di Sebastiano MaffettoneSOMMARIO: Intervenendo nel dibattito a proposito della trasformazione del Pr in soggetto politico trasnazionale, Sebastiano Maffettone sostiene che dalla crisi di rappresentanza dei Parlamenti nazionali - gli interessi sono sempre più di natura internazionale e globale - nasce l'esigenza di una riforma politica di tipo trasnazionale. La necessità d'ispirarsi alla tradizione del liberalismo come impegno piuttosto che come neutralità.
(Notizie Radicali n· 302 del 31 dicembre 1987)
Bertrand Russell, personaggio che è (o potrebbe essere) vicino a molti di noi, ha raccontato nella sua splendida autobiografia un episodio della sua vita che vi sintetizzo così.
Preso dalla polizia nel corso di una manifestazione nonviolenta contro la guerra, fu gettato in un cellulare e trascinato via. Mentre il cellulare fendeva lentamente la folla, un suo assistente lo rincorreva gridando al poliziotto, dall'aspetto affatto insensibile: »Fermatevi, quest'uomo è un genio della matematica . Nessuna risposta. »Fermatevi, quest'uomo è un grande filosofo . Nessuna risposta. »Fermatevi, quest'uomo è il diciannovesimo lord Russell . A questo punto il poliziotto fermò il cellulare e lo fece scendere. Cosa simpatica perché raccontata dal protagonista.
Ve l'ho raccontata non solo perché simpatica, non solo come modesto consiglio alle letture natalizie, ma più sostanzialmente perché Bertrand Russel mi sembra un personaggio di quelli che hanno preso sul serio il liberalismo. Liberalismo democratico e sociale, come penso debba essere il liberalismo, e come penso che molto spesso il Partito radicale ha inteso il liberalismo, ispirando la sua azione -appunto- a questa forma di liberalismo democratico e sociale.
Da questo punto di vista mi sembra anche abbastanza evidente che non c'è una distanza incolmabile tra i problemi teorici, che noi affrontiamo all'interno di una teoria politica di questo tipo, e l'azione concreta che un gruppo, un partito, un movimento può andare a svolgere in una direzione che, se non identica, è affine.
Vorrei così comunque cominciare col delineare due grandi problemi, o meglio due orizzonti di problemi, che -secondo me- sono particolarmente attuali nella dottrina del liberalismo contemporaneo, e che -come ho detto-, per lo meno come sfondo tematico, coincidono almeno in parte con l'azione concreta del Partito radicale in Italia. E, se vogliamo, anche con l'esempio che la vita di Russel ci ha dato di un liberale democratico e progressista. La prima distinzione teorica è quella tra una concezione del liberalismo come neutralità e una concezione del liberalismo come impegno nell'ambito di quella che io chiamo l'etica pubblica.
Per varie circostanze, che non è il caso qui di indagare, in Italia, nella nostra tradizione, la prima versione del liberalismo ha sostanzialmente vinto sempre o quasi sempre; mentre -a mio avviso- è la seconda che è la più autentica interpretazione della storia del pensiero liberale, e soprattutto è la più interessante per fare e pensare politica.
Nella prima versione -quella del liberalismo come neutralità- il liberalismo teorico, basato sulla tolleranza, è una sorta di semaforo che regola il traffico di alternative idiosincratiche di valore.
La gente, cioè, esprime valori e gusti che sono prettamente idiosincratici propri e di nessun altro. Ossia, poco o nulla di reciprocamente condivisibile: il liberalismo serve perché, essendo tollerante, consente almeno di non bastonarsi l'un con l'altro per far valere le proprie idee e i propri valori.
La seconda versione, invece, cerca di organizzare attorno a una concezione dei diritti e delle utilità una versione decente di etica pubblica, intesa come lo sfondo normativo attorno a cui noi possiamo sistemare le nostre idee, i nostri sentimenti, i nostri valori e le nostre tesi politiche, in ultima analisi. Questa distinzione è per me fondamentale. Fondamentale anche nel senso che è opportuno prendere, sia teoricamente che praticamente, posizione per la seconda versione del liberalismo (naturalmente do questo giudizio senza argomentarvi sopra, ma come una mia scelta teorica e come una raccomandazione normativa per chi voglia prendere sul serio questa scelta).
Dicevo: questa distinzione è ampiamente collegata ad un'altra che pure riguarda in qualche modo la vita del Partito radicale, e anzi forse la riguarda ancora di più da vicino. E' la distinzione tra due tipi di liberalismo, il primo, che chiamerò liberalismo movimentista, per dargli un tono -così- meno professorale e più spontaneo di linguaggio comune; e il secondo, che chiamerò liberalismo istituzionale.
Per le stesse ragioni che sarebbe complicato indagare, in Italia il secondo tipo di liberalismo ha sempre, o quasi sempre, prevalso sul primo. Nella tradizione italiana la versione istituzionale, statalistica del liberalismo, quella di Hegel, e magari un po' di Kelsen, ha sempre prevalso sulla versione movimentista. La versione »dall'alto ha sempre prevalso sulla versione »dal basso del liberalismo.
Questo -a mio avviso- è fondamentalmente sbagliato. Perché se c'è un'unità tematica nel liberalismo è la concezione che la società civile vale più dello Stato; la concezione per cui quello che la gente pensa, crede, ritiene, fa, è meglio di quello che le viene imposto.
Il liberalismo, quale che sia la nostra interpretazione, è in fondo, sostanzialmente, in prima istanza e in ultima analisi, una dottrina del cittadino contro lo Stato, e per lo meno dei limiti dell'azione dello Stato nei confronti del cittadino. Quindi -a mio avviso- la nozione che ho chiamato (in maniera sicuramente sconfortante dal punto di vista prettamente teorico) »movimentista , è la vera interpretazione del liberalismo.
Noi dobbiamo essere contenti quando in un paese le istituzioni accettano quello che la gente vuole.
Ora, mi rendo conto che queste due distinzioni sono, se non totalmente utopiche, per lo meno estremamente astratte. D'altronde, se in una fase del dialogo all'interno di un partito (movimento, gruppo di persone) si chiede un intervento filosofico su questo tipo di problemi, vuol dire che a volte l'astrazione può essere spesa in termini di scelte ideali e reali che tuttavia dobbiamo fare.
Infatti il testo che ci è stato dato pone molti problemi. Ora, quel po' di contributo che uno studioso di teoria politica generale e di filosofia politica -quale io sono- può dare, riguarda, ovviamente, più l'aspetto che noi chiamiamo normativo, cioè ideologico, astratto, propositivo e di raccomandazione della teoria politica, che non certamente l'aspetto positivo, cioè quello in cui si studiano le istituzioni politiche così come sono, e si osservano le disfunzioni rispetto a un modello inerente al corretto funzionamento di quelle stesse istituzioni. Quindi -diciamo così, per natura delle cose- quello che vi dirò riguarda un orizzonte piuttosto astratto e normativo.
Il testo da cui muove questo dibattito contiene una grande divisione in due aree d'intervento e di interesse.
La prima concerne un problema attuale dominante nella politica italiana. Quello che chiamo della »riforma istituzionale , e che più ampiamente si può chiamare della »riformulazione delle regole del gioco . La seconda parte del documento invece, riguarda il partito transnazionale o internazionale che dir si voglia. (Non credo che qui la parola sia decisiva, anche se probabilmente per chi ci si dedica -come sempre è giusto- le parole hanno peso). La prima idea secondo me da proporre (che del resto ho visto è stata anticipata da Strik Lievers poc'anzi) è quella che i due problemi non siano affatto due cose diverse. Non solo sono due facce della stessa medaglia, ma sono proprio forse la stessa faccia della stessa medaglia. In che senso?
Nel senso che -come noto ai teorici, ma direi a chiunque legga i giornali, camminando per la strada senta e percepisca gli umori della politica italiana, che tra l'altro sono spesso così persuasivi- è abbastanza evidente che c'è un enorme crisi di rappresentanza. Non tanto per la storia (trita e ritrita) che il paese legale esprime più o meno male il paese reale, perché è evidente che in un paese complesso è estremamente difficile distinguere i due livelli. Ma, direi, per un fatto sostanziale (in questo credo che Strik Lievers abbia anticipato i termini dell'argomento). Il fatto sostanziale è che gli interessi rappresentati in Parlamento sono sempre più di natura localistica o locale; mentre gli interessi di una grande nazione industriale, quale l'Italia è -si voglia o non si voglia-, sono sempre più di natura internazionale o globale.
Allora il problema della riforma istituzionale è anzitutto un tentativo di porre rimedio a questa crisi di rappresentanza. Ma se la crisi di rappresentanza è -come io ho proposto di interpretarla- una crisi che riguarda il rapporto fra un complesso di delegati e di istituzioni, che, per il modo stesso per cui questi sono eletti, proposti e presentati, tende a difendere, a proteggere, a rappresentare interessi locali; e se per contro la necessità dell'output istituzionale, di quello che esce fuori dal travaglio delle istituzioni maggiori, dovesse essere qualcosa di internazionalmente più significativo, perché tutti i grandi problemi che noi abbiamo da affrontare in un paese come il nostro sono di natura internazionale (e su questo non credo ci siano dubbi), allora il problema della riforma delle regole del gioco coincide, o per lo meno si sovrappone, per una parte importante e non trascurabile, con quello del partito internazionale.
Non sono due problemi, ma un problema che ha vari aspetti, come ovvio. Volendo andare ai due aspetti, (cercherò poi di vedere perché sono connessi), direi che la prima cosa è cercare (se è vero -come credo- che il liberalismo democratico e sociale che io vedo come dottrina prevalente nel pensiero politico contemporaneo possa essere una sorta di sfondo teorico su cui orientare le nostre opzioni politiche e politologiche), cercando, dicevo, di orientare la riformulazione delle regole del gioco, o la riforma istituzionale, non in base a ragioni puramente tecniche.
Cioè sono abbastanza convinto, magari anche per deformazione professionale (ma non credo sia solo questo) che è, sì, importante concepire un meccanismo istituzionale che tramite una più funzionale ingegneria ci permetta di ottenere dei risultati leggermente migliori dal punto di vista effettuale di quelli che non otteniamo adesso, ma che sia piuttosto importante cercare di capire il nodo problematico che sta dietro al fatto che le istituzioni non funzionano.
E questo vuol dire, a mio avviso, riorientare (diciamo così) gli sforzi di cambiamento delle regole del gioco.
Naturalmente è piuttosto facile dire qualcosa del genere: io immagino sia piuttosto vero e persuasivo (l'ultima cosa la spero, la prima l'immagino), ma la difficoltà è dire in che senso e perché.
Bisogna dare cioè un'articolazione coerente alle proposte di etica pubblica, che determinerebbe se non i particolari del cambiamento istituzionale che si vuole richiedere, per lo meno i contorni generali ed astratti.
Qualcosa del genere non solo è difficile ma è complicato. Mi limiterò ad accennare brevissimamente quali, secondo me, sono alcuni di questi scopi.
Direi che uno scopo fondamentale è quello dell'eguaglianza. Eguaglianza non solo dei diritti e delle opportunità, ma anche (per così dire) dei diritti alle risorse. La dove l'eguaglianza delle risorse è differente dall'eguaglianza dei risultati. Perché è giusto tener conto che chi si impegna di più possa ottener di più, ma è molto meno giusto sostenere che possa ottenere di più chi parte da una situazione di privilegio familiare ed economico; chi, in maniera complessa, è aiutato maggiormente dalla fortuna, e da quella lotteria sociale da cui dipendono in fondo gli esiti di mercato. Questo mi sembra l'orizzonte da cui il liberalismo progressista democratico e sociale dovrebbe operare, ma questo orizzonte non è concepibile in un sol punto, bensì piuttosto come una sorta di frontiera. E la frontiera è quella dei diritti. Diritti intesi in senso morale, e nell'ambito appunto di un'etica pubblica.
Vorrei ricordare qui la recente uscita del volume degli atti di un convegno del novembre '86, che un gruppo di studio a cui appartengo, Politeia, ha tenuto a Milano appunto l'anno scorso. Il convegno era intitolato »Un'etica pubblica per la società aperta , e così il libro. E il tentativo generale teorico che vi si fa , pur attraverso diversi rivoli e diversi orizzonti disciplinari e tematici, è proprio quello di organizzare una struttura di nuovi diritti che costituisca l'impalcatura, per così dire, dell'etica pubblica; là dove parlare di nuovi diritti -intesi in senso morale, non giuridico- vuol dire preoccuparsi di stabilire quali siano i soggetti che abbiano diritti, e perché abbiano questi e non altri.
Diciamo che le aree in cui il discorso sui nuovi diritti viene più naturale sono quelle dell'ambiente, della bio-etica, della giustizia.
Ma siccome non si tratta di trovare nell'armamentario dei nostri strumenti morali dei nuovi diritti in quanto assolutamente nuovi, ma di riguardare all'insieme delle politiche pubbliche come ad un deposito capace di attribuire o negare diritti, in senso morale, quella da compiere è -diciamo- una sorta di rivisitazione dal punto di vista dell'etica pubblica di quello che lo Stato fa dal punto di vista delle politiche. Per quanto riguarda invece il secondo punto, quello del partito transnazionale (o internazionale), lo ho già detto che non mi sembra del tutto slegato dal primo. E questo per l'ovvia ragione che tutti i grandi temi pubblici che noi dibattiamo sono interconnessi al livello dei vari paesi.
I temi economici: non c'è dubbio, un moderno paese industriale con una finanza sviluppata e un'industria manifatturiera importante, come è l'Italia, non ha problemi locali soltanto, ma ovviamente problemi internazionali.
I temi politici: quello dei cambiamenti di orizzonti culturali, politici, e di orientamento fra est-ovest e nord-sud; oppure quello del problema della pace. Russel, Einstein, Schweitzer: uomini tra i più grandi del nostro secolo hanno dedicato parti significative della loro vita e dei loro interessi profondi alla pace.
E questo fa pensare: non solo (e non ce n'è bisogno) che la pace è importante, ma anche che i problemi di questo tipo, cioè politici, economici, in senso lato culturali, non sono locali, cioè nazionali, ma internazionali.
Ora, da questo punto di vista, persino la »destinazione Europa del partito transnazionale, da cui parte il Partito radicale, è un po' stretta. Stretta perché ovviamente è un problema non soltanto dell'Europa. Ma, anche se un po' stretta, da questo punto di vista ci sono due cose da dire. La prima, piuttosto ovvia, ripetuta in questi giorni, ma purtuttavia importante, è che le nuove intese fra Unione Sovietica e Stati Uniti portano inevitabilmente a riflettere sul destino di un'Europa da un lato negletta, giocoforza perché trascurabile, o almeno ritenuta tale, e dall'altro non più protetta; nel senso che la differenza strategica in termini di armi convenzionali, tra il gruppo che fa capo all'Unione Sovietica e quello dell'Europa occidentale è enorme a vantaggio del primo nei confronti del secondo. E quindi senza l'ombrello atomico americano l'Europa deve cominciare a preoccuparsi sul serio di organizzarsi una politica militare. Questo che si sia pacifisti o meno. Perché è ovvio che essere pacifisti non signi
fica rinunciare tout-court alla politica militare.
L'altro punto per cui il »destinatario Europa è difendibile è ovviamente più banale ancora; è che da qualche parte bisogna pur cominciare. E siccome esistono istituzioni europee, di cui l'Italia fa parte, è ragionevole pensare che quello sia il primo orizzonte in cui il partito transnazionale può avere effettività e significato.
Ma -anche qui secondo me- l'obiettivo fondamentale è un altro, e si ispira proprio a quel liberalismo democratico e sociale da cui partivo.
E' un obiettivo utopico e ambizioso che non può realizzarsi in un »fiat -un colpo unico- ma che richiede sicuramente una lunga mediazione. E' perciò opportuno che sia proprio questo tipo di convegni, di riflessione sulla politica, a porsi per primo il problema.
Il problema è quello -cosiddetto- dell'»anarchia internazionale . Il termine vuol dire che i rapporti tra Stati sono diversi da quelli di cittadini in uno Stato. I secondi sono regolati dalla legge. I primi no; gli Stati vivono come in una anarchia. Sono in uno stato che un teorico della politica chiamerebbe »pre hobbesiano . Ora è possibile cercare un fondamento della comunità internazionale che ci consenta di superare questa anarchia? Ho detto prima che uno scopo del genere è estremamente ambizioso, probabilmente irraggiungibile nel breve periodo, e terribilmente teorico. Però non sono convinto che sia solo teorico: sono convinto che sia anche e soprattutto teorico, ma che abbia anche un risvolto pratico.
Ebbene, esso sta nel convincersi -a cominciare da noi stessi- e nell'operare in secondo luogo in base a questa convinzione, che i rapporti tra Stati possono essere prima o poi sostituiti da rapporti tra cittadini: nel senso che non è detto che sia immutabile il fatto che debbano trattare tra loro, diplomaticamente, gli stati come grossi moloch organizzati, entità supernazionali, super individui astratti che non rappresentano interessi reali di nessuno, o li rappresentano solo molto parzialmente.
Se è vero, come è vero, che c'è crisi di rappresentanza in Italia (non solo in Italia, ma ovunque) è ancor più evidente che ciò che fanno gli Stati non è esattamente ciò che noi vorremmo che essi facessero. E questo ci fa pensare che per avere una società internazionale giusta, e comprensibile, più a misura d'uomo, lo sforzo maggiore che noi possiamo fare è quello d'intensificare i rapporti tra cittadini.
In questo senso veramente credo che la recente intesa tra Stati Uniti e Unione Sovietica sia importante. Perché permette ai cittadini dei due paesi, in prospettiva, di conoscersi meglio, e non c'è garanzia della pace migliore di questa.
In un suo libro famoso di parecchi anni fa, titolato »La matematica della guerra , Richardson dimostrò una funzione diretta tra il numero di armamenti e la possibilità di guerra (il che è abbastanza ovvio) ma anche una funzione inversa tra il numero di contatti tra i cittadini e la possibilità di guerra, il che -in sostanza- vuol dire che tanto più i cittadini stabiliscono quali sono i loro reali interessi, e tanto meno c'è possibilità di guerra.
E lo dico basandomi non solo sull'evidenza, piuttosto discutibile del resto, di un lavoro empirico sui rapporti tra guerra e contatti tra i cittadini; ma anche e soprattutto perché questo mi sembra il corollario più evidente a livello internazionale di quel famoso liberalismo movimentista a cui -dicevo- la tradizione italiana si è poco o male ispirata.
Con l'eccezione importante -se non altro a livello politico- del Partito radicale.