di Olivier DupuisSOMMARIO: Da una ridefinizione del concetto di sicurezza, che tenga conto dei problemi posti dallo sviluppo industriale e tecnologico da una parte e del sottosviluppo dall'altra, nasce un nuovo approccio ai problemi della difesa.
(Le alternative alla difesa militare - Cap.VII - IRDISP - Febbraio 1987)
Tenteremo in questo capitolo di definire una nuova classificazione delle minacce alla sicurezza. Passeremo in rassegna alcuni testi che propongono questo nuovo approccio, fondato sul diritto alla vita e all'essere sfamati come premessa allo sviluppo. Cercheremo di stabilire il legame tra fame, sottosviluppo e ingiustizie da una parte, e sicurezza dall'altra, sia nel Sud che nel Nord del mondo. Cercheremo, infine, di evidenziare alcune delle implicazioni economiche che scaturiscono da un simile ordine mondiale.
Come abbiamo già visto un nuovo approccio ai problemi della difesa nasce anche da una ridefinizione del concetto di sicurezza che tenga conto non solo delle minacce classiche e dirette, ma anche degli altri pericoli determinati dallo sviluppo industriale, dalle profonde mutazioni dell'assetto politico mondiale e dalle sempre più forti interazioni internazionali dei fattori economici e sociali, in particolare di quelli che si manifestano nel sud del mondo.
"Dalla Seconda guerra mondiale il concetto di sicurezza ha acquistato un carattere sempre più esclusivamente militare, basato cioè sulla convinzione che la principale minaccia alla sicurezza proviene dalle altre nazioni...Nuove sorgenti di pericolo per la collettività internazionale nascono invece dall'erosione dei suoli, dall'inquinamento nucleare e chimico, dal degrado di regioni, dalla eliminazione progressiva delle foreste, dalle alterazioni climatiche" (1).
E nel terzo mondo, accanto al manifestarsi di tutti questi fattori degenerativi, si registra il più tremendo sterminio di vite umane che mai l'umanità abbia conosciuto: 30 milioni di persone muoiono per fame, sottosviluppo e malattia ogni anno, più di un miliardo di persone sono malnutrite. Oggi più che mai le nazioni - ricche e povere - si mobilitano per far fronte alle minacce tradizionali, ma poco o nulla è fatto contro i nuovi pericoli alla sicurezza.
Nel 1985 la spesa militare globale raggiungeva i 940 miliardi di dollari Usa, superando le entrate della metà più povera dell'umanità. Questa cifra è infatti superiore al Prodotto Interno Lordo della Cina, dell'India e dei paesi africani al sud del Sahara messi insieme (2). Il commercio mondiale di grano nel 1984, con i suoi 33 miliardi di dollari, è stato inferiore all'importazione di sistemi d'arma che, sempre nello stesso anno, ha raggiunto i 35 miliardi di dollari (3).
La totale identificazione fra sicurezza e proliferazione bellica caratterizza quindi la politica della quasi totalità dei paesi della terra. La sola eccezione è costituita dal Giappone, che ha potuto realizzare un enorme sviluppo, soprattutto nei settori a tecnologia avanzata, in parte grazie alle enormi risorse rese disponibili dai suoi quasi insignificanti bilanci militari: tutto questo contro i pregiudizi e una certa logica che vorrebbero che gli investimenti militari siano un fattore di sviluppo economico.
Tale tipo di politica ci dimostra che sono sottovalutate completamente gran parte delle altre minacce che oggi rendono precaria la sicurezza mondiale e regionale. Bisogna rilevare a tal proposito che l'esigenza di riclassificazione delle minacce alla sicurezza, compiuta ponendo ai vertici lo squilibrio fra nord e sud del mondo, è sostenuta non solo da minoranze illuminate ma costituisce una delle preoccupazioni centrali di associazioni e di organizzazioni prestigiose.
"Lo sviluppo è il nuovo nome della pace", così ha proclamato Papa Paolo VI nel 1967 nell'Enciclica Populorum Progressio. "Combattere la miseria e lottare contro l'ingiustizia, è promuovere, assieme al miglioramento delle condizioni di vita, il progresso umano e spirituale di tutti, e dunque il bene dell'umanità: la pace non si riduce a un'assenza di guerra, frutto sempre precario dell'equilibrio delle forze. Essa si costruisce giorno dopo giorno, nel proseguimento d'un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini".
Questo stesso concetto viene ribadito da Papa Giovanni Paolo II nella Enciclica Laborem Exercens dove afferma che "è necessario far prendere coscienza alle genti di oggi, che le diseguaglianze economiche, sociali e culturali troppo grandi tra i popoli, provocano tensioni e discordie, e mettono in pericolo la pace".
Alla stessa conclusione arriva la Commissione presidenziale istituita dall'ex Presidente americano Jimmy Carter sul problema della fame nel mondo: "La maggior parte degli americani, a partire dall'avvento delle armi nucleari, è stata portata a ritenere che la sicurezza nazionale ed il suo mantenimento si basano sulla potenza delle forze strategiche. La Commissione ritiene che questa sia null'altro che una illusione semplicistica. Le forze armate rappresentano solamente l'aspetto fisico della sicurezza nazionale; esse si dimostrano assolutamente inutili in mancanza di quella sicurezza mondiale che può essere raggiunta solo attraverso uno sforzo internazionale coordinato di progresso verso la giustizia sociale...In un momento in cui i rapporti fra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo si vanno sempre più deteriorando e le sfide all'attuale sistema politico, economico, energetico ed ambientale vanno facendosi sempre più minacciose, la Commissione è profondamente convinta del fatto che un grande sfor
zo globale per vincere la fame e la povertà non sarebbe un atto di carità da concedere o rifiutare in base a temporanee considerazioni di opportunismo politico, ma bensì l'unica soluzione radicale al problema della sicurezza nazionale e mondiale. Il desiderio frustrato della povera gente di vivere in modo decente è, nel momento attuale, la forza potenzialmente più esplosiva che esista. Le reali e persistenti minacce all'ordine internazionale sono rappresentate dalla rabbia, dalla disperazione e spesso anche dall'odio che ne risulta" (4).
Questa percezione del dramma della fame come fondamentale minaccia alla sicurezza, emerge con forza anche dal Rapporto Brandt: "On concoit souvent la guerre en termes de conflit militaire ou même d'annihilation. Cependant on se rend compte de plus en plus que le chaos résultant d'une famine massive, d'un désastre économique, de catastrophes dans notre environnement et du terrorisme pourrait représenter un égal danger" (5).
In un altro documento ritroviamo la stessa concezione: la risoluzione del Parlamento Europeo approvata il 30 settembre 1981 che chiedeva, nel suo terzo punto, che "i paesi membri investano d'urgenza il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del problema della fame nel mondo considerato sotto i suoi aspetti di minaccia grave alla pace ed alla sicurezza internazionale, restituendo allo sterminio per fame la dimensione che gli è propria, e cioè quella politica" (6).
E' molto più difficile trovar esempi di posizioni che contestino il legame fra sottosviluppo e sicurezza. Una posizione esplicita in questo senso è quella di Mario'n Mushkat, dell'Israeli Institute for the Study of International Affairs, che nel suo libro "Third World and Peace" cerca di dimostrare che "i problemi specifici del Terzo Mondo non costituiscono, come invece sostiene la Commissione Brandt, una grave minaccia per la pace e la sicurezza internazionale...le teorie e le argomentazioni politiche che definiscono i Paesi in via di sviluppo la principale minaccia alla sicurezza internazionale distolgono l'attenzione, intenzionalmente o no, dai pericoli reali" (7).
Mushkat precisa il suo pensiero sostenendo che "molti aspetti del cosiddetto conflitto Nord-Sud, sono in gran parte in funzione del confronto Est-Ovest. Il continuo incremento dei bilanci militari e la riduzione di quelli per lo sviluppo sono il frutto della minaccia delle politiche sovietiche, il cui scopo sembra essere, malgrado l'accettazione formale della politica di distensione, quello di conquistare l'egemonia del mondo, potenziando a questo fine le strutture militari". Egli ne deduce quindi la "irrilevanza della situazione economica del Terzo mondo sulle tattiche e sulle strategie politiche da adottare per garantire la sicurezza internazionale".
Si può seguire questo autore quando afferma che la frammentazione interna dei paesi sottosviluppati rende poco probabile per la maggior parte di questi paesi (eccezione fatta per il Brasile, la Cina e l'India) l' inserimento attivo nel sistema mondiale. Resta il fatto, comunque, che questi paesi costituiscono intrinsecamente, passivamente, delle situazioni economiche e quindi strategiche che fanno parte del sistema mondiale e sono quindi suscettibili di provocare, attraverso dei meccanismi di escalation orizzontali, delle minacce alla sicurezza di tutto o di parte del sistema.
Ma il limite dell'analisi di Mushkat non risiede solo nell'impostazione esclusivamente militare. Appare incontestabile che il miliardo di sottonutriti non sarà in grado tanto presto di imbracciare le armi contro i paesi del Nord e contro le nazioni più ricche (o potenzialmente più ricche) del Terzo Mondo. E' già meno evidente che il valore, il peso economico, del Terzo Mondo non costituisce una minaccia possibile per i paesi ricchi, per la loro stabilità. Invece, sembra molto più probabile che questi stessi paesi, la loro situazione politica, economica, sociale, costituiscono a termine una minaccia interna per i paesi sviluppati.
Se lo stesso Mushkat afferma - giustamente - che la forza e la legittimità dell'occidente risiede proprio nel rispetto dei diritti delle persone, ci si può chiedere con quale forza e legittimità l'Occidente responsabile, o nella tesi meno sfavorevole, testimone rassegnato dello sterminio di milioni di persone ogni anno, potrebbe affrontare e confrontarsi con il totalitarismo sovietico, affrontare non in modo superficiale il terrorismo proveniente dal Terzo Mondo, affrontare infine soprattutto l'eurocentrismo o l'occidental-centrismo rinascenti, siano essi di matrice tecnocratica o neutral-pacifista-ecologista-terzomondista.
Queste ultime considerazioni dovrebbero convincere sullo stretto legame fra fame, sottosviluppo, ingiustizia e sicurezza e sulla necessità di operare una riclassificazione delle minacce alla pace che collochi ai primi posti quella costituita dall'enorme squilibrio fra Nord e Sud del mondo e dallo sterminio di milioni di esseri umani e dalla miseria che ne risultano. Non altrettanto chiare appaiono, invece, le ragioni per le quali i governi dovrebbero rinunciare alle tradizionali azioni di containment volte ad assicurare una stabilità a tutti costi delle nazioni sottosviluppate del sud.
D'altra parte non appare sufficientemente esplorato il problema operativo della guerra alla fame, e cioè la configurazione precisa delle modalità con le quali questa alternativa difensiva potrebbe sostituirsi - in tutto o in parte - a quelle propriamente militari, magari utilizzando e convertendo lo strumento militare stesso. Emma Bonino e Roberto Cicciomessere spiegano la vacuità dell'attuale politica di containment con le seguenti ragioni: "La disparità crescente fra paesi industrializzati e paesi sottosviluppati, la continua espansione della povertà assoluta, delle malattie, della mortalità nel sud del mondo, il preoccupante aumento del disordine politico ed economico internazionale e la incapacità ormai definitiva dei paesi sviluppati di far fronte, con procedure ordinarie, alla conflittualità diffusa, rappresenta quella 'sfida mondiale' a cui è illusorio opporre le ordinarie procedure della forza militare ed economica. Dobbiamo precisare che il termine 'illusorio' non è adottato per significare che una
politica militarista ed imperialista sia incapace di garantire, nel breve periodo, con l'utilizzazione tradizionale delle politiche tariffarie e militari, l'accumulazione dei profitti imperialisti, e cioè la rapina pura e semplice delle risorse naturali e del plusvalore delle attività lavorative dei paesi del terzo mondo da parte dell'occidente e dell'oriente sviluppati, ma che queste strategie politiche hanno un difetto : comportano necessariamente l'impiego della violenza, della guerra senza poter garantire nè la limitazione geografica dei conflitti, nè il non superamento della soglia nucleare" (8).
Che questa politica sia capace di garantire a breve termine il disordine stabilito emerge in modo incontestabile dalla situazione di conflittualità controllata che esiste in larghe zone del Terzo Mondo. Non è superfluo constatare che Oriente ed Occidente industrializzati hanno saputo, spesso al prezzo di massicci aiuti militari ed economici, allearsi con gran parte delle classe dirigenti dei paesi in via di sviluppo. Questi aiuti hanno prodotto il risultato che nei paesi ad alto valore strategico il bilancio dello Stato - uno dei segni più tangibile dell'organizzazione dello sviluppo - sia prioritariamente destinato a coprire una politica di sviluppo militare.
Così nell'Etiopia di Menghistu, che usufruisce delle attenzioni strategiche sovietiche e di un massiccio aiuto umanitario occidentale, il 10,9% del prodotto nazionale lordo è destinato alle spese militari (più del doppio degli Stati Uniti) o, in altri termini, il 42,6 % del suo bilancio (più di Israele, più della Corea del Sud, più di ogni altra società fortemente militarizzata). In questo stesso paese si ha un tasso di alfabetizzazione che non supera il 7%, mentre la carestia è endemica.
Altro esempio al confine del Sahara: la Mauritania, un paese tra i più poveri del mondo, ha destinato alle spese militari il 25,9% del suo bilancio per il 1980 mentre il Mali, da sempre una delle principale vittime della siccità che ha infierito sul Sahel, ha destinato quote che raggiungono il 20,5 % del suo bilancio nazionale al suo esercito, o la sua guardia pretoriana 8.000 uomini (9).
Senza adottare un punto di vista economicistico cerchiamo di identificare le ragioni non ideologiche sulle quali si fondano le politiche di containement o d'espansione del Nord nel Sud del mondo. Siamo comunque coscienti che è difficile sezionare la politica estera di uno Stato e, ancor più, di una superpotenza; così come siamo portati a constatare che i paesi industrializzati non hanno che delle cattive ragioni economiche e commerciali per perseguire la loro politica di scambio col Sud come essa è attualmente concepita.
L'approvvigionamento da parte del Nord di materie prime è certamente d'interesse sicuro, ma a breve termine e in una pura logica mercantile. In massima parte, in effetti, le nostre esportazioni sono costituite da prodotti di consumo ad alto valore aggiunto, incapaci di provocare un qualunque meccanismo di produzione e di trasformazione, e per conseguenza di sviluppo, ma d'altro canto estremamente suscettibili di recuperare le monete forti che risultano dalla vendita da parte di questi paesi delle loro materie prime. Si tratta dunque di una politica economica a breve termine, in quanto in una tale prospettiva i paesi industrializzati sono condannati ad approfittare di un mercato minuscolo e poco propizio ad ogni modernizzazione delle nostre economie.
Conviene inoltre sottolineare che una parte sostanziale degli scambi del Nord verso il Sud è costituita dal commercio delle armi. E' certo che tale commercio non è il solo sbocco delle nostre industrie di armi, poiché esse vivono in mercati nazionali superprotetti, ma ne rappresenta di certo un elemento fondamentale per la loro sopravvivenza. D'altra parte è largamente dimostrato che questo tipo di produzione ha effetti profondamente negativi sulla salute dell'economia.
E' in ogni caso questo il parere di Seymour Melman per cui la particolarità dei prodotti militari provoca che il costo globale a carico della comunità nel suo insieme di questo modo di utilizzazione delle risorse finanziarie, ha delle caratteristiche che sono quasi interamente trascurate nei nostri testi di economia (10).
A carico della società sono innanzitutto le risorse monetarie direttamente concesse alla Difesa. Un secondo tipo di costi è rappresentato da tutti i beni e servizi civili destinati al consumo e alla produzione che sono persi quando le risorse finanziarie sono utilizzate per realizzare dei prodotti che non hanno alcuna utilità per la società civile. Dal punto di vista della comunità, tali costi economici sono approssimativamente uguali a quelli relativi ai diversi articoli del bilancio militare. C'è poi un terzo tipo di costi: quando le risorse finanziarie sono destinate ad una nuova produzione civile in modo continuo, ne consegue generalmente un perfezionamento dei mezzi di produzione. Essi diventano più adatti e efficaci, funzionano meglio e sono più produttivi. Gli economisti chiamano questo fenomeno "aumento della produttività marginale del capitale". Quando, al contrario, le risorse sono utilizzate per obiettivi che non possono portare a una diversa produzione, l'aumento della produttività marginale del
sistema è persa per sempre.
Ma c'è ancora un quarto tipo di costi, un costo sociale per l'intera comunità. Una grande quantità di conoscenze è richiesta per la sola produzione militare e non può essere utilizzata in altri campi, come invece potrebbe essere nel caso in cui la ricerca-sviluppo fosse indirizzata a fini civili. Ne deriva che anche tali conoscenze sono perse definitivamente. C'è infine un quinto costo, non misurabile ma molto importante: quando una grande forza lavorativa è addestrata per rispondere a esigenze militari, la si abitua a lavorare non preoccupandosi di diminuire i costi, ma anzi ad aumentarli e a compensare i costi così gonfiati con sussidi statali anch'essi gonfiati: questo è possibile solo se l'attività è realizzata sotto la tutela di uno Stato con risorse quasi illimitate rese disponibili dal drenaggio fiscale di un'intera società. Di conseguenza, una forza lavoro addestrata in questo modo, sviluppa ciò che è stato chiamato da Thorstein Veblen "'un'incapacità addestrata', in questo caso specifico, al lavo
ro civile" (11).
Se abbiamo largamente affrontato il problema specifico della produzione e del commercio di armi per i paesi industrializzati è anche perchè i meccanismi aberranti in termini di utilità sociale o civile per i paesi industrializzati (per i paesi del Terzo Mondo va da sé) che esso mette in luce ci sembrano comuni a un certo numero di nostri altri articoli di esportazione. E' certamente il caso per i prodotti di consumo, per i quali sarebbe difficile concepire un qualunque aumento della produttività marginale del capitale che è loro consacrato. Ma è anche il caso per un grande numero di mezzi di produzione, dei quali i paesi destinatari si dimostrano incapaci di servirsi, se non a dei costi superiori a quelli del mercato mondiale, ma che i paesi produttori non potrebbero produrre se questi mercati creati artificialmente non esistessero.
Si tratta dunque per gli Stati industrializzati di supplire alle mancanze di sbocchi per le imprese nazionali, si tratta di permettere ad imprese obsolete di sopravvivere. Questo atteggiamento è incoraggiato dalla debolezza politica dei regimi del Terzo Mondo, dal fatto che le loro classi dirigenti sono attratte dalla tecnologia, dalla loro dipendenza finanziaria nei nostri confronti, dalla corruzione che il debole livello di sviluppo porta in sè quasi necessariamente, dallo spirito non lungimirante dei dirigenti politici del Nord del mondo, incapaci di capire il loro interesse a medio e breve termine, oltre, indubbiamente, a quello dei paesi del sud del mondo.
Dopo aver percorso brevemente le ragioni che ci potrebbero essere per rinunciare all'attuale strategia di containment, vediamo ora le modalità attraverso le quali l'alternativa di difesa di cui abbiamo parlato potrebbe sostituirsi in tutto o in parte alla difesa tradizionale. Questi approfondimenti sono tanto più importanti, ci sembra, in quanto devono rendere credibile l'ipotesi di un processo politico che modifichi strutturalmente la politica attuale di cooperazione allo sviluppo. Questa politica deve passare da azione puramente umanitaria a elemento strategico costitutivo - allo stesso titolo che la politica di difesa militare - per costituire l'asse portante di una politica globale di sicurezza.
Mi sembra che si possano distinguere due possibili fonti di intervento contro la minaccia alla sicurezza che è costituita dallo sterminio per fame. L'Organizzazione delle Nazioni Unite con le sue agenzie specializzate da una parte, gli Stati nazionali dall'altra. Il presidente della Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja, Mohammed Bedjaoui, partendo dalla constatazione "che può sembrare poco soddisfacente che il Consiglio di Sicurezza sia investito di ogni piccola scaramuccia di frontiera quando lo sterminio per fame, che ogni anno produce circa cinquanta milioni di morti, non provoca lo stesso effetto", indica il problema centrale posto da una tale situazione, con "definizione della situazione considerata".
Secondo l'art. 39 del Trattato, "il Consiglio di Sicurezza, una volta constatata l'esistenza di una minaccia alla pace, di una effettiva rottura della pace, o di un atto d'aggressione, deve raccomandare o decidere quali misure potranno essere prese, conformemente agli artt. 41 e 42, per mantenere e ristabilire la pace e la sicurezza internazionali". M. Bedjaoui da ciò deduce che, affinche il Consiglio di Sicurezza possa intervenire, sarebbe necessario che: a) la fame nel mondo sia considerata come rappresentante una "minaccia alla pace" o una "rottura della pace" o un "atto di aggressione"; b) che i fattori di questa situazione possano essere identificati, per farla cessare, cosa che implicherebbe una ricerca molto complessa delle cause della fame nel mondo.
E poiché effettivamente "le cause sono meno legate alla politica di questo o quell'altro Stato che dipendenti dal sistema internazionale fondato su un processo di scambio subordinato e dipendente...resterebbe solamente la prima ipotesi, quella relativa alla "definizione della situazione", ovviamente nel caso in cui si rinunciasse ad identificare i responsabili (non fosse altro che per non colpevolizzare gli Stati da cui ci si aspetta l'aiuto per la lotta contro la fame)" (12).
L'altra fonte di intervento possibile alla quale abbiamo precedentemente accennato, è data da uno o più Stati che procedessero nello stesso modo, cioè a partire dalla semplice constatazione di una situazione di carestia, sottosviluppo o di miseria caratterizzata. La differenza fra i due soggetti che intervengono sarebbe nel carattere automatico ed obbligatorio del primo tipo d'intervento, e volontario e contrattuale del secondo.
Una volta deciso il meccanismo di inizio dell'intervento resterebbero da definire solo le modalità operative dell'intervento stesso. Nella misura in cui l'ONU fosse considerata come entità che gode di prerogative effettive, che gode di diritti sopranazionali, il rapporto potrebbe essere qualificato "d'intervento legale". Non godendo attualmente l'ONU di tali diritti, o perlomeno godendone in maniera relativa, ne deriva che il rapporto non potrebbe essere che del tipo dell'ingerenza contrattuale. E questo ci riporta al tipo di rapporto esistente tra Stato e Stato. In altri termini, si tratterebbe per le due entità di dare il loro assenso ad un piano di intervento globale. In una tale situazione, al contrario di ciò che succede nelle relazioni bilaterali fra paesi industrializzati e paesi sottosviluppati, non vi potrebbe essere alcuna selezione in funzione di interessi settoriali, da un lato come dall'altro.
Detto più chiaramente: niente forniture d'armi contro concessioni minerarie.
Oltretutto, tale meccanismo dovrebbe essere sottomesso al controllo delle due parti, e particolarmente a quello dello Stato che interviene per verificare se le somme stanziate sono state spese secondo le linee del piano preventivamente stabilito.
Non si tratta dunque di sovversione nel senso in cui "la sovversione si dà per scopo di sottrarre una popolazione all'autorità amministrativa e morale di un potere costituito e di integrarla in altri quadri politici e militari" (13). Non si tratta neanche di un rinforzo di un potere qualunque, ma piuttosto di un'azione mirante ad agire sulle condizioni di vita minime ed indispensabili, affinche gli uomini possano essere attori della propria storia.
Il problema è di promuovere una concezione democratica, liberale, dello Stato di diritto, dell'organizzazione politica, affinche l'alternativa dei paesi del Terzo Mondo non sia più tra dispotismi di destra o di sinistra. Bisogna dunque, come dice Susan George "elaborare delle strategie radicalmente differenti, domandandosi chi ha veramente fame, chi ha bisogno di essere salvato...bisognerebbe poi redigere l'inventario dei bisogni tecnologici, dei bisogni in materiali, etc., e solo dopo aver fatto questo inventario dei loro bisogni, non delle nostre eccedenze, dovremmo vedere chi sarebbe in grado di soddisfare questi bisogni. Non si deve procedere nel senso inverso, dicendo che noi abbiamo una locomotiva e per questa ragione loro ne hanno bisogno...Mi sembra normale che un paese che contribuisce allo sviluppo, voglia ottenere determinati risultati, come mi sembra normale che le industrie italiane pensino che una parte degli aiuti debba ritornare ad...alimentare le industrie italiane, ma piuttosto che dire c
he noi abbiamo le risposte e voi le domande, che noi abbiamo il vaccino e voi la malattia, perchè non dovremmo partire dai veri bisogni del terzo mondo?" (14).
Per quanto riguarda invece le modalità di conversione delle strutture militari, necessaria per far fronte a questa nuova minaccia, proposte interessanti sono state formulate tra l'altro da alcune agenzie delle Nazioni Unite che operano concretamente su questo fronte. Bradford Morse, amministratore del Pnud e direttore dell'ufficio per le operazioni d'emergenza in Africa, ha affermato nel corso di un convegno internazionale che si è svolto a Roma nel febbraio del 1986 che "In ogni struttura militare vi sono unità non combattenti specificamente equipaggiate ed addestrate in settori come la costruzione, il trasporto terrestre, navale ed aereo, le comunicazioni, la medicina, il supporto logistico ed altre discipline richieste dalle esigenze militari ma anche da quelle dei paesi poveri...Una volta autorizzati dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e in ogni caso su specifica richiesta di un paese in via di sviluppo, i governi potrebbero contribuire con queste unità non combattenti specializzate come 'United
Nations Development Corps'"(15).
E' dello stesso avviso Marco Pannella, per cui: "ogni volta che c'è la fame si potrebbe farlo. La tecnologia dolce, tradizionale, dei vecchi geni militari europei, del Genio militare, sarà splendidamente adatta alla costruzione del territorio e dell'ambiente" (16). In questa stessa direzione si muove una significativa iniziativa di obiettori di coscienza europei, che stimano che "l'esercizio del diritto all'obiezione di coscienza implica necessariamente il diritto di poter partecipare alla difesa dei principi e degli interessi legittimi della società a pieno titolo e in accordo con la propria coscienza" (17). Questi obiettori respingono quindi l'obiezione di coscienza concepita come privilegio o come deroga al diritto-dovere di partecipare alla difesa collettiva rivendicando invece un loro ruolo pieno nello sforzo collettivo per contrastare e rimuovere le minacce alla sicurezza.
Ma al termine di questo capitolo in cui abbiamo voluto dimostrare la realtà politica della minaccia costituita dal fenomeno della fame da una parte, e la praticabilità immediata delle soluzioni che consentirebbero di affrontarla subito dall'altra, conviene aggiungere che l'individuazione di questa minaccia e dei mezzi suscettibili di affrontarla efficacemente rimarrà vana se non ci si aggiunge una presa di coscienza dell'opinione pubblica in misura tale da determinare una volontà politica corrispondente. Ci pare quindi necessario sostituire nella coscienza della stragrande maggioranza dei cittadini europei le solide convinzioni sui rischi di invasione da parte del nemico, con il dubbio, il sospetto invece che la guerra è già scoppiata, che ha prodotto già milioni di vittime, che ne siamo tutti investiti.
E' questa una operazione certamente complessa, un processo politico con scadenza più lontana. Ciononostante questa strada ci pare la più idonea se non l'unica suscettibile di incidere profondamente sui meccanismi decisionali collettivi e quindi sugli atteggiamenti apparentemente immobili o immodificabili delle nostre classe dirigenti.
"Occorre quindi una nuova volontà politica e un nuovo specifico organizzarsi di questa volontà, che siano direttamente e manifestamente volti - con assoluta priorità - a superare le cause di questa tragedia e a scongiurarne subito gli effetti".
"Occorre che tutti e ciascuno diano valore di legge alla salvezza dei vivi, al non uccidere e al non sterminare, nemmeno per inerzia, nemmeno per omissione, nemmeno per indifferenza".
Ecco dunque che cosa ci vuole, come affermano 1OO Premi Nobel, come tentano di promuovere pochissimi partiti o organizzazioni politiche, come non fanno tutti coloro che non riescono a spostare le barricate liberali dal 1798 o quelle delle grandi conquiste socialiste della fine del XIX e dell'inizio del XX secolo.
NOTE
-------------
1. A Worldwatch Institute Report on Progress Toward a Sustainable Society, State of the World, W.W.Norton Company, London, 1986, p.195.
2. Congressional Joint Economic Committee by Bureau of labor Statistic, Office of Employment and Unemployment Analysis, United States Department of Labor, Washington, D.C., / giugno 1985.
3. Stockholm International Peace Research Institute, World Armaments and Disarmament, SIPRI Yearbook 1985, Taylor Francis, London, 1985, traduzione italiana a cura dell'Archivio disarmo, edizioni Dedalo, Bari, 1985.
4. Presidential Commission on World Hungher, 6 Dec. 1979, traduzione francese a cura di Food Disarmament International, Bruxelles, 1983.
5. Rapporto Brandt, NORD-SUD: Un programme de survie, Gallimard Editeur, Paris, 1980, p.23 -24.
6. Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee, 5 ottobre 1981, n.7867.
7. Mario'n MUSHKAT, Third World and Peace, St.Martin's Gower Press, New York, 1982, traduzione italiana a cura dell'Irdisp.
8. Emma B0NINO e Roberto CICCIOMESSERE, Fame e sicurezza", Disarmament, A periodic review by the United Nations.
9. William J. FOLTZ e Henry S. BIENEN, The militarization of Africa : trends and policy problems, New Haven, Yale University Press, 1985 .
10. Seymour Melman, Conversione economica, perchè? Columbia University, New York, cit., pag;6
11Seymour Melman, Conversione economica, cit-.,pag 7
12. M. Bedjaoui, Atti del Convegno di FDI, Roma, cit., pag.9
13. Raymond Aron, Paix et guerre entre les nations, cit., pag. 173
14. Susan George, Atti del Convegno di FDI, cit., pag.9
15. Remarks of Mr. Bradford Morse, Administrator, United Nations Development Programme and Director, Office for Emergency Operations in Africa, al II Convegno Internazionale di Food Disarmament International, Roma, 15 febbraio 1986.
16. Marco Pannella, Atti del convegno di Food and desarmement international, cit., pag. 9
17. Petizione n.81/85, su "Obiezione di coscienza e affermazione di coscienza", doc. PE 99.415.18