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Di Lascia Maria Teresa - 29 aprile 1988
La nonviolenza è tolleranza?
Maria Teresa Di Lascia

SOMMARIO: La nonviolenza è il segno distintivo della democrazia compiuta. Ma nessuna nonviolenza è possibile senza un collettivo sentimento religioso. I due momenti più alti di nonviolenza nel Partito radicale, i digiuni sul divorzio e contro lo sterminio per fame, avevano proprio come punto di unione questo sentimento religioso, inteso come capacità di commuovere, di muovere insieme le persone. Per riprendere la strada della nonviolenza, sufficientemente abbandonata dal Pr, i radicali non si devono vergognare della propria cultura e dei propri sentimenti, perché la nonviolenza attraversa tutte le religioni e tutte le culture possibili.

(Atti del convegno "I radicali e la nonviolenza: un metodo, una speranza, Roma 29-30 aprile 1988)

Io sono molto interessata a questa riunione, a questo convegno, e quindi, naturalmente, porgo tutti i ringraziamenti del caso a chi ha inteso organizzarlo.

Laura mi ha invitata a parteciparvi prendendo la parola per via di un articolo che io scrissi prima del Congresso scorso del partito, in cui parlavo delle due anime del Partito radicale e della necessità di arrivare ad una situazione in cui ci fosse un Partito radicale nonviolento - che avesse nei suoi obiettivi quelli che sono presenti nel Preambolo allo Statuto oltre che la Carta del Partito radicale nella sua complessità - e invece una Associazione "Rosa nel pugno" che si occupasse dei diritti civili.

Rifarei questa proposta adesso, nella situazione in cui siamo, e dopo mesi di verifica circa la consistenza di un Partito radicale nella sua complessità? Non la rifarei. Non farei più quella proposta, non solo per una ragione di risorse, di energie del Partito radicale in quanto tale, non la rifarei anche perché la sento nella sua meccanicità, e non la farei più perché invece mi rendo conto che - tutto sommato - quella che scontiamo è una crisi di identità del Partito radicale che ritengo non riguardi più soltanto alcuni, ma che complessivamente riguardi l'intero partito.

La dimensione di nonviolenti rispetto ad un ghetto possibile o ipotizzabile è in realtà, secondo me, una dimensione di ghetto molto più estesa, e che riguarda sufficientemente il Partito e la sua storia.

Quando mi sono avvicinata al Partito radicale con il divorzio, nel 74, le prime volte che ne sentivo parlare e sentivo "Partito radicale" avevo una certa resistenza anche ad interessarmene, perché il nome stesso mi sembrava evocatore di violenza: e io provo un grosso fastidio personale nei confronti di tutte quelle dinamiche di trasgressione, di forzatura, di violazione della legge, di tutte queste cose che poi nel corso di questo convegno sono state indicate a definizione di ciò che può dar luogo a comportamenti politici e personali di tipo nonviolento, mentre è vero che non si arriva alle radici di una situazione con tutti i termini della nonviolenza, se non avendo praticato fino in fondo tutte le varie fasi del percorso nonviolento.

Quante delle persone che sono qua dentro hanno mai fatto un percorso nonviolento fino ad averne la conoscenza fino in fondo, io non lo so... credo che in realtà nessuno di noi lo abbia fatto in questa dimensione.

Sono state dette molte cose intorno a che cos'è la nonviolenza: io ne vorrei aggiungere due.

La prima è che credo che - fra democrazia e democrazia - la nonviolenza fa la differenza. Questo è un dato di fatto di una elementarità lapalissiana, perché nessuno può negare che l'America sia un insieme di Stati democratici, che abbia complessivamente una situazione democratica: sta di fatto che alcuni Stati americani hanno la pena di morte... quindi in una democrazia, la nonviolenza fa la differenza: delle leggi, dei comportamenti politici, umani, civili e via dicendo.

L'altra cosa che vorrei dire... e su questo, poi, credo che il sentimento personale e politico possa essere molto diverso da persona a persona: però, per quello che mi è stato dato di vedere, molte volte più da testimone che da elemento attivo - perché in termini miei, di coscienza personale, io non ho mai percorso tutti gli stadi della nonviolenza né personali né politici - per quello che ho avuto modo di vedere mi sento di dire che, al di là delle cose che si dicono su Gandhi a proposito del fatto che avesse o non avesse un impero di fronte (e lo aveva...), che avesse o non avesse una serie di situazioni che fanno di lui una eccezione storica, quello che io credo profondamente è che nessuna nonviolenza è possibile fuori da un collettivo sentimento religioso, intendendo, con "sentimento religioso", il concetto "religo", cioè lego insieme le cose.

E credo che questo sia un elemento fondamentale, quello della "commozione", cioè del "muovere insieme" le persone: quello dei sentimenti che riguardano le viscere, l'intelligenza, il sapere di ognuno.

E allora credo che quello che ha permesso a Gandhi alcune cose è stato il sentimento religioso di cui Gandhi era portatore all'interno di una situazione che non era solo legata al tipo di religiosità di quel popolo, ma proprio legata ad un'esigenza che era collettiva, e che era appunto religiosa nel senso che dice Marguerite Yourcenar, del "legare insieme le cose".

Noi abbiamo avuto i momenti più alti di nonviolenza proprio in due cose che sono all'apparenza indicate come diversificate, perché l'una appartiene al diritto civile del laico (il digiuno di Pannella sul divorzio) e l'altra invece appartiene ad un tipo di digiuno, di sciopero della fame, di situazione che invece molte volte viene letta in termini di misticismo politico e di caduta: o almeno in quel periodo era letta così, tranne che poi - molti anni dopo - è stata rivista e riguardata perché è stato effettivamente il momento più alto dell'approfondimento politico di che cosa può essere uno strumento come quello della nonviolenza. E quindi parlo della lotta allo sterminio per fame. Abbiamo dunque avuto due momenti di cui, quando ne parliamo, diciamo: sì, il digiuno sul divorzio parlava ad una Società civile, invece gli scioperi della fame relativi alla battaglia sullo sterminio per fame parlavano ad altro. Io credo che in entrambe le circostanze il punto di unione sia stato questo sentimento religioso, ovvero

questo fatto che il digiuno parlasse a molte coscienze, che fosse il punto radicale più scoperto di esigenze collettive che venivano ad essere espresse attraverso questa immagine, attraverso questa identificazione, attraverso questa esemplificazione.

Uno dei problemi che abbiamo noi è che ci ostiniamo a parlare - e in questo siamo "ghetto" - del metodo nonviolento, che probabilmente ci fa molto liberali e ci fa molto democratici e ci fa molto razionali, rispetto alla nonviolenza, e ci fa fare molto poche battaglie: ci fa rischiare molto poco. Ci fa, in realtà, sfuggire a quello che in realtà storicamente è stato il rischio di Gandhi, corso fino in fondo, di Martin Luther King o di chiunque abbia percorso questa strada, che è il sapere che il nonviolento, in quanto portatore di una cultura diversa, rischia la vita.

E secondo me su questo si può venire ad una mediazione, e noi ci siamo venuti: noi radicali ci siamo venuti, ad una mediazione con questo tipo di situazioni, perché viviamo in una Società edonista, in una Società di sberleffi di alcuni comportamenti; noi stessi, per essere motivati alla promozione di un sentimento comune così forte, dovremmo essere "commossi" fino in fondo, e non avere neppure un attimo di arrière pensée, non dovremmo avere nessun tipo di calcolo (non politico, evidentemente, perché la nonviolenza ha un calcolo di ragionevolezza e di ragione, ma non di "dea ragione", per esempio, secondo me).

Intanto la nonviolenza non è cosa dei soli radicali: e questa è una cosa rispetto alla quale noi tendiamo ad avere un diverso atteggiamento; in un convegno di questo genere io vorrei sentire uno di un altro partito, o di un'altra situazione, o di un'altra cultura, che mi viene a dire che cosa è, per lui, la nonviolenza. Sicuramente non è appalto dei soli radicali, anche perché, per esempio: il nonviolento è tollerante o intollerante? Secondo me la tolleranza appartiene ad un tipo di cultura liberale, democratica: ed è, nella dizione esatta di Pasolini "guardare altrove", quando - rispetto ad una situazione di provocazione - non spacchi la faccia al tuo avversario ma guardi da un'altra parte. Non lo ritengo, per esempio, un valore appartenente in senso stretto alla nonviolenza, lo ritengo appartenente alla democrazia: perché in realtà il nonviolento può essere anche estremamente intollerante, nel senso che non tollera il peso, la prepotenza, la sopraffazione, di cui è fatto oggetto negli altri.

L'intolleranza non è sempre violenza: propio nel senso etimologico, "tollo", mi tolgo, tolgo gli occhi, mi levo ... (interruzione di Angiolo Bandinelli)... Che cosa dicevi, Bandinelli? ... Beh, tollo vuol dire proprio questo, questa è la definizione che dà Pasolini in "Scritti corsari", e credo che fosse un fine conoscitore. E comunque è una delle cose che mi hanno colpita di più, perché coniugare con il concetto di violenza alcuni comportamenti o atteggiamenti radicali di aggressività di parola, o di aggressività di comportamento... per esempio, quel che diceva Giovanni a proposito di Enzo Tortora: io sono abbastanza d'accordo che Enzo Tortora stia dando corpo - in termini proprio di quel sentimento religioso di cui dicevo prima - ad una serie di situazioni in cui le cose che lui fa non sono solo per sé, ma sono per tutti gli Enzo Tortora che non si chiamano così, che non hanno quella faccia, che non sono conosciuti e via dicendo, e che in questo senso sia un dato enorme di nonviolenza. Però, per chi ha vis

to la trasmissione, per esempio, di Ferrara, non lo so a quanti Tortora è apparso "tollerante"... probabilmente è apparso assolutamente intollerante. Perché le sue reazioni erano le reazioni dell'indignazione: erano... dal punto di vista del Cristianesimo, Gesù che caccia i farisei dal tempio, i mercanti dal tempio.

Secondo me noi non dobbiamo avere paura di sapere che la nonviolenza attraversa tutte le culture possibili, e attraversa anche tutte le religioni possibili: e che non esiste un "decalogo del perfetto nonviolento", perché davvero non ha senso che esista; è una cosa attiene alla coscienza di ognuno, e al grado di "commozione" che ognuno può produrre.

Noi abbiamo assistito a cose di nonviolenza con grado di commozione zero, che non hanno prodotto nulla, se non probabilmente in chi le faceva, e probabilmente nemmeno l'esito politico desiderato. In questo probabilmente, quando ci occupiamo di nonviolenza, non dobbiamo nemmeno aver paura di correre il rischio di andare contro i presupposti di laicità che appartengono alla cultura radicale, e che sono forse il nostro modo di difenderci dagli scherni degli altri: perché è proprio accettando questa logica che poi non si ha più il coraggio di rischiare alcune cose. In questo non solo gli altri, ma i radicali stessi, nei confronti di radicali, hanno creato i presupposti per cui o la giustificazione era laicissima, oppure la cosa non aveva ragione di esistere: e questo ha prodotto un'autocensura notevole rispetto a quello che poteva essere un moto di disponibilità o di volontà - politica e personale - di fare un'azione con il metodo nonviolento per ottenere un risultato dal quale fossero cambiati i propri avversar

i. Diceva Lorenzo - che io ascolto sempre con molta attenzione, perché se uno riesce a resistere al fatto che parla per quattro ore... dice delle cose estremamente interessanti sotto il profilo dei riferimenti precisi che fa -: forse la scelta transnazionale è nonviolenta, e la scelta nazionale non è nonviolenta?

E lui diceva: sarebbe un errore tagliare con l'accetta un'ipotesi di questo genere. Sarebbe un errore teorico, prima di tutto, in effetti. E' sicuramente vero che la scelta transnazionale è, per suo scopo stesso, per sua realizzazione, per sua finalità, per suo obiettivo, una scelta che contiene termini istituzionali di nonviolenza: non fosse altro, perché passa attraverso la carta dei diritti della persona (che non viene applicata, che non esiste nelle culture), passa e supera i nazionalismi, censura i virilismi e gli sciovinismi, censura lo Stato rispetto al cittadini; ed ecco come poi ritorna la strada della nonviolenza, ritorna il cittadino, ritorna l'individuo, ritorna la persona, ritorna la coscienza... il che è imprescindibile, in questo tipo di percorso.

Insomma io credo che se vogliamo provare a riprendere una strada che secondo me abbiamo sufficientemente abbandonato, il primo passo sia che non ci dobbiamo vergognare né della nostra cultura né dei nostri sentimenti, poiché - secondo me - senza la propria cultura e senza i propri sentimenti la nonviolenza non si fa.

 
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