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Sciascia Leonardo - 9 maggio 1987
IL TESTO INTEGRALE DELL'ARTICOLO DI SCIASCIA SUL PARTITO RADICALE E MARCO PANNELLA
di Leonardo Sciascia

SOMMARIO: Delinea un ritratto di Marco Pannella, "il solo uomo politico" che abbia il senso del diritto, della legge: in Italia, invece, si è sensibili ai temi del diritto solo quando un mandato di cattura raggiunge chi ci è vicino, o appartiene al nostro partito. Per assolvere a questo compito, Pannella (che è "uomo di grande eleganza intellettuale") è a volte costretto a sortite "funambolesche e grossolane". Ma quando un cittadino, a Palermo, entra vivo in un ufficio di Polizia e ne esce morto, Pannella è l'unico politico a recarsi ai suoi funerali. Purtroppo, in Italia, vige la norma secondo la quale se uno è accusato, qualcosa di vero deve pur esserci: che un mandato di cattura possa colpirci da inniocenti ci è inconcepibile, finché non accade...

Possiamo immaginarci come venga vista in questa Italia una crisi di governo di tipo "costituzionale, istituzionale": la cosa sembra una "astrattezza". Il governo Craxi aveva cominciato a funzionare efficacemente, e dunque non si capisce perché la DC lo faccia cadere e mandi il paese alle elezioni. Forse, perché la DC e il PCI vogliono ricominciare a esercitare nil loro "ruolo speculare" senza il guastafeste PSI.

(NOTIZIE RADICALI, 9 maggio 1987)

Roma, 9 maggio '87 - N.R. - Abbiamo pubblicato ieri (vedi `N.R.' n. 102, 0798), alcuni brani di un articolo di Leonardo Sciascia sul Partito Radicale e Marco Pannella che appare oggi sul quotidiano spagnolo "El Pais".

Ne pubblichiamo oggi il testo integrale.

»Marco Pannella è il solo uomo politico italiano che costantemente dimostri di avere il senso del diritto, della legge, della giustizia. Ce ne saranno altri, ma senza volto e senza voce, immersi e sommersi in partiti la cui sensibilità ai problemi del diritto soltanto si manifesta quando qualche mandato di cattura raggiunge uomini del loro apparato: per il resto, se ne stanno in silenzio; e anzi certi arbìtri dell'amministrazione della giustizia, quando toccano altri, di altri partiti, li mettono in conto dell'alacre ed esatto agire dei giudici. Ciò fa parte della vecchia e fondamentale doppiezza della vita italiana: buono e giusto è quel che facciamo noi o di cui noi caviamo comunque vantaggio; cattivo, ingiusto e da punire è la stessa, identica azione fatta dagli altri. Doppiezza che si può far risalire al cattolicesimo controriformismo e che tirannie, fascismI e antifascismi (non soltanto il fascismo e l'antifascismo cronologicamente determinabili) hanno alimentato e perfezionato.

Pannella, e le non molte persone che pensano e sentono come lui (e tra le quali mi onoro di stare), si trovano dunque ad assolvere un compito ben gravoso e difficoltoso: ricordare agli immemori l'esistenza del diritto e rivendicare tale esistenza di fronte ai giochi di potere che appunto nel vuoto del diritto, o nel suo stravolgimento, la politica italiana conduce. Si fa quello che si può: e per richiamare l'attenzione degli italiani su un così grave e pressante problema, Pannella è spesso costretto (lui che, a ben conoscerlo, è uomo di grande eleganza intellettuale) a delle "sorties" che appaiono a volte funambolesche e grossolane. Ma come si fa a vincere quella che si può considerare una congenita insensibilità al diritto degli italiani, se non attraverso la provocazione, l'insulto, lo spettacolo? Si suol dire - immagine retorica tra le tante che ci affliggono - che l'Italia è la "culla del diritto", quando evidentemente ne è la bara. Se un cittadino entra vivo in un ufficio di polizia e ne esce morto per

le torture subite - come a Palermo è accaduto non molti mesi addietro - che tra gli uomini politici soltanto Pannella senta il dovere di partecipare ai funerali e di proclamare la grande, immane vergogna che ne viene allo Stato, è un fatto preoccupante. E non solo: per aver partecipato a quei funerali e per aver detto quello che ha detto, Pannella è stato rimproverato, accusato, considerato un eversore. Come non si capisce che l'entrare vivo (soltanto sospettato di un reato, non regolarmente imputato) in un ufficio di polizia e uscirne morto è un fatto incommensurabilmente più grave dell'esistenza stessa della mafia e che il delinquere da parte di coloro cui i cittadini e lo Stato affidano il compito di combattere il delinquere non è un incidente "tecnico" ma una catastrofe che destituisce lo Stato di dignità e credibilità?

Due luoghi comuni, due "idées réçues" del tipo di quelle Flaubert registra nel suo dizionario, stanno alla base della quasi generale indifferenza degli italiani al problema della giustizia. La prima è condensata dal proverbio "non c'è fumo senza arrosto", e cioè che se qualcuno è accusato di qualche reato, il reato deve pure esistere, anche se non ci sono nettissime prove. La seconda è espressa da questa constatazione: "certo che a me non capita", che vuol dire: "a nessuno che sia innocente come me, può capitare la sventura di essere arrestato". Che ci possa esser fumo senza che ci sia carne al fuoco, è una verità quotidiana e banale: ma viene decisamente respinta di fronte a un mandato di cattura. E che un mandato di cattura possa anche cadere su noi innocenti, su noi onesti, su noi buoni cittadini, è un fatto inconcepibile: finché non capita, finché non accade. Finché non accade proprio a noi o al nostro prossimo più prossimo: e forse nemmeno in quel caso si riesce a pensare all'iniquità della legge o del

giudice, ma ci si proclama vittime delle circostanze, del caso, del destino. Quando l'opinione pubblica appare divisa su un qualche clamoroso caso giudiziario - divisa in "innocentisti" e "colpevolisti" - in effetti la divisione non avviene sulla conoscenza degli elementi processuali a carico dell'imputato o a suo favore, ma per impressioni di simpatia o antipatia. Come uno scommettere su una partita di calcio o su una corsa di cavalli. Il caso Tortora è in questo senso esemplare: coloro che detestavano i programmi televisivi condotti da lui, desideravano fosse condannato; coloro che invece a quei programmi erano affezionati, lo volevano assolto.

Se questo avviene nei casi che interessano i singoli di fronte alla giustizia, è da immaginare quanto incomprensibili appaiano i problemi del diritto istituzionale, del diritto costituzionale. Una crisi di governo come quella che attraversa oggi l'Italia, diversa dalle altre appunto perché istituzionale, appunto perché costituzionale, nella visione degli italiani è assolutamente indecifrabile. Già è nel suo nascere che appare di una incredibile astrattezza rispetto alla realtà del Paese, alle strategie e tattiche della politica, agli interessi stessi dei cinque partiti che componevano la maggioranza di governo. Un'astrattezza che si complica e moltiplica nel suo lungo svolgimento, fino all'incarico di formare il governo ad Amintore Fanfani: che a quanto pare, anche se il Parlamento gli avesse votato la fiducia, aveva dal suo partito (la Democrazia Cristiana) il mandato di dimettersi e di anticipare le elezioni. Perché questa crisi? si domandano gli italiani. Il governo Craxi era, al momento, quanto di meglio

si potesse avere. Ammesso che la prosperità economica raggiunta dall'Italia in questi anni fosse dovuta a circostanze e fattori non dipendenti dalla volontà del governo, fatto sta che la prosperità c'è stata. Lo Stato ha cominciato a mostrare, se non l'efficienza, almeno la volontà di combattere gli ingenti fenomeni di criminalità associata (non dimentichiamo che è stato il socialista Formica, ministro delle Finanze, il primo uomo di governo che ha mosso la polizia tributaria all'accertamento dei patrimoni e degli affari camorristici e mafiosi). La politica estera dell'Italia ha ritrovato, per certe manifestazioni d'indipendenza, quel prestigio al quale tanti italiani tengono. Le proteste sindacali sono state meno virulente. L'Italia, insomma, è cominciata ad apparire governabile e governata. E proprio a questo punto i democristiani decidono che Craxi deve cedere il suo posto, che la presidenza del governo è ormai tempo che l'assuma uno di loro. Non solo: ma una volta che Craxi accetta la loro imposizione,

decidono che l'alleanza di governo dei cinque partiti, il cosiddetto "pentapartito", non regge più, che bisogna anticipare le elezioni (il cui risultato non sposterà di molto quello delle precedenti) e pensare a nuove combinazioni di governo, da cui i socialisti possano, se non essere esclusi, non avere più il ruolo di guastafeste del dialogo fra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, nel loro ormai vecchio rapporto speculare. Rapporto non del tutto spiegabile in termini politici, comprensibile però in termini di affinità - per così dire - mistica, nel retaggio d'intolleranza che ciascuno dei due partiti si porta storicamente dietro. E si capisce perciò, da parte di entrambi, l'avversione ai referendum in generale e a quello sulla responsabilità dei giudici in particolare.

La crisi, dunque, è meno astratta di quanto appare alla maggioranza degli italiani. E' più pericolosa.

 
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