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Manconi Luigi - 31 dicembre 1987
Il diritto di cittadinanza
di Luigi Manconi

SOMMARIO: Intervenendo nel dibattito a proposito della trasformazione del Pr in soggetto politico trasnazionale, Luigi Manconi propone che il Pr privilegi l'niziativa in difesa dei diritti degli emigranti e per la valorizzazione della caratteristica plurietnica dell'Europa.

(Notizie Radicali n· 302 del 31 dicembre 1987)

Devo, anticipatamente, chiedere due volte scusa: una prima volta perché, giocoforza e fatalmente, inizierò con qualche considerazione un po' noiosa, e poi perché da queste ricaverò un'ipotesi, come dire?, estremistica politicamente ed ardimentosa politologicamente. Nelle società complesse ad alto, altissimo, tasso di informatizzazione e di integrazione sistemica, il regime partitocratico non è una perversione morale bensì un effetto obbligato. In tali società, una politica non autoleggittimantesi e autolegittimata, una politica non statalista e non centralistico-autoritaria può affidarsi, a mio avviso, solo ed esclusivamente a dinamiche conflittuali concentrate sui diritti di cittadinanza. Può fondarsi cioè solo su qualcosa che è collocato al di fuori del sistema dei partiti. Solo lì la politica può trovare un fondamento etico, con riferimento a quell'etica pubblica di cui parlava Maffettone. Solo lì può trovare una legittimazione collettiva e un riscontro sociale. E infatti solo lì, nelle dinamiche conflit

tuali concentrate sui diritti di cittadinanza, in passato (e direi solo in passato) la sinistra e il movimento operaio hanno trovato legittimità e fondamento.

Se questa ipotesi »estremistica (dal punto di vista dell'analisi istituzionale) ha qualche validità, vanno prese in considerazione la forma e la sostanza attuali dei diritti di cittadinanza. Ovviamente, non sono semplicemente quelli che Marshall aveva elencato: politici, civili e sociali. Penso ai nuovi diritti, ai »diritti quotidiani , ai diritti all'informazione, e nell'informazione come prioritari rispetto a qualunque cittadinanza realmente goduta.

Perché questa premessa accademica? Perché il Pratito radicale costituisce, rispetto a questa ipotesi, un'eccezione; ha un'altra costituzione immaginaria, un altro elemento fondante. Non ha la sua fondazione e la sua legittimazione nei conflitti per i diritti di cittadinanza; tuttavia non può fare a meno di quei conflitti e non può fare a meno di quei movimenti. Cosa voglio dire con questa affermazione?

Il Partito radicale è, come gli altri partiti, un partito autoleggitimantesi, un partito centralistico; non nasce come movimento e neppure come partito che trova la sua ragione e la sua radice nei movimenti collettivi che vogliono accedere la godimento pieno dei diritti di cittadinanza. Il Partito radicale -tento una ricostruzione storica che, immagino, contesterete- nasce come lobby democratico-rivoluzionaria, una lobby che ha la sua legittimità nell'appartenenza a quel settore della classe politica liberale dotato di una forte cultura istituzionale e di una forte vocazione istituzionale. Di questa classe politica rappresenta la frazione estremistico-istituzionale ed è proprio da questa sua collocazione, da quella cultura e da quella vocazione, che il Pr deriva quello che, a mio avviso, è fatalmente e legittimamente il suo sbocco naturale ed obbligato: vale a dire, il suo destino di partito di governo. Questo è, a mio avviso, un elemento interessante, proprio perché su questa funzione di governo del Pr vi

sono state, come tutti sappiamo, polemiche molto vivaci all'interno e all'esterno; e quella definizione (»di governo ) veniva giocata in un'accezione essenzialmente moralistica, come dipendenza da altre forza politiche o come appannamento della fisionomia di partito di lotta. Io ritengo invece che questa funzione di governo che il Pr ha rivendicato sia la conseguenza obbligata di quell'identità originaria del Pr che io vedo, appunto, nel fatto di formarsi proprio dentro un segmento della classe politica liberale dotato di una forte cultura istituzionale e di una forte vocazione istituzionale. E proprio in questo trova espressione la critica alla partitocrazia che il Pr conduce: proprio questo lo porta ad enfatizzare la dimensione sovrapartitica del governo e della funzione di governo a cui aspira. E tuttavia questa lobby democratico-rivoluzionaria con vocazione governativa -e credo lo si possa definire un caso unico nella storia dei partiti politici occidentali- ha costituito la leadership di estesi moviment

i di massa. Da qui l'affermazione che prima facevo: il Pr è una lobby democratico-rivoluzionaria che non può fare a meno (ne ha bisogno come l'aria, ne ha bisogno come il pane) dei conflitti e dei movimenti. Dunque, questa lobby si è trovata ad essere leadership e ceto politico di importanti movimenti di massa. Questo richiede due precisazioni: 1) a differenza di altre leadership di movimento, il Pr viene prima, si costituisce in anticipo e precedentemente ai movimenti di massa di cui rappresenta la direzione politica; 2) il Pr dirige più movimenti di massa, è ceto politico di più movimenti, dotati di differenti insediamenti sociali, differenti culture e differenti appartenenze; movimenti focalizzati su »issues molto diverse, mobili e sostituibili. Queste sono le due qualità che fanno della relazione tra un ceto politico, quello del Pr, e i movimenti qualcosa di assolutamente imparagonabile rispetto alla relazione classica tra i movimenti collettivi e la loro espressione politico-istituzionale.

Ora, se noi accettiamo questa sommaria descrizione del modello di azione politica del Pr, e se lo confrontiamo con quella che può definirsi l'ambizione europea del Pr, possiamo verificare come quel modello trovi, per un verso, una sua possibile applicazione, e, per un altro verso, conosca contraddizioni e difficoltà.

Noi vediamo che anche nella dimensione transnazionale un organismo politico (quello che io definivo, appunto, una lobby democratico-rivoluzionaria) dotato di una vocazione e di una cultura politica con le sue strutture, i suoi rappresentanti nella sede istituzionale, agisce da tempo e produce cultura. E tuttavia, l'unico momento in cui questo gruppo politico ha avuto successo (e poi sappiamo che si è trattato di un successo estremamente fragile e deperibile) è stato quando la sua iniziativa ha incontrato e si è intersecata con qualcosa che rassomigliava ad un movimento di opinione, a un'azione di mobilitazione collettiva, all'agire di molti individui, intorno a una questione comune. Vale a dire, solo nel momento in cui la battaglia di questo gruppo si focalizzava sulla questione del sistema di rapporti nord-sud, sulla questione dello sterminio per fame: solo nel momento, dunque, in cui le aspirazioni, la vocazione e la cultura europeista di una lobby incontrava qualcosa che rassomigliava a un movimento colle

ttivo; solo allora si registrava qualche successo.

Il successo di cui stiamo parlando è, poi, un successo solo relativo ad una parte delle mete e dei fini che ci si era proposti; si è ottenuta, cioè, una mobilitazione delle coscienze, non certo il rallentamento dello sterminio per fame, seppure solo in quel momento si è manifestato, nel quadro politico e culturale del continente, qualcosa che assomigliasse ad un movimento collettivo europeista, o meglio ad una cultura collettiva transnazionale. E' interessante che tale mobilitazione non avesse come obiettivo diretto l'Europa, il rafforzamento dell'integrazione e neppure una battaglia elettorale.

E tuttavia, è solo in quella circostanza (e indipendentemente da una dimensione istituzionale) che si è palesata in questi ultimi anni, una cultura transnazionale nel nostro continente. Questo mi consente di entrare direttamente nel cuore dei temi sollevati da Strik Lievers, e di esprimermi su di essi in termini che direi strettamente politici. Sia chiaro: io non intendo enfatizzare in alcun modo una contrapposizione movimento-partito: quasi vi fosse una successione gerarchica di compiti che richiedesse prima l'organizzazione di movimenti transnazionali e poi la loro proiezione sul piano politico-istituzionale. Non è questo il punto. Io ritengo che il partito transnazionale, nei termini in cui è possibile e utile, possibile oggi, utile oggi, c'è già; ed è appunto quell'organismo, quella struttura costituita da alcuni parlamentari europei, da alcuni militanti europei, da alcune iniziative europee che producono una leva di agitatori e propagandisti, che agiscono sul piano continentale su alcune tematiche (ad e

sempio quella dell'obiezione di coscienza o della lotta contro lo sterminio per fame). E, quindi, dico che questa dimensione di partito transnazionale, in qualche misura (nei termini i cui è utile e possibile) c'è già. Il problema di fondo è che, invece, il movimento transnazionale, nei termini in cui è utile e possibile, non c'è, non c'è affatto. E non c'è affatto proprio nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno. Più che bisogno, addirittura urgenza. Poiché questo è il momento, questa la fase in cui l'intero panorama del continente europeo viene modificato. Direi che viene modificato, bisognerebbe dire sconvolto, il tessuto antropologico del continente. E questo rimanda immediatamente a un discorso sui dati che, probabilmente, ci porterebbe a conclusioni ancor più forti. I dati: in Francia la popolazione è costituita per oltre il 10% da immigrati. In Gran Bretagna le percentuali sono ancora più elevate. In Italia abbiamo, sin da ora, 800.000 immigrati di colore e si tratta di un dato approssimativo pe

rché, su tali cifre, non ci sono né riscontri ufficiali né valutazioni certe.

Sono stime approssimative e prudenti ma, come sappiamo, economisti e demografi concordano nel ritenere che l'Italia sarà, nel prossimo decennio, meta privilegiata di flussi migratori particolarmente intensi e particolarmente veloci. Ora, io credo che è questo il dato cruciale che va tenuto presente nel momento in cui si parla di transnazionalità e nel momento in cui ci si riferisce all'Europa. Un continente, dicevo, il cui tessuto antropologico costitutivo (vale a dire, l'identità delle collettività che lo abitano) risulta sconvolto. E così, le società plurietniche non sono più né un'utopia terzomondista, né un auspicio tardo-romantico. Sono una previsione demografica seriamente attendibile. A fronte di ciò, credo che vi siano due alternative possibili. E ritengo che la più pessimista di queste alternative sia anche la più probabile: un'Europa che non è stata in grado di trovare forme di integrazione continentale in passato, potrebbe trovarle ora, al fine di autotutelarsi nei confronti della pressione del su

d del mondo. Uno scenario possibile è, dunque, quello rappresentato da un'Europa degli Stati nazionali classici (gli Stati prodotti dalle guerre e dalle rivoluzioni del 700-800), per i quali l'integrazione europea costituisce la soluzione a un moto dell'inconscio collettivo: a un bisogno di autodifesa nei confronti del sud del mondo che forza i confini di questi stessi Stati nazionali. Il che avrebbe, sta già per avvenire, ha già effetti immediati in termini giuridici, attraverso provvedimenti restrittivi della possibilità di circolazione nel continente. Altri paesi già hanno adottato soluzioni in termini, appunto, restrittivi, e l'Italia, come è noto, ne ha discusso e ne sta tuttora discutendo. L'unica alternativa possibile a ciò è quella di un'Europa consapevole che gli Stati nazionali non esistono più: non a causa di un'integrazione politica che, come è noto, non ha progredito; non a causa dell'integrazione dei cicli produttivi e del mercato del lavoro qualificato, della circolazione dei giocatori di calc

io e della intelligenza tecnico scientifica; ma, prima di tutto, a causa della circolazione del lavoro nero, del lavoro basso, del lavoro sporco. Ed è proprio questo che mette in discussione il concetto stesso di nazione, come unità culturale coesa e coerente, come realtà etnica omogenea. Rispetto a questo, che è uno scenario estremamente ravvicinato (e che annuncia quello che prima definivo una sorta di sconvolgimento antropologico del continente), l'unica speranza e l'unica meta politica che ci si possa dare è, a mio avviso, quella di valorizzare quest'Europa plurietnica, come Europa del diritto e della tolleranza e della libera circolazione di uomini e idee. Un'Europa delle frontiere aperte.

Ed eccoci di nuovo, così, al discorso sui diritti di cittadinanza, riqualificati dalla riflessione su quanto, a proposito di quel concetto, è successo in questo secolo; e riqualificati da come quei diritti si presentano oggi ai non cittadini; ovvero, ai soggetti di quei flussi migratori che prima sommariamente descrivevo. Io credo che la tutela dei diritti dei non-cittadini di questa comunità in movimento, di queste soggettività in trasformazione, di queste identità collettive che sconvolgono il panorama conosciuto, richieda movimenti e richieda conflitti. E che ciò è quanto può dare sostanza e gambe a quell'idea di azione politica a livello transnazionale che auspicate. E' questa, quindi, la più forte »chance per dare al progetto di partito transnazionale un corpo e un volto concreti.

 
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