GIOVANNI NEGRIATTRAVERSO LE FRONTIERE, GLI STATI NAZIONALI, UN PARTITO PER L'EUROPA DEL DIRITTO E DELLA NONVIOLENZA
34· CONGRESSO DEL PARTITO RADICALE
BOLOGNA - 2/6 GENNAIO 1988
SOMMARIO - Giovanni Negri, ricordando che il partito ha dietro di sé 32 anni di lotta politica, propone un bilancio politico della vicenda radicale attraverso due chiavi di lettura: le conquiste di diritto positivo realizzate dal Pr e la forma-partito che si è dato, di volta in volta, per raggiungere i propri obiettivi.
Dopo aver rievocato le maggiori battaglie politiche radicali alla luce di questi criteri, Negri afferma che le conquiste di diritto del Pr rappresentano non solo un bilancio straordinario sul piano civile ma anche "un intero libro che narra opere di buon governo". Nonostante questa caratteristica di "partito di Governo", il Pr è stato sempre respinto, allontanato dall'accesso a responsabilità formali di governo. Ciò nonostante, oggi il Pr deve conquistare la capacità di governare i grandi problemi che si agitano nel mondo e che non possono trovare una soluzione attraverso le istituzioni nazionali. Da queste premesse la proposta politica al Congresso: la rifondazione del Pr in una dimensione trasnazionale. Tale dimensione non può precedere o seguire la campagna per gli Stati Uniti d'Europa, ma è con essa un tutt'uno. Indica infine gli altri quattro punti sui quali deve fondarsi l'impegno del partito trasnazionale: 1) l'azione nonviolenta contro i regimi totalitari; 2) la costituzione di una lega internazional
e antiproibizionista; 3) l'iniziativa per leggi di vita e di intervento straordinario nel sud del mondo; 4) la prosecuzione della battaglia per il diritto e la giustizia e per la creazione di uno spazio giuridico europeo che si ponga come presidio di difesa dei principi dello Stato di Diritto.
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Compagne e compagni,
è il 2 gennaio 1988. Non lo ricordo solo per augurare a voi e in particolare ai nuovi iscritti non italiani, a tutti i nostri ospiti, a coloro che seguono i nostri lavori un buon anno, ma perché le date contano. Il tempo è decisivo quando si tirano bilanci e si fanno scelte, come sempre il Partito Radicale ha fatto in tutti i suoi congressi, non di rado drammaticamente.
Abbiamo alle spalle, dentro di noi ben più di un decennio di lotta politica. Formalmente il partito ha 32 anni.
Fra soli dodici anni il mondo entra in un nuovo millennio, il secondo della storia della nuova umanità, per la cultura dominante e il suo modo di datare il tempo degli uomini.
Dodici anni. Sembra così epocale, avveniristica, appunto millenaristica la prospettiva del 2000, e invece eccola lì, nella sua terribile concretezza di dodici anni. Al punto da obbligare ciascuno non solo ad interrogarsi ma ad immaginare se stesso fisicamente, umanamente, tra dodici anni, e ad immaginare questo mondo del 2000.
Mi pare già di vedere ondate di panico millenarista, l'agitarsi di ombre ancestrali verso coscienze impaurite, o un altrettanto pericoloso, superficiale slancio ottimista e futurista.
Vecchi e moderni fanatismi, carichi di una violenza inedita, forse eserciteranno grande fascino; mentre tutte le classi dirigenti dovranno automagnificare la propria sorte, grandezza e potenza attraverso enormi opere pubbliche e stupefacenti conquiste tecnologiche.
Perdonate questo timore, ingenuo e forse infantile, di chi non vede tanto spazio per la ragione in un mondo in bilico tra la paura di se stesso e la sfrenata corsa verso il pericolo, un Titanic alimentato da milioni di morti per fame, che naviga con rotta incerta nella notte siderale. Perché tutto lascia ritenere che il mondo del duemila non sia "ancora", ma sia "ancora di più" il mondo della morte per fame, dell'olocausto della fame.
Non temete, non voglio partire dagli Adamo ed Eva del paradiso terrestre o del 2000. E' che mi pare utile, ogni tanto, riflettere sulle date.
Un pensiero utile per rispondere alla domanda che un congresso di radicali, tanto più un congresso di rifondazione, deve porsi: qual è la sostanza delle cose che speriamo; cosa intendiamo essere, manifestare, creare; cosa dunque dobbiamo chiedere a noi stessi, non dimenticandoci che le ragioni - a volte profondamente personali - che ci hanno indotto a costituirci in Partito Radicale sono molto esigenti, ci inchiodano all'ambizione di essere autentici riformatori del nostro tempo piuttosto che conservatori, rivoluzionisti o riformisti; e non dimenticandoci che se questa tensione venisse meno, per molti di noi se non per tutti cadrebbero le motivazioni, il senso della necessità di essere Partito Radicale.
E' per questo che non vi proporrò un ``bilancio politico'', in senso stretto e cronachistico, dei mesi che hanno legato lo scorso congresso a questo. Sarebbe inadeguato. Certo, il 1987 è stato l'anno della rimessa in discussione della stessa esistenza del partito: ciascuno può dare il suo giudizio ricordando che in dodici mesi ci ha portato a chiedere l'iscrizione per il 1986, per il 1987 e per il 1988 al partito: una straordinarietà che deve ora rientrare nell'ordinario schema annuale dell'iscrizione.
E' stato l'anno delle elezioni anticipate e insieme dei referendum - cosa del tutto imprevedibile e imprevista - e nonostante questo l'anno del tentativo di gettare le fondamenta di una nuova dimensione del Partito Radicale: cioè del partito transnazionale, della difficile sperimentazione di questi mesi in diversi paesi dell'Est e dell'Ovest europeo, che insieme al tesoriere e al consiglio federale nel luglio scorso decidemmo comunque di lanciare, nonostante le molte sollecitazioni e i molti consigli che andavano in direzione per lo meno diversa.
Un anno politico, il 1987, dettato e condizionato in larghissima parte dalla politica radicale e dalla sua capacità di essere centrale. Le elezioni sono giudicabili, e le ho sentite giudicare, come un pessimo risultato o come una stupefacente affermazione della politica radicale e della tenuta del partito, alla luce delle condizioni nelle quali si sono svolte e dei risultati di altri partiti (l'avanzata socialista, la nascita da noi ricercata del soggetto politico ed elettorale verde, la conferma di D.P., ecc.). I referendum sono giudicabili, e li ho sentiti giudicare, come un vano sforzo di Sisifo, ulteriore conferma di come si possa occultare la nostra identità e la forza di una grande politica; o invece come una vittoria di enorme portata, destinata a lasciare segni profondissimi nella società italiana, conferma di una grande maturità dei cittadini, clamorosa sconfessione dei grandi santoni dei mass-media scritti e audiovisivi, tutti tesi a dare voce alla loro presunta ``società civile'' che è in realtà u
n bel miscuglio di padroni del vapore: FIAT, magistrati e De Benedetti; De Banedetti, magistrati e FIAT. La ``società civile'' dei Giorgio Bocca è tutta lì: nella loro Torino e nella loro Ivrea, con contorno di palazzi giudiziari sparsi nella penisola. I risultati del fitto lavoro di relazioni, scambio di informazioni, campagna di iscrizione condotta in questi mesi al di fuori d'Italia, possono essere giudicati - e li ho sentiti giudicare - come la prova del nove dell'esistenza dei presupposti minimi per il lancio del partito nell'avventura transnazionale o, all'opposto, come la definitiva conferma della loro assenza, definendo in tal modo la scelta transnazionale come una forzatura impropria, un errore che esporrebbe il partito a gravissimo pericolo.
Bene, io non credo che un bilancio meramente cronachistico di questi mesi, scorporando o riunendo questi fatti pure importantissimi, sia sufficiente per tracciare analisi e compiere le giuste scelte di rifondazione del partito cui siamo chiamati. Né credo necessario aggiungervi l'incredibile, serratissima sequenza di altri eventi che se chiudo un attimo gli occhi mi passano davanti e compongono il film di questi tre anni, un film che dimostra come il partito sia vissuto senza un attimo di tregua (dalla legge sulla fame alla prima condanna del processo di Napoli, dal referendum sulla scala mobile all'invenzione delle liste verdi alle regionali, dal processo di appello all'arresto e all'assoluzione di Tortora fino al crollo del teorema Calogero con l'assoluzione di Emilio Vesce e degli altri compagni del 7 aprile, dalla battaglia per la vita di Radio Radicale, con i suoi microfoni aperti di ``radio parolaccia'' e la sua grande capacità di essere sempre servizio pubblico alla miriade di altre battaglie, nonviol
ente e parlamentari esse siano, che ci hanno visti impegnati, dall'aggregazione attorno al partito di autorevolissime personalità italiane e non - ancora in questi giorni con l'iscrizione di Fernando Savater, opinionista del più grande quotidiano spagnolo fino all'affare Cicciolina). E consentitemi qui un inciso su un argomento che credo sia venuto a noia per ciascuno di voi e dunque anche per, discusso e trattato fino alla nausea.
Sapete come il partito non rifiuto quella candidatura, perché ritenemmo ingiusto respingerla sulla base di un giudizio o pregiudizio morale, in quella fiera dell'ipocrisia, dei sepolcri imbiancanti e dei vasi di Pandora che sono i partiti della partitocrazia e le loro liste. Sapete come fu eletta grazie a uno scatenamento dei mass-media, grazie all'apporto determinante di chi è andato ben oltre il proprio legittimo interesse e mestiere giornalistico, imbastendo una campagna equiparabile a un valore pubblicitario di decine e decine di miliardi. Per essere comunque molto chiari, compagni, io non ho qui difficoltà a riconoscere, e ad assumermi di fronte a voi la responsabilità di un errore di sottovalutazione, di ingenuità, che ha portato al partito danno sul piano politico, elettorale e finanziario.
E' una responsabilità che mi assumo con una precisazione che non è una clausola di stile: se si intende speculare su questo episodio e sul partito non accetto che lo faccia una stampa che in 40 anni di storia patria (40 anni nei quali la moralità dei partiti e dei loro denari pubblici è stata tollerata sino al suo degradarsi a latrina) nonostante validissimi e onesti giornalisti non ha fatto scoppiare né ha portato alla luce uno solo dei tanti, veri scandali che hanno riempito la vita pubblica.
Per il resto mi pare che la deputata Staller non si stia comportando né più degnamente né più indegnamente di tanti suoi colleghi, eccezion fatta certamente per alcuni e in particolare per tutti i suoi colleghi radicali, come credo la stessa relazione del gruppo parlamentare alla Camera dimostrerà. Aggiungo soltanto, per informazione doverosa al Congresso, che in data 19 dicembre le ho inviato la seguente lettera:
Cara Ilona,
come ben sai il Partito Radicale terrà il suo Congresso a Bologna, dal 2 al 6 gennaio prossimi. Come altrettanto ben sai si tratta per noi di un momento delicatissimo, sia per le decisioni politiche che dobbiamo assumere che nel rapporto con l'opinione pubblica.
Non di rado, in occasione dei congressi radicali, stampa e mass-media hanno imbastito speculazioni tese a colpire e stravolgere la nostra immagine: è un po' il destino riservato a un partito che dà fastidio a molti e ha dimostrato di saper smuovere le montagne e cambiare le cose. Quest'anno, in particolare, parteciperanno al Congresso centinaia di iscritti non italiani e provenienti da diversi paesi del mondo. Il rischio che mi pare si corra è quello del totale silenzio, della censura sul Congresso, sui radicali italiani e non italiani, qualora tu decida di prestarti a un fin troppo evidente gioco dei mass-media, ad una speculazione che ha come suo bersaglio il partito (che, come noto, può solo difendersi con la nonviolenza).
Per queste ragioni penso di poterti chiedere di partecipare al Congresso nel modo più "discreto" possibile e soprattutto di non prestarti ad operazioni di sfruttamento pubblicitario del Congresso e di quello che esso rappresenta. Mi dicono che stai operando in tutt'altra direzione: per ora non intendo crederlo e ritengo che tu ti renda perfettamente conto di quanto qualsiasi uso e sfruttamento dell'occasione del Congresso rappresenti un oggettivo e gravissimo danno al partito.
Dicevo prima che non serve un bilancio cronachistico. Il bilancio che propongo è ben più ampio, pur nella sua sinteticità. Una necessaria ricostruzione della vicenda radicale attraverso due chiavi di lettura: le conquiste di diritto positivo realizzate dal partito, con le conseguenti, profonde modificazioni del panorama civile e politico italiano che esse hanno provocato, e gli strumenti, la forma-partito che di volta in volta ci siamo dati per raggiungere i nostri obiettivi. La storia di un "metodo", dunque (prima ancora dei suoi contenuti) e la storia dei mezzi usati per diffondere la "parola".
Le conquiste di diritto positivo, mai riconosciute da alcun osservatore se non molto tardivamente e parzialmente, rappresentano la realtà di una forza politica e di un leader che segnano e mutano straordinariamente la vita del paese in cui operano.
Possiamo far cominciare l'odissea nel 1970 con la legge sul divorzio. Nel 1972 viene introdotta la legge sull'obiezione di coscienza. 1974: referendum. 1975: aborto. Precedono e seguono, nello stesso periodo la libertà d'antenna per radio e TV (così spesso poco libere e soltanto private, ma oggi sono una notevole realtà), il diritto di famiglia, il voto ai diciottenni, la legge sulle droghe. 1976: prima presentazione alle elezioni, 1977/8 referendum: legge Reale, con una consistente minoranza popolare che sconfessa quella legge (oggi, vedo, messa sotto accusa da tutte le parti, come capostipite di una stagione nefasta) e finanziamento pubblico dei partiti, con un risultato minoritario ma sul filo del rasoio che politicamente impone le dimissioni di Leone e l'elezione di Pertini al Quirinale (e qui dobbiamo chiedere non per il passato, che può più o meno importare, ma per il futuro, agli amici Spadolini e Craxi, che ne sarebbe stato dell'alternanza laica alla guida del Governo senza quella presidenza della Re
pubblica). 1979: nuove elezioni. 1980/81 manifesto-appello dei Premi Nobel contro lo sterminio per fame, evento che unitamente alla segreteria Jean Fabre ricorda visivamente come l'ambito di lotta del P.R. sia sempre stato anche transnazionale. Da quel Manifesto sono derivate la risoluzione del Parlamento Europeo (definita storica da Mitterand), Parlamento che tuttavia non aveva e non ha poteri di produzione di effettivo diritto positivo, di vere leggi, nonché la nota proposta di legge Piccoli e poi le leggi approvate in materia dai Parlamenti italiano e belga (giustamente definite pessime ma che hanno significato letteralmente vita almeno, dico almeno, per alcune decine di migliaia di esseri umani). Poi gli ``scandali'' delle candidature Toni Negri e Tortora, la nuova legge sulla carcerazione preventiva, gli aumenti di bilancio della giustizia, l'esplodere di questi temi e della Centrale di Cernobyl, fino all'8 novembre che blocca il nucleare e staglia un muro di SI' sulla giustizia. In mezzo centinaia di p
roposte di legge, da leale forza di opposizione, neppure esaminate da un Parlamento dove è inutile parlare di riforma di regolamenti perché vere regole non vi sono più da tempo; e decine di proposte referendarie (alcuni lungimiranti e attualissime, bati pensare a quelle su Guardia di Finanza e caccia) stracciate - contro la legge, la democrazia, la costituzione - da questa Corte Costituzionale, il cui attuale Presidente leggo che propone un bicameralismo con una seconda Camera ``delle categorie e delle corporazioni'' (e poi vorrebbero farci credere che il vero dibattito sul fascismo è quello su De Felice, e sul residuo patrimonio post-fascista presente o meno nel partito del collega Fini). Ma una volta ricordate queste cose, compagni e compagne, è vero o no che sul piano della storia del partito, non su quello della cronaca, più si affinava, si metteva a punto, veniva artigianalmente perfezionata la nostra capacità di creare politica, più apparentemente si strappavano enormi conquiste di diritto positivo e p
iù l'identità e l'immagine del partito scomparivano, e più questo regime metteva a punto il suo anticorpo, con questa capacità di riassorbire tutto come un camaleonte che di fronte al nuovo muta colore per restare identico a se stesso, proteggersi ed eternarsi?
Questa non è solo la storia di Marco Pannella che deve digiunare nel 1974, durante il referendum sul divorzio, perché la LID è fatta fuori. E' vero o no che è anche la storia dell'8 novembre, di questi ultimi referendum sulla Giustizia, che vedono spezzata nella sostanza l'identità radicale? E' vero o no che più i Deputati guidati da Francesco e Mauro strappano sino a 180-200 voti di loro colleghi sugli emendamenti radicali alla legge sulla responsabilità civile del giudice (miracoloso, per un gruppo di 12) e più - come sconsolatamente va dicendo neppure troppo privatamente il buon Ministro Vassalli e come Pannella ha detto in aula - questa legge è stata ridotta a un pasticcio lamalfiano, a qualcosa che nel suo specifico giuridico, di diritto positivo, è drasticamente antitetico alla volontà popolare scritta nelle urne in risposta a quel quesito? Noi certo non demorderemo: la legge è ora al Senato, deve e può essere cambiata (lo diciamo innanzitutto a liberali e socialisti). Altrimenti chiederemo che non sia
controfirmata dal Capo dello Stato, che in taluni casi ha il dovere di interpretare la sua altissima responsabilità di supremo garante in termini anche conflittuali rispetto a una realpolitik che clamorosamente contraddice la volontà del popolo sovrano. Ma la morale della favola mi pare questa.
La lucidità dell'analisi che portò Pannella a stilare la Risoluzione di Firenze sull'assenza di certezza del diritto, di regole certe ed eguali per tutti i soggetti (sia quelli collettivi come i partiti, che per il singolo cittadino), di effettivo diritto all'informazione, all'identità, all'immagine (cioè i presupposti obbligati di una democrazia politica); la stessa analisi che ci condusse cioè all'ipotesi di chiusura del partito per non essere obbligati ad imboccare o la strada della normalizzazione del partito (cioè divenire come gli altri) o quella del puro ruolo di testimonianza (riducendoci a povera cosa, che rinuncia in partenza all'obiettivo di conquistare leggi, diritto positivo), mi pare integralmente valida. E' certo intervenuto nel frattempo quello stupendo fenomeno che va sotto il nome dei ``diecimila iscritti'', che deve essere ulteriormente valorizzato, ricercato e utilizzato e che a mio avviso ha fatto del P.R. il partito della vera società civile (con il suo bello e anche il suo brutto, cert
o) e che ci ha resi diversi e più ricchi nella nostra identità. Tutto questo è vero, ma i pericoli denunciati a Firenze, la realtà che ci circonda non possono essere ignorati. Sarebbe irresponsabile.
Il regime, il ceto politico, il mondo dell'informazione forniscono ogni giorno riprove della giustezza di un'analisi che facciamo senza alcun vittimismo, con grande freddezza. Proprio perché non presuntuosi sappiamo che alla negazione dell'identità radicale, del partito e del suo leader, non può che corrispondere la negazione dell'identità di quei soggetti collettivi (chiamateli ad esempio cobas o libere associazioni) o di quei cittadini che ``capiscono ma non si adeguano'', che non sono omogenei al sistema e alla ``logica delle cose'', e che non barattano il proprio essere accettati e accolti, magari come il figliuol prodigo, in cambio del loro snaturamento ed omologazione. Un altro esempio, consentitemelo. Ci si accusa di smanie ministerialiste e qualcuno, che della storia radicale ignora quasi tutto, può persino parlare di ``ansia di poltrone''. In realtà abbiamo posto, con la disponibilità ad assumere anche incarichi formali di governo, un'altra faccia del medesimo problema. Insomma: le conquiste di diri
tto positivo che ho elencato rappresentano non solo un bilancio straordinario sul piano civile ma, credo, un intero libro che narra opere di buon governo, pagina dopo pagina. Eppure non solo questo è un partito respinto, negato, allontanato dall'accesso a responsabilità formali di governo, ma nel nostro paese si continuano a promuovere a ministeri e sottosegretariati fior di controllori di mazzette di tessere e di denari non sempre limpidi.
Questo è il loro unico merito, perché molti altri meriti - sul piano delle leggi, delle idee, dei valori - non se ne conoscono e non sono iscritti negli annali della storia patria e della vita pubblica.
E' dunque vero che questo popolo radicale è un po' ``straniero in patria'', un grillo parlante che più è saggio e più è scacciato come fastidioso, come si diceva ``un popolo di luterani in terra di controriforme''. E badate: chiese, palazzi e salotti sarebbero felicissimi di aprirsi, alla piccola condizione che si sia un po' meno barbari, un po' meno luterani, e insomma ci si metta un ``po' più di buon senso''. Sarebbe persino facilissimo sceglierlo, magari senza rendersi conto che sarebbe la fine della vicenda radicale.
Un altro modo di leggere questa vicenda è quello invece degli strumenti e della forma di partito che ci siamo di volta in volta dati per diffondere la parola, la politica. Se volete è il metodo che Eraudel ha applicato alla storia del mondo e delle civiltà, innovando lo studio della storia, ragion per cui - ad esempio - la vicenda delle grandi capitali dell'ordine economico imperiale non viene più riassunto attraverso la descrizione di battaglie, re e corti, vittorie e sconfitte, né con le visioni economiciste e marxiste, bensì attraverso l'individuazione dello strumento-cardine che ne realizzò la potenza (così per Venezia la caravella, per Anversa la stamperia, per Genova la contabilità, per Londra la macchina a vapore, per New York l'automobile e il motore elettrico).
Così il Partito Radicale, con quello che appariva uno statuto ambiziosissimo rispetto alle sue dimensioni, ebbe dapprima un ciclostile e pochi militanti romani. Scelse poi un'agenzia quotidiana (che giungeva a Vittorini, Sciascia, Pasolini, di cui quest'ultimo a lungo parlò).
Poi, ancora, il quotidiano Liberazione in edicola, per formare i primi Comitati di raccolta firme per i referendum che si sviluppano in partiti regionali, forma-partito che tramonta con ``il partito del preambolo'', più marcatamente ``della nonviolenza'', ferro d'attacco per la lotta allo sterminio per fame. E cresce anche un ``partito della radio'', magnifica reinvenzione di uno strumento che ricompone l'apparente contraddizione di un partito che ha necessità di far coincidere il parlare con il parlarsi, l'informare con l'informarsi: urbi et orbi, giustappunto. E' forse un caso che si proponga ora la forma partito ``transnazionale'' e ci si arrovelli (dalla rivista alla radio al computer) sullo strumento adatto? Non credo proprio.
Parlavo infatti di bilancio, bilancio di un ventennio. E allora sarebbe ingiusto e deformante parlare del bilancio solo del partito ``italiano'', come se davvero fossimo stati finora un partito la cui ottica e la cui azione fosse stata ristretta strutturalmente, sin qui, all'ambito della politica interna italiana.
Non è così. Il ``nuovo'' Partito Radicale nasce nel 1963 sulla base di una proposta politica che mette al centro una dimensione tutt'altro che nazionale, con una proposta che è rivolta alla sinistra europea nel suo insieme, prospetta e richiede la nascita di una ``nuova sinistra'' europea.
Ciò accade sulla base di una analisi che contrappone la democrazia al militarismo-autoritarismo nel mondo, laddove la democrazia è vista come un'``isola assediata e minacciata''.
Una delle prime battaglie su cui il nuovo, minuscolo Partito Radicale si qualifica è quella per il Piano Thirring, battaglia combattuta contemporaneamente in Italia, Austria e Jugoslavia.
Il terreno privilegiato di organizzazione, confronto e iniziativa del Partito Radicale è quello del movimento pacifista internazionale cui invano i radicali proponevano di diventare forza antimilitarista per la democrazia, coinvolgendo in questo discorso tanto la questione europea quanto quella del terzo mondo e quella del socialismo reale (il socialismo militarizzato, contro il quale i radicali stampano i volantini dal titolo ``tutti gli eserciti sono neri'').
A questo corrispondeva la scelta consapevole dello Statuto non nazionale.
La verità, come sa ricordarci Lorenzo Strik-Lievers, è che lungo questa strada l'esiguità delle nostre forze, le condizioni della politica e della cultura in Italia e fuori d'Italia (sopravvenne il '68 con i suoi così diversi indirizzi) non ci consentirono di costruire vera, efficace azione politica; quell'azione politica efficace che invece riuscimmo a impiantare e a condurre a straordinari successi sul piano tutto interno italiano, delle battaglie per i diritti civili.
Il partito così, senza nulla rinnegare della propria ispirazione e del proprio patrimonio ideale, è però cresciuto, si è radicato, ha acquistato forza, credibilità, su quest'ultimo terreno; e nei fatti per una lunga stagione ha conosciuto, si è misurato solo su problemi italiani. E' lungo questo percorso che il PR ha in qualche modo ``reincontrato'' la propria originale dimensione non nazionale.
L'occasione delle elezioni europee che induce a riprendere in termini radicali l'impostazione di sempre, federalista, spinelliana. E più ancora, il confronto che - lungo la strada delle battaglie per i diritti civili - ci siamo trovati a condurre sulla questione dell'aborto, che ci ha portati a doverci misurare con tutta la drammaticità che ciò comporta con il tema ``ultimo'' radicale, fondante di ogni diritto, che è quello del diritto alla vita. Nel confronto su questo terreno abbiamo si può ben dire ``scoperto'' questo tema come quello fondamentale di una azione politica ispirata ai valori del diritto nell'età contemporanea. Lo sterminio per fame; il diritto della persona, di ogni persona, dovunque, a prescindere dalla nazionalità...
E l'incontro con i Nobel: per la prima, ancora aurorale, consapevolezza della necessità del ``nuovo partito'' non nazionale che avesse l'abito mentale, sentisse le priorità, avesse la volontà politica di misurarsi con i problemi veri, di fondo della nostra epoca.
I problemi epocali, di cui ciascuno avverte la priorità logica e morale su quelli di cui si occupano i partiti nazionali, ma che i partiti nazionali - per la logica stessa delle strutture in cui sono inseriti, le urgenze e le priorità altre che perciò non possono non avvertire e coltivare - sono strutturalmente, per loro stessa natura, incapaci di affrontare; e rispetto ai quali dunque la politica finché e affidata a loro - e alla semplice ``politica estera'' - si traduce in programmatica, costante elusione.
La consapevolezza che quello dello sterminio è problema risolvibile, e che perciò non si poteva accettare non fosse risolto; dunque l'impegno del P.R. di subordinare ogni altro obiettivo a questo. Ma servendosi degli strumenti, dell'esperienza, dei luoghi di forza di cui poteva disporre. Dunque il tentativo di ``usare'' gli stati nazionali, e intanto lo stato nazionale italiano, con l'obiettivo di fargli compiere un gesto concreto che fosse trascinante delle ``nuove volontà'' internazionali. Partire dalla vittoria in uno stato, per far compiere allo stato il gesto che provocasse il sorgere concreto del grande ``partito di governo del mondo'' secondo le intenzioni del manifesto dei Nobel.
Battaglia che ha accumulato una serie di vittorie e successi; ma che per quelli che si sono dimostrati i limiti di questa impostazione si è risolta in una sconfitta complessiva.
Molti di voi ricorderanno il congresso di Rimini, nel quale ci si interrogava, per serietà e rigore, sul carattere di sconfitta e di fallimento da attribuirsi alla lotta allo sterminio per fame. Si scelse nei fatti un ripiegamento sul nostro paese, gestito con grande caparbietà nel tentativo di sfondare in termini di decisione politica e leggi di vita. Tutti però sappiamo come la legge Piccoli è finita, in cosa è riuscita a prodursi. Risulta forse oggi più chiaro l'alto prezzo pagato all'assenza, fin da allora, della forma-partito transnazionale, che ci avrebbe se non altro consentito di operare in più direzioni.
E' importante allora capire dove dislocarci, come impiegare le energie, con quali priorità e strumenti, quale forma del partito scegliamo e in quale dimensione lo rifondiamo.
Ecco allora la proposta, stretta e difficile quanto ben meditata, che abbiamo messo a punto in queste settimane per dare senso alla rifondazione del partito riprendendo decisamente in mano quei due bandoli della matassa che parevano negli ultimi mesi dispersi: la necessità che la sfida radicale si porti anche al di fuori delle frontiere italiane. E la necessità di procedere in Italia alla riforma del sistema politico, cioè in primo luogo alla riforma dei partiti ben più e prima che a quella delle istituzioni, creando quei fatti politici e istituzionali che dopo quarant'anni di egemonia democristiana e poi partitocratica possono consegnare il paese una vera democrazia politica e una nuova fase della sua storia.
Una proposta che insieme al tesoriere qui formalmente presento, pregandovi di tener conto di tre precisazioni non scontate né superflue.
1) Costruire un movimento politico transnazionale vero, non è difficile e arduo come sembra. Probabilmente lo è molto di più.
2) E' una proposta fatta non per astrattezza e demagogia. A noi interessa che la politica radicale convinca e vinca. Non siamo dei fuggitivi, né dei velleitari, né dei furbi. Non ci interessa la testimonianza. Non ci interessa il tribunale della coscienza che potrà sempre assolverci, se disgiunto dal tribunale della storia che dovrebbe sempre condannarci.
Un giornalista mi ha chiesto se la proposta di partito tansnazionale non è in realtà una fuga. E' una domanda che circola anche fra noi.
Ho risposto che non scappiamo proprio da niente, se non - come sempre - dal rischio della mediocrità. Così come lo scorso anno, ponendo seriamente e drammaticamente la questione della cessazione delle attività del partito, dicendo alla gente che nessun partito - anche meno partitocratico - deve avere in quanto tale vita eterna, credo fummo capaci di dare una lezione di non mediocrità.
Un altro giornalista mi ha detto che il nuovo Partito Radicale, così come è dipinto, è un partito fatto per giovani atleti che parlano le lingue straniere. Ho risposto che - così fosse - preferirei un partito fatto solo per vecchi artritici che parlano solo calabrese, anche perché i cosiddetti giovani atleti l'artrite ce l'hanno spesso nel cervello.
Una volta un compagno di sempre mi raccontò come Pannella gli spiegò il giusto metodo per fare comizi, in un profondo paese del sud. ``Cerca nel pubblico la vecchina che sembra meno adatta a capirti e parla a lei. Se lei capisce capiranno tutti''.
Bene: noi dobbiamo cercare fra noi il radicale che sembra meno capire il transnazionale. Se non arriverà a capire questa politica e come praticarla, è bene metterla tutti da parte.
3) Ultima precisazione. Si tratta, appunto di una proposta. Non di una scatola chiusa da accettare e da respingere in blocco. Un proposta che è degli organi uscenti del Partito, non del C.F. e di nessun altro. Una proposta sulla quale non solo siamo apertissimi ad ogni discussione, ma anzi sollecitiamo indicazioni, consigli, se necessario correzioni anche profonde, in ogni suo aspetto.
Noi proponiamo che il Partito Radicale si rifondi, e dunque si collochi, in una dimensione transnazionale. Lo proponiamo per ragioni ideali, culturali e politiche. Non è un caso che essa già faccia parte della nostra storia e della nostra tradizione, né che i leader radicali ebbero in gioventù una militanza e profusero un impegno da federalisti europei. Né è certo casuale che la mozione del congresso di Firenze (durante il quale Altiero Spinelli ci lasciò un compito e un messaggio, quello stesso congresso nel quale ipotizzammo la cessazione delle attività del Partito) al primo punto individuasse come necessità storica la costruzione degli Stati Uniti d'Europa. La stessa coerenza con la quale, non appena superata la soglia dei diecimila iscritti e ben prima del voto per le elezioni e per i referendum, il congresso decise di imboccare questa strada e di avviare un difficile tentativo di insediamento al di fuori d'Italia della politica e del Partito Radicale. Coloro che con maggiore attenzione ci hanno in quest
i anni seguito, come ad esempio (e con molta lucidità) Luigi Manconi, non si stupiscono perciò che i radicali (da Manconi definiti una lobby democratico-rivoluzionaria con una funzione naturalmente e necessariamente di governo, ma anche i soli ad avere ``fino ad oggi palesato, con la lotta allo sterminio per fame, una cultura transnazionale nel nostro continente'') si pongano ora il problema della nascita del soggetto politico Europa, intesa come Europa plurietnica della tolleranza; Europa come centro di istituzioni, dunque di diritto positivo transnazionale; progetto di Europa della democrazia e del diritto della persona contro i progetti - che vanno sempre più delineandosi - di una piccola Europa fondata sul riarmismo e sui grandi affari, e contro i fallimenti della realpolitik che puntava sull'unione economica per giungere poi all'unità politica e deve oggi prendere atto che senza unità politica frana anche il disegno di integrazione economica. E' questo il punto.
O gli Stati Uniti d'Europa li fanno i democratici e i riformatori, prendendo la testa di questa battaglia, o un'altra Europa è già fatta. Perciò diciamo che gli Stati Uniti d'Europa non sono velleità o chimera, ma necessità vitale per la democrazia qui e oggi.
Ma occorre, per animare questa e altre battaglie, una forza politica capace di rinunciare alla sua dimensione specificamente nazionale: dunque un partito transnazionale. Il che per noi comporta una scelta drammatica che - come ho già avuto modo di dire - esclude le mezze misure.
Non si tratta certo di fare una chiesuola o una botteguccia elettorale buona per l'uno o il due per cento in questo o in quel paese (Italia compresa) alle elezioni europee o nazionali.
Riuscire nell'intento del partito transnazionale non significa altro che costruire il contraltare politico di quei grandi poteri (economici, energetici, militari, dell'informazione) che transnazionali già sono, e lo sono così prepotentemente da creare mercati e clienti sempre più transnazionali. Non mi si fraintenda. Non intendo dire che c'è il ``grande fratello'' o il Sim (Sistema imperialista delle multinazionali) delle risoluzioni strategiche di buona memoria. Intendo semplicemente constatare che un'Europa Economica già c'è e che i grandi mercati dell'economia e dell'energia, delle armi e della fame già ci sono. Noi stessi ne siamo clienti o vittime la nostra stessa vita non dipende ormai da scelte nazionali che molto marginalmente. Ma sempre più si dilata il mercato transnazionale sempre meno si vogliono poteri, elezioni, istituzioni e diritto transnazionali, in grado di ricondurre alla politica le grandi scelte.
Intendo semplicemente constatare che se l'alternativa contemporanea - come molti, autorevoli osservatori tutt'altro che radicali affermano - e fra nuova schiavitù e nuova democrazia, la democrazia del duemila e del ``villaggio globale'' non può certo fondarsi su partiti e istituzioni nazionali. E chi mai può cimentarsi in un impresa da pioniere di questo genere? Chi può costruire non il partito tradizionale ma il contraltare politico di prestigio e di azione, la ``società fabiana'' europea capace - con grandi campagne civili e di opinione - di imporre una svolta alle classi dirigenti? Lo faranno forse le elefantiache e inutili internazionali dei partiti, siano esse democristiane, socialiste, comuniste e liberali? Lo faranno forse una politica, una cultura verde già in crisi sul piano internazionale, con un pacifismo neutralità che è il prodotto dei missili, un antinuclearismo sconfitto che e il prodotto di centinaia di centrali, un approccio alla politica che è il prodotto del riciclaggio dei fallimenti movi
mentisti dal dopoguerra a oggi?
Credo di no. E credo (non per presunzione ma perché ci siamo condannati dalla nostra storia e dalla nostra coscienza) che questa nuova frontiera la possa solo aprire il partito che è già ``il sale dell'Europa''. E chi se non il partito di tutti i refuznik e delle grandi vittorie dei diritti civili, del Manifesto, del Nobel e di una pornostar, dei referendum e del nucleare seppellito solo dove questo partito ha potuto agire, dei ministri del terzo mondo e dei senza-patria obiettori di coscienza, può oggi costituirsi in partito transnazionale e convincere della necessità, ``qui e subito'', della fondazione degli Stati Uniti d'Europa?
Perciò la campagna per i valori e le speranze dei radicali nella sua dimensione transnazionale non può precedere o seguire quella per le istituzioni europee, ma è con essa un tutt'uno.
I nostri parlamentari europei hanno già avviato, proprio in questi giorni, l'iniziativa per la presentazione di mozioni parlamentari nei diversi paesi e per il lancio di petizioni popolari per l'unità politica europea, una figura di ``speaker'' dell'Europa che appare oggi necessaria e possibile.
Occorrerà inoltre valutare, paese per paese, modalità e possibilità di svolgimento dei referendum popolari consultivi sull'assegnazione dei poteri costituenti al prossimo Parlamento Europeo, che sarà eletto per la terza volta a suffragio popolare diretto nel 1989, e che corre il grave rischio della manifesta superfluità se non sarà dotato di effettivi poteri, come tutti i recenti sondaggi effettuati in queste settimane negli stati della comunità ci dicono invece - univocamente - che l'opinione pubblica europea chiede e esige.
Questo mi pare di già un terreno di iniziativa militante praticabile da ciascuno, e lo dico per tutti coloro che da quando si sono trovati di fronte all'idea - che io considero idea-forza - del partito transnazionale, hanno chiesto la messa a punto di un progetto, di un percorso concreto di lotta politica transnazionale, forse noi tutti sottovalutando quanto la stessa scelta di dislocazione del partito in questa dimensione sia già di per sé un progetto politico. E' più o meno quel che accadde, mi pare, con l'idea di cessazione delle attività: dai referendum alla campagna per i diecimila iscritti, la politica dei due anni passati altro, non è stato, in primo luogo, che la conseguenza di una scelta netta, che pure ci parve allora irresponsabile e ci obbligò invece a rischiare e anche a vincere.
Nessuno, oggi come allora, ha soluzioni in tasca e bacchette magiche. La sfida è anzi più difficile ed per questo che investiamo il congresso, gli iscritti, in particolare i tanti non italiani che sono giunti a Bologna del compito di questa ricerca. Ma ciò, può accadere solo a partire da una scelta di fondo che decidiamo di compiere, sulla nuova dimensione politica e operativa del partito. Solo in seguito si può passare ai successivi approfondimenti, e a me pare - in proposito - che oltre alla campagna simultanea per gli Stati Uniti d'Europa, vi siano almeno altri quattro punti sui quali il partito transnazionale dovrebbe impegnarsi, con iniziative molto concrete e non dispersive, poiché il rischio è ovviamente questo.
1) E' indispensabile concertare una gamma di iniziative nonviolente, non di ritualismo nonviolento destinato a rapido consumo, per colpire il totalitarismo e affermare ovunque i diritti della persona, il diritto alla libera manifestazione e circolazione delle idee, del pensiero delle persone. Prima del congresso, immaginando i possibili scenari e atti politici transnazionali, per esemplificare ho citato sia il Manifesto dei premi Nobel che il volo di Mathias Rust sulla piazza Rossa. Nulla di più che esempi, ma occorre ragionare nell'ordine di azioni dirette dure e rischiose, o di aperte e pubbliche sfide ai regimi che non tollerano che sul proprio suolo ci si riunisca e si pensi, si dialoghi, si operi e si informi l'opinione pubblica. Credo che la fantasia radicale ha già dimostrato in questo campo la sua altra professionalità, ma è un problema oltre che di fantasia anche di rigore: mai abbiamo condotto azioni fini a se stesse, mai abbiamo fatto movimento per il movimentismo, badando invece ai risultati soli
di. Lo stesso rigore per il quale possiamo oggi dire che sono davvero ``presenti'' fra di noi molti di quei refuznik che con la parola d'ordine ``quest'anno a Gerusalemme'' i radicali adottarono, costruendo attorno a loro una campagna internazionale. Furono individuati, ricordiamolo, nove casi emblematici. Ebbene, Dora Konstantinovskaya è emigrata dall'Urss a maggio. Poco dopo ottenne il visto Cherna goldort.
Grigory Lemberg è potuto partire a settembre. Ida Nudel, forse il nome più conosciuto, è in Israele dal 15 ottobre, ma lo stesso si può dire di Josef Begun, liberato a Dicembre.
Sono invece ancora trattenuti in Unione Sovietica, benché non più in stato di detenzione il violoncellista Alexei Magarik, l'ingegnere elettronico Marat Osnis, il cibernetico e l'architetta Grigory e Natalia Rosenstein, in attesa di emigrare dal 1973. Cinque dei ``nostri'' refuznik sono insomma fra noi, quattro attendono ancora la libertà. E intanto si sono iscritti al Partito Radicale l'accademico delle Scienze dell'Unione Sovietica Alexander Lerner, che potrà forse lasciare Mosca in questo mese di gennaio, e i coniugi Tufeld, (Isolda e Vladimir, l'una fisico e l'altro ingegnere) che non hanno ottenuto il visto e il cui figlio partecipò al nostro congresso di Febbraio. Come vedete molto è stato fatto, con una mobilitazione ed una pressione continuativa sulle autorità politiche e diplomatiche sovietiche ma credo che questo tipo di lotte debba essere non solo confermato ma potenziato.
2) Credo che il 1988 debba essere l'anno di una verifica in profondità ed eventualmente già della costituzione formale di una Lega internazionale antiproibizionista sulla droga, altra battaglia che tanto ciascuno può condurre nella propria città quanto appare del tutto priva di senso nella ristretta dimensione dei confini nazionali. Una lega, uno o più grandi appuntamento europei per operare nella triplice dimensione dell'attacco agli effetti devastanti della droga e della criminalità che attorno ad essa prospera, della riconversione dei profitti da essa derivanti, della tutela e del riordino di quelle strutture degli stati che oggi vivono sotto l'ipoteca e il condizionamento di questa multinazionale della morte, (che sempre più prospera a miete vittime ma sempre più anche corrompe) a cominciare dunque dalle modalità di organizzazione degli apparati anti-droga e di polizia, nella consapevolezza che la forza e i profitti della droga sono la vera causa non solo di disordine ma persino di colpi di stato e di ri
baltamenti politici in diverse nazioni.
3) Anche l'iniziativa per leggi di vita e di intervento straordinario nel sud del mondo va attentamente esaminata e progettata. Benché grazie alla musica e alla convegnistica ci si trovi dinnanzi ad un'opinione pubblica più consapevole e che noi abbiamo in larga parte reso tale, non sarà certo sufficiente l'evocazione o la meccanica reiterazione di parole d'ordine e modalità adottate in passato su questa battaglia. In particolare ragionerei sull'obbligatorio legame fra leggi di vita e accordi basati sull'interdipendenza euroafricana, che se è già in parte una realtà economica, deve incominciare ad avere anche una precisa raffigurazione in termini di assetto istituzionale. Possono sembrare discorsi astratti, e hanno invece una diretta connessione con la vita e la morte di interi popoli, classi dirigenti, e leader stessi di quei paesi.
Credo che sia il giusto modo per ricordarlo ed onorarne la memoria: mi chiedo se all'interno di un quadro di interdipendenza fra Burkina Faso ed Europa o paesi europei, Thomas Sankara sarebbe perìto e perìto della stessa sorte. Mi ricordo con quanta intransigenza e passione difendeva dinnanzi a Marco Pannella sia la frase con la quale aveva configurato il simbolo del nuovo stato rivoluzionario (La patrie ou la mort, nous vaincrons!) sia quello che definiva ``il necessario ricorso alla forza armata'' e l'impossibilità di procedere, nel contingente, all'avvio anche per un solo millimetro del processo di formazione della democrazia politica nel suo paese.
All'opposto, Pannella gli dimostrava tutta la debolezza teorica di una lotta fondata sul concetto di indipendenza nazionale e affidata alla forza delle armi. Mi chiedo oggi, e credo di poter chiedere agli amici del Burkina Faso, se non siano stati innanzitutto questi due errori politici ad essergli stati fatali. Lo chiedo con l'amicizia di chi, per essere amico di Platone, esige da sé stesso di essere ancora di più amico della verità.
Lo stesso parametro che credo debba essere utilizzato con il governo di Israele, anche se non con i nostri amici e ospiti del RAZ (del movimento per i diritti civili, molti dei quali iscritti al partito), sulla questione palestinese. Non c'è dubbio, infatti, che alcuni regimi arabi infliggono ogni giorno violenze e torture ai loro sudditi, in uno scandaloso silenzio internazionale. Non c'è dubbio che quegli stessi palestinesi avrebbero patito sotto altri regimi trattamenti ancor più disumani. Non c'è dubbio che i tanti cori nazionali levatisi in questi giorni contro Israele sono spesso i cori dei muti e dei complici delle violenze anti-ebraiche e di tante altre violazioni dei diritti umani. Ma non per questo si possono giustificare e dobbiamo anzi condannare scelte e comportamenti del governo di Israele, in questo specifico caso come nella conduzione del processo Vanunu, sperando che si presti, alla nostra voce di militanti impegnati per i diritti degli ebrei in tutto il mondo, giusta attenzione.
4) Dopo la prima esperienza del convegno di Strasburgo, sul caso della giustizia in Italia, mi pare sia necessario un luogo, una scadenza per disegnare da un lato un ``partito della Giustizia'' che deve divenire in senso ben più lato ``partito del Diritto'', e dall'altro uno spazio giuridico europeo che si ponga come presidio di difesa dei princìpi dello Stato di Diritto.
Princìpi minacciati oggi nello stesso ``vecchio continente'' ma che solo una nuova Europa può fare risplendere, illuminando quelle zone d'omba del mondo che altrimenti mai li conosceranno e mai li praticheranno.
Ecco, come vedete, si tratta di cinque filoni, cinque spunti di idee certo da perfezionare, da selezionare, che riversiamo al Congresso per avviare ancor più concretamente il dibattito delle commissioni e dell'aula. Ma il presupposto, la discriminante sulla quale occorre confrontarsi è la scelta che sta a monte. La dimensione transnazionale del partito e le sue dirette, naturali traduzioni in termini di forma statutaria, politica e organizzativa, che qui molto rapidamente riassumo poiché la proposta è stata da circa un mese resa pubblica e diffusa ad ogni iscritto attraverso Notizie Radicali.
Nel preambolo allo Statuto viene soppressa la dizione ``cristiano e umanistico'' attribuita all'imperativo del ``non uccidere'', poiché in altre culture ciò si presta ad equivoci ed a interpretazioni storicamente inesatte.
Il preambolo allo stato tale resta, in tutto il suo valore e drammatico significato; non è invece integrato all'interno dello Statuto stesso poiché ciò equivarrebbe a dare un carattere ideologico alla legge fondamentale del partito. Lo statuto rimane nel suo impianto valido ed adeguato: sono tuttavia soppresse le parti relative sia ai partiti regionali che alla disciplina elettorale, cioè le modalità di partecipazione alle elezioni e il rapporto partito-eletti, giacché tale materia è superflua per le scelte politiche contenute nella proposta.
Il nome resta quello di ``Partito Radicale'', che verrà tradotto nelle lingue-madri dei rispettivi paesi dove opereremo.
Quando alle lingue ufficiali del partito (per la stampa degli atti deliberativi e dell'organo del partito) si propone di adottare per ora l'inglese, il francese, e l'italiano, nonché l'automatica adozione come ufficiali anche di quelle lingue-madri parlate da almeno 500 iscritti a prescindere dalla loro residenza. So che esistono brontolii, sulle lingue ufficiali, sia dei compagni spagnoli che degli esperantisti: spero siano comprensivi e le questioni debbono essere approfondite nel corso del congresso. Oltre alla propria sede in Italia, il partito costituirà un centro di coordinamento delle iniziative anche a Bruxelles: mi è stata fatta osservare a questo proposito l'importanza di Parigi per quel che riguarda la presenza e il luogo di riunione di tutti gli esponenti dei principali movimenti del dissenso, e credo sia un'osservazione saggia sulla quale riflettere. Quanto alla sede del prossimo congresso, penso che noi compagni italiani dovremo sobbarcarci qualche sacrificio: non solo rinunciando in questi gio
rni a un po' del tempo di parola per consentire a vecchi e nuovi iscritti non italiani di intervenire ma prevedendo che il prossimo congresso si tenga al di fuori del nostro paese, in una città europea come Bruxelles e Strasburgo. Penso che quest'ultima abbia tutti i requisiti, anche logistici, per un nostro congresso, che andrà preparato con particolare impegno organizzativo.
La quota dell'iscrizione è in ogni paese fissata in relazione al prodotto interno lordo, secondo un elementare criterio di equità, fatta salva la norma relativa ai sudditi dei paesi sottoposti a regime totalitario.
Le finalità politiche del partito e dei suoi organi consistono essenzialmente in iniziative di portata transnazionale (con in primo luogo la creazione di istituzioni e diritto positivo transnazionale) e mai comunque in scopi a carattere esclusivamente nazionale. Come organi la proposta prevede un primo segretario, un tesoriere, una segreteria federale variabile da cinque a undici persone, un consiglio federale con un presidente. Tanto la segreteria che il consiglio federale dovranno adeguatamente rappresentare quelli che attualmente sono gli embrioni di realtà radicali non italiane.
Stabilite le caratteristiche non elettorali né territoriali (che sarebbero profondamente contraddittorie con il progetto politico transnazionale) delle associazioni radicali, anche delle associazioni radicali, abbiamo tuttavia avanzato una ipotesi che mi pare fortemente innovativa per la vita del partito e del suo modo d'essere, e che un po' superficialmente non è stata sin qui approfondita e discussa da nessuno.
Ovvero: per formare un'associazione radicale è previsto siano sufficienti 60 iscritti in Italia e 40 in ogni altro paese (una cifra che mi pare, giustamente, relativamente bassa).
Ogni associazione elegge automaticamente un suo rappresentante in seno al Consiglio Federale. Ci rendiamo conto, di dare vita, in tal modo, a un organo deliberativo forse molto ampio: ma credo vi sia un'insopprimibile esigenza, tanto più in una fase di vera e propria invenzione del nuovo partito, di aprire le porte del CF e di consentire effettiva e piena partecipazione alla vita del partito ai vecchi e nuovi compagni, italiani e possibilmente tanti non italiani, che intendono nutrire di impegno e lotta militante un'avventura che ne ha grande necessità e può essere pienamente concepita e precisata solo vivendola e facendola. E proprio perché convinto, qualora si imbocchi questa strada del transnazionale, che sia indispensabile una fase di sperimentazione in vivo delle concrete possibilità che offre e della sua fattibilità, tutte da inventare e scoprire, non esito a dire che non ci sarebbe nulla di grave nel darsi un anno di prova per verificare i riscontri che si possono ottenere.
Un anno per tentare di dare anche una ben più rilevante dimensione quantitativa al partito (parlo del numero di iscritti non italiani, che ha certo la sua importanza insieme alle dieci-quindicimila iscrizioni che dall'Italia ci sono indispensabili anche per dare ben maggiore solidità finanziaria e chances di fattibilità al progetto). Un anno per comprendere, in situazioni che spesso non conosciamo, quali tematiche incontrano maggiore interesse, attenzione, partecipazione. Questa nostra proposta, che riteniamo per ora solo un'efficace base di discussione per ciascuno, se fosse tradotta in mozione politica credo dovrebbe esplicitamente rivendicare e proclamare - per serietà, per rigore, contro ogni astrazione e velleitarismo - la sua provvisorietà in ogni aspetto, perché mai noi abbiamo proceduto con il metodo del salto nel buio e sempre con buone dosi di empirismo e pragmatismo, nella chiarezza del nostro itinerario e nella fedeltà alle nostre speranze.
Una proposta che dunque vuole fissare e dare un assetto a un partito che compie una scelta di fondo ma è consapevole di quanto sia difficilissimo riuscire ed è teso in uno sforzo e in un impegno molto gravosi, condizione per salvare tutte - dico bene tutte - le sue possibilità politiche. In questo senso poniamo anche in modo problematico la questione del simbolo. E' stato messo a punto quello raffigurante l'effige di Gandhi, emblema della nonviolenza. Sono sorte però molte obiezioni, legittime e giustificate, sulla difficoltà per dei libertari e per un partito libertario di comunque riconoscersi e riassumersi in una persona, per quanto questa rappresenti uno dei suoi principali punti di riferimento. In alternativa sono stati predisposti altri due simboli, l'uno raffigurante una R stilizzata (iniziale nelle diverse lingue della parola radicale, ma anche riforma) e l'altro la sola rosa del nostro attuale simbolo, che è noto in Europa come effige dei partiti socialisti e non può essere pertanto utilizzato. Ques
to nostro simbolo viene invece affidato ai prossimi organi del partito - che ne sono depositari e titolari - affinché sia tutelato rispetto all'uso improprio ed illegittimo che ne potrebbero fare terzi. Non siamo certo noi a sperare che questo simbolo sia destinato a scomparire o restare troppo a lungo in naftalina: l'auspicio è anzi che presto possa divenire il simbolo non più del PR ma ad esempio di un grande e nuovo movimento per la riforma democratica del sistema politico, luogo di unità forse anche elettorale di tutte le forze laiche o invece di coloro che intendono connotarsi come nuova e moderna sinistra europea.
Ma altra è invece la scelta del Partito Radicale; che in quanto tale vuole configurarsi come primo partito transnazionale, senza caratteristiche elettorali poiché non è certo raccogliendo minime o anche non minime percentuali elettorali in questo o quel paese, che sarà possibile raggiungere i nostri obiettivi - a cominciare da quello degli Stati Uniti d'Europa, che potrà essere conquistato solo condizionando pesantemente e in modo militante le classi dirigenti, i partiti nazionali, magari i candidati di tutti i partiti alle prossime elezioni europee, in ogni paese del nostro continente. Occorre per questo raccogliere altri illustri e non illustri europei, che devono sin d'ora sapere di potersi iscrivere a un partito che non ha mire di potere o concorrenzialità elettorale, primo partito transnazionale sì, ma una sorta di ``secondo partito'' per tutti, a cominciare da chi in Europa ha già in tasca la tessera di un altro partito e intende arricchirla con questa seconda ``doppia tessera della coscienza''.
Io mi rendo conto, compagni, che complessivamente quello che si propone al partito è uno ``strappo'' abbastanza brusco, una ``rifondazione d'urto'', ma la nostra storia, la nostra forza, è anche questa. Non pensate che si sia giunti a questa ipotesi senza travaglio e acriticamente, senza chiederci se siamo maturi per fare una scelta obiettivamente coraggiosa, e peraltro senza coltivare alcun mito o illusione mistica. Se infatti va respinta una visione del transnazionale come sudore e sangue, lacrime e tormento, neppure si può ritenere che questa scelta ci conduca verso una nostra Itaca, dove gettare l'ancora in porti sicuri. Nessuno pensa di partire e di trovare all'orizzonte una insistente terra promessa. Per ben scegliere, è indispensabile rispondere prima di tutto a una domanda. E cioè se a nostro avviso, a vostro avviso, esistono i presupposti minimi per tentare questa avventura, se il lavoro svolto in questi mesi li ha creati o invece non esistono per nulla.
Il partito, al di fuori d'Italia, ha oggi 79 iscritti in Belgio, 47 in Svizzera, 44 in Spagna, 55 in Portogallo, 41 in Turchia, 29 in Francia, 12 nella Germania Federale, 18 in Polonia, 8 in Jugoslavia, 5 in Grecia, 7 negli Stati Uniti d'America, 3 in Unione Sovietica, 6 in Israele, 4 in Gran Bretagna, 5 in Lussemburgo, nonché 1 iscritto in Austria, Argentina, Brasile Burkina Faso, Danimarca, Benin, Giappone, Giamaica, Kenya, Camerun, Olanda, Svezia, Venezuela, Tanzania, Malesia, Norvegia e da pochi giorni 1 anche a Malta: grazie compagno Brincat, già Ministro della Giustizia per la tua tessera radicale. Un totale di circa 400 nomi dei quali consiglio a ciascuno una attenta lettura in un momento di tempo libero. Dal ministro al disoccupato, dal dissidente al giornalista, ancora una volta si tratta di uno spaccato sociologico, di età, di razze, di ragioni attraverso le quali si è giunti al Partito Radicale, interessantissimo, originale, curioso. Si tratta di aggregazioni spesso del tutto disorganizzate (esist
ono piccole sedi solo a Bruxelles, Parigi, Madrid, Lisbona, Istambul, Atene) ma nonostante questo la mia valutazione è che vi siano i requisiti minimi per tentare l'avventura e giocare la carta del partito transnazionale, a condizione che si abbiano però alcune consapevolezze. Personalmente in questo periodo di impegno intorno al transnazionale me ne sono formate alcune, a partire evidentemente dalla convinzione che la prova di questi mesi non può non avere un carattere permanente, giacché non si può pensare di disporre in permanenza di alcuni validi e generosi compagni italiani (come in questi mesi Camerini, Ottoni, Caterina Caravaggi, Andreani e Donvito, e mi scuso se non li cito tutti) trasferiti in pianta stabile altrove. Ovunque sono andato ho però trovato un Partito Radicale molto più conosciuto e stimato di quanto non potessi pensare. Non so se esistano strani tam-tam, non so come e perché ma davvero ho riscontrato un tasso d'informazione, di curiosità, di fame di notizie intorno a questa vicenda radi
cale al di là dell'immaginabile. Consapevolezza, dunque, della potenzialità che c'è, ed anche dell'aspettativa. Consapevolezza inoltre di come il nostro modello di partito transnazionale non ha nulla a che spartire con i tradizionali modelli organizzativi di partito (sedi, sezioni, milioni di iscritti, insediamento territoriale, burocrazie e apparati), e dunque disponibilità a coordinare azioni e iniziative in modo molto flessibile. Infine l'esperienza diretta ha dimostrato che operare in questa dimensione comporta una netta scelta di priorità, cioè comporta di ``pensare transnazionale'' ed ``agire transnazionale'' come dice il compagno Dell'Alba, che voglio ringraziare per l'aiuto decisivo che mi ha dato, così come ringrazio i parlamentari europei per la stimolante collaborazione.
Se dunque si compie la scelta politica della centralità transnazionale, come mi auguro, occorre farlo con queste consapevolezze. E' però a questo punto del ragionamento sul partito transnazionale, sul partito che per essere all'altezza di questa sfida non può avere caratteristiche e fini specificatamente elettorali (a meno che gli Stati Uniti d'Europa o almeno un serio processo di unità politica europea non diventino presto una realtà, nel qual caso credo sarebbe doveroso riconsiderare questo indirizzo di fondo) che nel periodo precongressuale sono sorte delle obiezioni, anche in me oltre che fra noi, che da prima mi parevano di molto buon senso, di molto buon spirito conservatore - che non è affatto sempre negativo, giacché conservare i beni rappresentati da un patrimonio politico è una cosa seria, non una cosa brutta - ma che via via mi sono risultate poco comprensibili. Le riassumo con alcune frasi. Questa scelta vuol dire abbandonare l'Italia, salire sull'Aventino, mettersi in un vicolo cieco; la non par
tecipazione alle elezioni è una follia, verranno meno le risorse del finanziamento pubblico per far vivere il gioiello-servizio pubblico Radio Radicale, è una diserzione rispetto alle vecchie e nuove, grandi battaglie che siamo chiamati a condurre. Io su questo vorrei essere molto chiaro. Intanto dico subito che rispetto profondamente questi dubbi, queste ansie, a volte questo tormento che molti compagni nutrono non per loro stessi, ma per il partito. Anzi intellettualmente trovo più rispettabile questo ordine di dubbi piuttosto che un'eventuale, finora fortunatamente non verificatasi ``spavalderia'' un po' superficiale e decisionista per il transnazionale. Tuttavia queste obiezioni nel dibattito attuale mi sembrano ingiustificate e immotivate.
Forse tutto il dilemma sta non nel cosa si guarda, ma nel come si guarda alle cose, e non è solo un problema di ottimismo o pessimismo (c'è chi vede il bicchiere mezzo vuoto e chi mezzo pieno) ma di politica, tutto politico. Ma scusate tanto: il partito che ha compreso che la grande riforma del nostro tempo è, sul piano politico-istituzionale, quella degli Stati Uniti d'Europa e dell'operare a livello transnazionale, perché mai dovrebbe escludere anziché includere, animare, rilanciare la battaglia per la riforma democratica del sistema politico, che è la vera riforma indispensabile all'Italia? E perché mai, chi ha mai detto che se il partito in quanto tale si rifonda in dimensione transnazionale e in quanto tale non ha più caratteristiche specificamente italiane, ciò significa che non vi è più una politica radicale anche in Italia e per l'Italia?
E' proprio l'opposto. Senza partito specificamente italiano sarà indispensabile moltiplicare la politica radicale in Italia, ed ogni militante, ciascuno deve saperlo e avvertirne tutto il peso e la responsabilità. Dico ciascun radicale e non certo i soli gruppi parlamentari, gli eletti, poiché una delega secca ad essi significherebbe liberarsi di una residua e ordinaria gestione di qualcosa che - accogliendo la nostra proposta - non ci si vuole affatto lasciare alle spalle, bensì rilanciare, per costruire il nuovo anche in Italia. Aventino? Ma questa scelta comporta ed esige un preciso percorso politico!
Care compagne, cari compagni (prima voi, poi tutti gli altri);
cara partitocrazia in crisi e allo sbando come sistema, che adesso starnazza di riforma di sé stessa perché è alla frutta della sua politica (e deve lei, dobbiamo tutti stare attenti ai caffè e ai digestivi); cari vertici dei partiti che dieci anni fa avete svuotato il Parlamento per fare le scelte che contano solo nelle vostre e fra le vostre segreterie, ed oggi con smarrimento prendete atto che le scelte politiche che contano non si fanno più nelle vostre segreterie perché le si fanno altrove, dove ci si fa un baffo del primato della politica; cara Onorevole Jotti, che sai quanto è indispensabile rifare il trucco al sistema, sai che tre partiti fanno l'80% dei voti e riesci allora a sostenere che bisogna riformare sì, ma riformare i partiti del restante 20%; cari Bettino e Claudio, compagni così necessari affinché dopo 40 anni il socialismo italiano prenda in mano non solo i caduchi scettri del potere, ma anche e innanzitutto le bandiere della speranza e della riforma, non dunque quelle - per timore, magar
i, non per convinzione - della difesa degli averi e delle controriformette; cari compagni comunisti, che ci avete per la prima volta ricevuto nella vostra sede per oltre tre ore e ci siamo parlati politicamente e personalmente non come nemici, e che pure dite giustamente che il punto sta nella riforma dei partiti e della costruzione di una forza della sinistra europea; cari compagni Verdi, Demoproletari - per altro verso cari amici Liberali - che esprimente insieme a noi istanze civili e politiche di enorme rilievo che così spesso cadono in una tanto abissale quanto miope disattenzione del mondo della politica e dell'informazione; cari direttori di giornali, che quotidianamente e ormai quasi per rito tuonate contro i colpevoli palazzi romani non di rado senza distinguo alcuno e non di rado tacendo di altri palazzi ben più importanti, compresi magari i vostri; caro Montanelli, che - con tutto il rispetto dovutoti - ci pare che in campagna elettorale e in questi giorni abbia consentito spazio e pubblicità a ch
i, per calcolo e interesse immediato anche elettorale, ha inflitto un colpo assurdo (o fin troppo chiaro) al limpido e forte progetto della Lega per l'uninominale all'inglese, di già sostenuta da centinaia di parlamentari e autorevoli personalità; cari uomini di cultura, opinionisti e commentatori, che spesso avete seguito e incoraggiato analisi e proposte di riforma che Pannella e i radicali avanzano; e cari concittadini italiani, non certo pochi, che non intendete sottostare più a un regime che in ogni ramo della vita pubblica (dalla giustizia alla previdenza, dalla sanità all'informazione) non può far rispettare regole, perché esso stesso non ne ha e non le rispetta; ebbene, cari voi tutti, mi pare che qui si stia proponendo, alla luce dei fiumi di parole sulle grandi riforme che rischiano di divenire nella migliore delle ipotesi piccole controriforme, che quello radicale sia il primo partito della Repubblica ad annunciare che in quanto partito non concorrerà più alle elezioni.
E sapete bene che è tanto l'annuncio di uno dei partiti che siede in Parlamento, quanto l'annuncio del partito che non si è mai avvicinato alla greppia partitocratica per brucarne il fieno. Altrettanto sapete che non lo facciamo per moralismo, sostenendo che le elezioni fanno orrore o corrompono. E' chiaro che si fa politica anche utilizzando, in una forma o in un'altra, le scadenze elettorali. E' chiaro, legittimo, in certi casi doveroso, che i singoli radicali, come persone, si candidino e chiedano la forza necessaria per affermare anche nelle istituzioni i propri obiettivi e progetti. Ma di fronte a queste ragioni e sperano diciamo che come partito, per noi (ma come partiti, come "questi" partiti, anche per tutti gli altri) non ha più senso operare, non ha vera ragione politica, se non ci si sa riformare.
Noi ci mettiamo perciò in causa pienamente, con un passo realmente ``transpartitico'', per veri disegni di riforma democratica delle istituzioni, dei partiti, della politica e del modo di fare politica. E lo facciamo, in sostanza, con una dichiarazione di disarmo elettorale unilaterale del nostro partito.
C'è qualcuno che è interessato a ragionare con noi, a capire le cose da fare insieme, a non reagire come il solito Pinocchio alle prese con il solito grillo parlante?
Noi non crediamo di per sé alla riforma elettorale, se non come conseguenza naturale, obbligata, della necessaria riforma dei partiti, che è il solo problema serio sul tappeto: la riforma democratica della partitocrazia. Perciò abbiamo proposto l'uninominale secco, all'inglese. Inoltre riteniamo debbano essere difesi ed estesi gli istituti di democrazia diretta (in un'epoca nella quale si vuole sempre più scegliere personalmente, su questioni specifiche, a prescindere dai partiti) e drasticamente riformati gli enti locali e le grandi aree metropolitane in particolare, poiché non è più accettabile che il cittadino milanese sia obbligato a una sacrosanta sdegnata indifferenza verso il balletto in corso al Comune al quale partecipano tutti i colori, facendone vedere proprio di tutti i colori (dal verde al rosso, al bianco e al giallo) per riscoprire poi che non cambia mai niente e il sistema si riduce ad arlecchino.
Sono le nostre idee, pronti a ridiscuterle però con chi vuole, con chi ritiene di avere ricette più sagge. In più ci interessa condurre le battaglie federaliste ed europeiste e già sono pronte anche altre lotte a cominciare da lacune richieste di referendum già depositate.
Noi proponiamo dunque al partito di compiere questa scelta e innanzitutto di investire ogni interlocutore possibile di quello che è il suo autentico significato. Certo scommettere sé stessi, scommettere senza rete per creare il nuovo è sempre difficile. Ma è un preciso percorso, e torno a dire che è la nostra storia, è la nostra forza. Se facciamo la scelta del partito transnazionale, ciò significa l'abbandono della politica in Italia?
No. Se facciamo questa scelta, eccolo il vero partito della riforma, anche della riforma del sistema politico italiano; eccolo il partito della democrazia e del diritto.
Consentitemelo: eccolo il Partito Radicale che si rifonda e sceglie all'altezza della sua storia.
Ma chi mai chiede al militante radicale, nel momento in cui si iscrive al partito, proprio al partito transnazionale, di rinunciare a dar vita anche ad iniziative di partito o di associazioni, leghe, movimenti per la riforma democratica o su questioni tematiche?
Questa proposta non chiede allo spagnolo, al greco, al turco di essere solo ed esclusivamente iscritto e militante del Partito Radicale transnazionale, perché dovrebbe farlo con l'italiano? E perché un compago di Agrigento non potrebbe essere dove vive, tanto iscritto al partito e militante delle battaglie transnazionali che prima elencavo, quanto animatore della Lega per la riforma uninominale, soggetto politico che dunque investe partiti e gruppi di tale proposta nella sua città, e magari pure l'animatore - a livello dell'isola - della Lega per l'acqua in Sicilia che è una serissima e concreta necessità vitale per centinaia di migliaia di persone e vede già la disponibilità di Sciascia a co-promuoverla?
Non credo ci sarebbe nessun medico che glielo vieterebbe, né nessun primo segretario del partito transnazionale che potrebbe contestarglielo: presumo anzi che ne sarebbe ben lieto.
A chi sarebbe allora affidato lo sviluppo, il rilancio, la necessaria crescita della politica radicale specificamente italiana?
Ad ogni militante, ad ogni gruppo e associazione, a chi radicale si sente, a chi sa quanto è drammatica e difficile la sfida del partito transnazionale. Ma proprio per questo sa anche quanto sia necessario rimboccarsi le maniche perché la riforma della politica in Italia è parte integrante delle nostre speranze. Il congresso deve dunque affidare alle mani di qualcuno la pesantissima responsabilità della costruzione del partito transnazionale, mani che credo debbano essere esperte e robuste quanto necessarie; ponendosi poi l'esigenza di un preciso punto di riferimento, di un individuato centro di iniziativa specificamente italiana, nulla vieta che si immagini un organo ad hoc, o ad esempio una delega per questa responsabilità a un compagno della segreteria o ad un vicesegretario.
Così come l'intera proposta anche queste scelte - secondarie rispetto alla scelta di campo transnazionale - sono rimesse pienamente alla valutazione del congresso, ribadendo che non vi sono soluzioni chiuse e neppure ricette miracolistiche.
Ho concluso, compagne e compagni. Non avrei mai creduto di trovarmi a proporre al partito di mutare il suo simbolo, con tutto quello che questo significa. Se guardo al simbolo che ci ha accompagnato in questi anni, e che insieme a Peppino proponiamo venga ora custodito dal partito, mi torna in mente più che per nostalgia per speranza e attenzione al futuro, una frase di Pasolini che un compagno mi ricordava in una riunione del Consiglio Federale: ``so soltanto che in questa rosa resto a respirare''.
Se guardo ai nuovi, possibili simboli, tanto istintivamente mi inquietano, quanto comprendo che sono necessari.
Mancano solo 12 anni al 2000. Chi va di fretta normalmente sbaglia. Ma è giusto invece che il nostro partito senta e risponda a ciò che ora preme con tutte le sue urgenze, a ciò che è necessario.