, in quanto l'avversario può sterminarla con le sue armi a lungo raggio, senza bisogno di sconfiggere prima l'esercito nemico...3) Le armi a lungo raggio hanno portato alla perdita della difendibilità dei confini degli Stati territoriali; non è possibile in una guerra nucleare difendere i confini...4) Gli enormi cos

ti delle armi moderne e l'impossibilità di una difesa avanzata costringono gli Stati più piccoli a rinunciare ad una delle conquiste delle rivoluzioni borghesi, la sovranità nazionale" (6).

Partendo da queste 4 contraddizioni Ebert propone altrettante sintesi: "1) La contraddizione fra le esigenze dell'attuale strategia del terrore e lo stato di minorità in cui è tenuto il popolo, che deriva dallo sviluppo della tecnica delle armi, conduce dialetticamente alla sintesi per cui il popolo, abolite le armi, diventa protagonista della difesa e viene attuata la resistenza nonviolenta, che esige l'accordo reattivo fra popolo e suoi leader...2) La contraddizione tra l'esigenza difensiva di proteggere la popolazione civile e l'immediata ed incondizionata minaccia cui essa è invece sottoposta trova la sua sintesi nel caso in cui la popolazione civile si prepara ad attuare una resistenza nonviolenta, anziché lasciare il compito della difesa ai soldati...3) Dalla contraddizione tra lo scopo difensivo di proteggere il territorio statale e l'irrecuperabile perdita della difendibilità dei confini del territorio degli Stati si arriva alla conclusione che non bisogna più puntare a difendere un territorio, bensì

le istituzioni sociali. In pratica ciò significa che con la resistenza nonviolenta non vengono più difese tante singole proprietà private, bensì una proprietà comune...4) La contraddizione fra il fine dell'equilibrio del terrore di proteggere l'indipendenza degli Stati e la realtà della dipendenza delle nazioni da una o più superpotenze, trova la sua sintesi nella conversione della difesa militare in una difesa popolare nonviolenta, in grado di restituire anche alle piccole nazioni la possibilità di una politica difensiva indipendente".

Se queste premesse lasciano molte perplessità per uno schematismo e un determinismo che rischiano di banalizzare un pensiero militare certamente tremendo e tragico, ma non per questo privo di una sua base logica, più convincenti sono le considerazioni sulla teoria della resistenza. La difesa popolare nonviolenta punta infatti su una contraddizione dell'occupante: il controllo territoriale realizzato da un esercito è illusorio e instabile se non è confortato dal controllo sociale, se non realizza l'accettazione dell'occupazione stessa da parte della popolazione civile. Se quindi la popolazione civile rifiutasse di collaborare con l'occupante, se i servizi pubblici rifiutassero di accettare il fatto compiuto, se insomma la società nel suo complesso continuasse ad applicare le proprie leggi, rifiutandosi di obbedire alla legge dell'aggressore, si otterrebbe un risultato paragonabile a quello di una guerra di liberazione o di una guerriglia. Ma con danni incomparabilmente minori.

Per Sharp invece "l'armamento dei difensori civili consiste in una vasta varietà di forme di resistenza psicologica, economica, sociale e politica e di contrattacco sugli stessi piani. E' inclusa la non-cooperazione politica, gli scioperi, il boicottaggio economico, l'istituzione di un governo parallelo, la resistenza pubblica, le dimostrazioni di massa, il sovvertimento delle truppe di occupazione ed anche il sostegno di sanzioni politiche ed economiche internazionali" (7).

Sempre a proposito delle forme di resistenza, l'ex deputato francese Christian Pierret presenta interessanti riflessioni su "le rôle que pourraient jouer les différents medias dans l'hypothèse d'une défense civile...Je pense aux nouvelles techniques de communication: radios et télévisions privée, informatique, qui auraient, en cas de conflit, une mission indispensable pour la sensibilisation du pays" (8).

E' ancora attorno all'ipotesi di occupazione del territorio, che si organizza la proposta di "dissuasione civile" di Mellon, Muller e Semelin, che cerca di rendere la società imprendibile. Il generale Copel, nella critica dell'opera, giudica "un apporto essenziale l'idea di definire la ricerca della resistenza in caso di invasione come un dovere non solo morale ma anche giuridico"; cosi` come è per lui da sottolineare la ripresa dell'esempio della Jugoslavia da parte degli autori, "nessuno ha il diritto di riconoscere o firmare la capitolazione delle forze armate". Egli sottolinea pero` il carattere complementare della DPN.

Il generale Buis, anche se con fini opposti, dichiara: "Voi (riferendosi agli autori della "Dissuasione Civile") paragonate giustamente la difesa classica ad un baluardo esterno alla popolazione, che è portato a conservare la sua integrità territoriale. Certo è importante che dietro a questo baluardo esista una difesa interna" (9). Se si tratta, incontestabilmente, di un modo elegante di riaffermazione della preponderanza del "baluardo", del militare sul civile, essa è ugualmente l'espressione indiretta della convinzione che questa ipotesi non è coerente se non nel caso in cui l'occupazione sia fatta in funzione della conquista. E' proprio ciò che afferma il generale Buis, quando compie il ragionamento di cui abbiamo già parlato, dicendo: "La difesa interna non può essere, a mio avviso, che nonviolenta. Così la resistenza palestinese non ha potuto portare dei colpi duri a Israele solo perché agiva dall'esterno. All'interno la repressione contro la violenza è stata così rigorosa che non ha lasciato altra pos

sibilità che la resistenza civile, che si è manifestata sotto differenti forme nei territori occupati" (10).

Più debole mi sembra invece l'ipotesi degli autori della "Dissuasione civile" nel caso di occupazione finalizzata esclusivamente al transito delle truppe. Ma si tratta di un limite proprio alla difesa territoriale - civile o militare - come alla difesa difensiva. Sostiene a questo proposito Virgilio Ilari : "La difesa territoriale secondo la versione austriaca e jugoslava implica la rinuncia alla battaglia d'arresto e la trasformazione del conflitto in una guerra di lunga durata, con una strategia di logoramento: dunque un avversario che non mirasse ad occupare in permanenza Austria e Jugoslavia, ma soltanto ad attraversarle per sferrare un colpo mortale all'Italia, riceverebbe da parte della difesa popolare o da quella 'a sciame d'api' danni minori di quelli che potrebbero essergli inferti da forze meccanizzate e corazzate" (11).

Ci si può ugualmente interrogare sul valore della strategia di difesa civile nel caso di occupazione territoriale molto localizzata, destinata a servire d'argomento politico in una contenzioso più vasto. Ma questi punti deboli della DPN diventano dettagli rispetto ad un'altra considerazione: la difesa popolare nonviolenta si limita, per sua definizione, a prevedere forme di resistenza non militari in caso di aggressione. Si potrebbe quindi obiettare che tralascia di esaminare tutta la problematica della prevenzione della guerra, della riduzione delle minacce alla sicurezza, quelle tradizionali e quelle atipiche.

A quest'ultima domanda, che noi abbiamo già posto all'inizio di questo capitolo, risponde Gene Sharp, nel corso di un convegno internazionale, organizzato dall'IRNC, che si è tenuto a Strasburgo il 27, 28 e 29 novembre 1985 su "les stratégies civiles de défense". "Nostro intento è di badare alla deterrenza ed alla difesa dei paesi dell'Europa occidentale con mezzi che producano la massima sicurezza e la minima distruzione, o perdita di vite...Il paese difensore dovrebbe mirare alla creazione del maggior numero di problemi internazionali per l'aggressore ed a sovvertire la saldezza delle sue truppe e dei suoi funzionari...Deterrenza è un concetto più vasto di quello della dissuasione militare o nucleare. La capacità di negare gli obiettivi di un attacco e di imporre costi inaccettabili può produrre la deterrenza, tale negazione e i suoi successivi costi possono derivare tanto da azioni violente quanto nonviolente" (12).

Ancora su questa domanda Mellon, Müller e Semelin (13) rispondono alle critiche del capitano di Vascello Michel BERGER, che contestava la capacità dissuasiva della difesa popolare nonviolenta (14), affermando che "come ogni politica di difesa, la difesa civile nonviolenta deve avere come prima finalità di dissuadere un potenziale avversario dall'aprire le ostilità, vale a dire di convincerlo che i costi della sua aggressione sarebbero superiori ai guadagni che potrebbe sperarne".

Devono però riconoscere - quando Berger ironizza sulla DPN scrivendo che "E' un curioso modo di difendersi quello di attendere che l'invasore sia divenuto occupante" - che "certo l'eventuale messa in opera effettiva della difesa civile nonviolenta presuppone che l'occupazione militare del paese sia già iniziata...finora, questa sola considerazione è servita da pretesto per rifiutare di considerare seriamente l'ipotesi di lavoro di una tale difesa...tuttavia se ci si riferisce all'attuale organizzazione della nostra difesa, la messa in atto della difesa civile nonviolenta corrisponde allo scenario previsto dal decreto del 1 marzo 1973 relativo alla difesa operativa del territorio" (15).

Questa risposta degli autori è senz'altro corretta, ma mette in luce un altro limite della DPN, lo stesso che abbiamo già esaminato nel quinto capitolo, cioè l'impraticabilità delle concezioni nazionali di difesa. Se, come abbiamo visto e come sosteniamo, oggi non è più credibile una concezione nazionale di difesa convenzionale o nucleare, come potrebbe esserlo quella di difesa nazionale, seppur popolare e nonviolenta? Troviamo nel pensiero di Gene Sharp una conferma del sostanziale disinteresse che la riflessione sulla DNP riserva alle interazioni fra la conflittualità Est-Ovest e quella fra il Nord e il Sud del Mondo.

Secondo quest'autore infatti, il ruolo della DPN non sembra dover andare oltre il modello teorico: "una seria analisi per individuare mezzi alternativi per la difesa europea può aiutare anche i paesi del Terzo Mondo a prendere in considerazione una politica militare diversa" (16).

Afferma invece Jacques Sémelin che "ogni strategia di dissuasione civile deve essere legata ad una nuova politica internazionale del proprio paese, una politica che integri completamente una ridefinizione dei rapporti Nord-Sud, dell'Europa dell'Ovest con l'Asia, con l'Africa, con l'America del Sud su basi fondate molto più sull'eguaglianza sociale" (17). Quest'affermazione va un po` più avanti, ma non ha sicuramente il merito della precisione se non quando viene riaffermato che deve trattarsi di un iniziativa parallela e non di un elemento costitutivo della nuova politica di difesa.

Per quel che riguarda il ruolo della dissuasione civile nella difesa dei diritti civili all'est, questa affermazione di Mellon, Müller e Semelin ci sembra certamente avere un valore di lapsus rivelatore: "Senza portare il paradosso fino a sperare in un'aggressione sovietica per vedere affondare il totalitarismo che opprime i popoli dell'Est europeo, si deve misurare interamente la forza potenziale della dissuasione che possiamo sviluppare affermando che, per noi, la democrazia non è solo una eredità che vogliamo difendere, ma che è anche una forza di liberazione che vogliamo divulgare ogni volta che un'occasione ci sarà data" (18).

Infine, per quanto riguarda il valore propriamente dissuasivo della dissuasione civile nell'epoca nucleare, ci sembra interessante riportare il dialogo tra l'Ammiraglio Olivier Sevaistre e la Rivista "Alternatives Nonviolentes".

ANV: La lingua inglese comprende due termini, deterrenza e dissuasione. Non si potrebbe considerare la dissuasione come concetto generico, di cui la dissuasione nucleare non sarebbe che un contenuto specifico, tra altri possibili?

Olivier Sevaistre: No! Io penso che il termine dissuasione non si può applicare al di fuori del contesto nucleare. Il criterio da usare è quello della guerra come strumento della politica. Persuadere, come voi intendete fare, un nemico potenziale che 'il gioco non vale la candela' non è dissuadere. E' porre invece il problema in termini politici tradizionali, da cui il fenomeno nucleare ci ha giustamente fatto uscire.

A.N.V. E' giustamente la critica della concezione clausewitziana che fonda, secondo noi, la dissuasione civile.

O.S. E' qui che io non sono d'accordo: la dissuasione civile consiste nel ritornare sul terreno politico, nel domandarsi se sia buona o cattiva politica compiere questa o quella azione. E questo non è propriamente parlare di dissuasione...In più, nel vostro lavoro, voi utilizzate la terminologia economica: costi, profitti, rendite etc. In questa logica, non date alla nozione di rischio il posto che sarebbe necessario. Invece questo concetto è fondamentale nella dissuasione nucleare. Nel caso della dissuasione civile il rischio che corre un eventuale aggressore non sembra sufficiente. Questo rischio non è sufficientemente grave per giustificare il ricorso alla nozione di dissuasione.

A.N.V. Ma i rischi che si corrono comprendono anche i costi politici dell'aggressione. C'è, d'altra parte, la 'speranza dei profitti' che la dissuasione nucleare non prende in considerazione e su cui noi attiriamo l'attenzione. Dissuadere, non è solo aumentare i costi, può essere anche diminuire i profitti.

O.S. Io contesto l'idea che la diminuzione dei profitti dovuta alla dissuasione civile possa sopprimere l'impiego razionale della guerra da parte della politica. Questo confronto fra costi e profitti non è che calcolo politico. La novità del nucleare è che la guerra ha cessato d'essere strumento della politica.

Al di là delle singole obiezioni che si possono muovere alla DPN, è indubbio che questo pensiero, pure nelle sue posizioni differenziate, tende a rompere il circolo vizioso della violenza, tende a mettere in crisi il dogma dell'equilibrio delle armi come fondamento della sicurezza e della pace. E' infatti indiscutibile che queste logiche attuali di difesa continuino a costituire il credo di sicurezza dei nostri responsabili politici. Ne risulta una corsa agli armamenti sempre più sfrenata. Le sue conseguenze sono enormi per l'insieme dell'economia e quindi del benessere dell'umanità.

Ne risulta anche un'opposizione sempre più statica tra le due superpotenze e conseguentemente dei rischi sempre più grandi di rottura, prima sui teatri secondari e poi attraverso l'escalation orizzontale sul teatro armato al di là delle necessità dell'Europa occidentale e orientale.

D'altra parte è bene sottolineare che la difesa popolare nonviolenta non si propone come atteggiamento passivo o negativo di fronte al 'nemico' o di fronte alle minacce, "c'est une méthode positive et active, une sorte de guerre très mobile - come afferma il palestinese Mubarak L-Awad, di cui abbiamo riportato in una lunga nota precedente un'analisi dell'efficacia del metodo nonviolento se fosse applicato alla particolare situazione dei territori di Gaza occupati dagli israeliani: "Elle requiert l'utilisation de toutes les ressources et capacités disponibles. Elle exige un entrainement spécial et un degré élévé d'organisation et de discipline. Les préparatifs, l'organisation des différentes opérations et campagnes devront sans doute se faire dans le secret" (19).

Questo aspetto positivo della dottrina in questione è largamente sottolineato dalla maggior parte degli specialisti, tra l'altro per distinguerla dal pacifismo. Ma la questione che si pone, secondo noi, è il sapere in quale misura questo carattere attivo o positivo non è annullato dal carattere sostanzialmente statico di questa dottrina. Si può infatti fare l'ipotesi che questa distinzione tra pacifismo passivo e difesa popolare attiva mascheri una contraddizione molto più fondamentale, quella che scaturisce da una confusione tra la resistenza nonviolenta - metodo d'azione politica - e la DPN - teoria strategica di matrice militare.

E' questa contraddizione che gli autori della "Dissuasione Civile" sfiorano, quando affermano che "la democrazia non è solo un'eredità che vogliamo difendere, ma è una forza di liberazione che vogliamo utilizzare, ogni volta che ce ne sarà data un'occasione" (20). Ma rispondono alla domanda: infatti la democrazia non si può difendere come se fosse una fortezza immobile. La sicurezza, di fronte a minacce esterne, si fonda innanzitutto sulla sue coerenza interna, ovvero sulla sua capacità di darsi un progetto che non sia la semplice riproduzione della realtà esistente. In secondo luogo, questa coerenza interna non si può neanche creare senza una proiezione verso l'esterno dei valori difesi. Non si può avere una difesa dinamica della società senza un'elaborazione e una prassi politica, un progetto politico dello stato che si difende, con lo scopo di creare delle occasioni di liberazione.

Di conseguenza, se possiamo seguire Mellon, Muller e Semelin, quando precisano che "une situation politique est toujours une situation conflictuelle, ne serait-ce que de manière potentielle. Il en résulte que l'action politique est essentiellement la gestion des conflits", non crediamo però che la Dissuasione Civile e la Difesa Popolare Nonviolenta come essi le propongono portino a parlare propriamente di una gestione politica dei conflitti ma piuttosto di ipotesi, su alcune dei quali vale la pena fermarsi.

E' verso le azioni politiche miranti ad amministrare (e a risolvere) in modo non militare questi conflitti, che ci avviamo a discutere nei capitoli seguenti.

NOTE

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1. MELLIN, MÜLLER, SEMELIN, 1985, p. 35

2. Mellon, Muller et Semelin, La dissuasione Civile, pag.45

3. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, cit.,., pag 18/19 e 44

4. M.K. GANDHI, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino, 1981, pp.18, 19, 44.

5. Il rapporto della Commissione è pubblicato su "Alternatives non violentes".

6. Theodor EBERT, La difesa popolare nonviolenta, un'alternativa democratica alla difesa militare, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1984.

7. Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta, Ed.Gruppo Abele, Torino, 1985.

8. Christian PIERRET, Originalité, sérieux et pertinence, Alternatives non violentes, n.59, aprile 1986, p.14.

9. Generale Copel, Dissuasione Civile: oui, mais avec du classique, Alternative Nonviolente, N· 59/1986, pag.2O/21

10. Generale Buis, Une arme post-strategique, cit., pag 192

11. Virgilio ILARI, La difesa del territorio, Edizioni Istrid, Roma, 1980, p.76 .

12. Gene Sharp, La deterrenza della difesa civile, Azione Nonviolenta, n.3, anno XXIII, marzo 1986, p.16.

13. C.MELLON - JM.MULLER - J.SEMELIN, La dissuasion civile, Fondation pour les Etudes de Défense Nationale, Paris, 1985, p. 41, nota 2.

14. "Occorre ben riconoscere - scrive il capitano di vascello Michel Berger - che la nonviolenza non è una strategia di guerra, e il suo valore dissuasivo è quasi nullo"..."E' un curioso modo di difendersi quello di attendere che l'invasore sia divenuto occupante", Nonviolence et religion, Le Casoard, sett.1984.

15. Il decreto francese del 1 marzo 1973 relativo alla difesa operativa del territorio prevede che la terza missione affidata alle Forze Armate "in caso d'invasione" è quella "di condurre le operazioni di resistenza militare che, con altre forme di lotta, sottolineino la volontà nazionale di rifiutare la legge del nemico e di eliminarlo".

16. Intervista a Gene Sharp, Azione Nonviolenta, n.1, anno XXIII, gennaio 1986, p. 4.

17. Intervista a Jacques SEMELIN, Azione Nonviolenta, n.2, anno XXIII, febbraio 1986, p.15.

18. Mellon; Muller et Semelin; La dissuasione civile, cit., pag. 153

19. Mubarack L.AWAD, Alternative nonviolentes ,cit., pag.3O

20. Mellon, Muller et Semelin, La Dissuasione Civile, cit., pag. 15321

 
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