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Arconti Laura - 29 aprile 1988
Transnazionale è nonviolento
Laura Arconti

SOMMARIO: "Il nonviolento non si limita a rifiutare l'uso della violenza fisica, ma ricusa anche la violenza interiore": non odia colui che gli si oppone perché ha speranza che la sua parte migliore emerga e prevalga; non combatte le persone ma l'errore.

Sbaglia quindi chi ritiene che la nonviolenza sia solo un metodo di lotta fra altri e non una diversa e più avanzata concezione del confronto politico e del patto di civiltà della società.

Nella seconda parte del suo intervento, l'autrice ripercorre le tappe della lotta nonviolenta del Partito radicale contro lo sterminio per fame.

Conclude sostenendo che il partito trasnazionale potrà esistere solo se sarà capace di essere innanzitutto partito nonviolento.

(Atti del convegno "I radicali e la nonviolenza: un metodo, una speranza", Roma 29-30 aprile 1988)

Un radicale agisce, libero da ogni imposizione ideologica, guidato solo dalla responsabilità delle proprie scelte individuali.

Quando i radicali si riuniscono a Congresso e trasformano le proprie proposte individuali in mozioni di impegno collettivo, ancora una volta è per libera scelta che ciascuno decide se vincolarsi all'impegno col gesto concreto dell'adesione - per un anno e per quella mozione - al partito.

Con l'iscrizione al Partito i radicali accettano di condividere lo Statuto e si impegnano a realizzare il progetto politico annuale stabilito in Congresso: ed è una scelta libera e volontaria.

Affermazioni ovvie, si dirà.

Confesso che è per me motivo di grande imbarazzo dire queste cose in un Convegno che vede riuniti tanti di coloro che sono la rappresentazione vivente del metodo radicale.

Tuttavia non possiamo dimenticare che a Bologna, in Congresso, abbiamo deciso di abbattere idealmente le famose barre di confine e di andare a cercare altri radicali per le vie d'Europa: e a questi nostri compagni di cammino bisognerà pur raccontare i pensieri ed i gesti che hanno costruito l'identità radicale di questi anni.

Per questo continuerò a dire cose già note e perfino ovvie, con la tolleranza da parte vostra di ascoltarmi, e con l'umile pazienza da parte mia del militante, che è poi - secondo me - l'operaio del lavoro politico quotidiano.

La scelta della nonviolenza è scritta nel preambolo al nostro Statuto, prioritaria fra le regole che ci siamo dati; e se il preambolo, proposto dal XXIII Congresso Straordinario, è stato poi formalmente approvato dal XXIV Congresso Ordinario solo nel 1980, in realtà già tutte le lotte politiche degli anni precedenti erano state contrassegnate dalla vocazione nonviolenta dei radicali: col rifiuto delle leggi ingiuste, con la scelta del carcere per ricusare le armi (fin da Cicciomessere tanti anni fa), con la richiesta perentoria di diritti umani e civili per tutti, mettendo in gioco se stessi come pegno di speranza.

Noi scriviamo "nonviolenza" in un unica parola - e non casualmente, ma per una scelta meditata e precisa - poiché non si tratta solo e semplicemente di rifiutare la violenza come strumento di potere, bensì di affermare un metodo di vita e di lotta politica che affonda le sue radici nell'esempio di Gandhi, di Martin Luther King, di Capitini.

Nonviolenza non è soltanto ciò che Gandhi definiva "la resistenza calma e decisa di uomini e donne disarmati": è qualcosa di più, è - continuando a citare il Mahatma - "una forza estremamente attiva, che non lascia spazio alla viltà e neppure alla debolezza."

Gandhi stesso, nella dichiarazione che rese nel 1920 alla Commissione Hunter, raccontò come avesse coniato il termine Satyagraha dalle parole "Satya", che significa verità, e "agraha" che vuol dire fermezza; testualmente disse: "il suo significato profondo è l'adesione alla verità, che non ammette l'uso della violenza contro l'avversario; anzi, l'avversario deve essere distolto dall'errore con la pazienza e la comprensione". E' il dialogo, di cui tanto si è parlato qui ieri.

Quando Gandhi diceva "nonviolenza" e verità sono inseparabili come le due facce di una stessa moneta", parlava di una verità che va testimoniata, dando corpo e presenza viva alla propria fiducia e alla propria speranza.

Uno dei messaggi fondamentali della nonviolenza attiva Gandhiana è il tenace, continuo tentativo di far trionfare la parte migliore dell'interlocutore: è al meglio di lui che si rivolge la nonviolenza, così come la violenza dialoga con la parte peggiore dell'avversario.

Fra i molti successi ottenuti dai radicali in trent'anni di vita del partito, uno dei più significativi è - io credo - il graduale affermarsi del nostro metodo di lotta politica, arrivando fino a quello che Makovec ricordava poco fa, di come nelle carceri si è smesso di incendiare pagliericci ed arrotare cucchiai sul pavimento, per cominciare invece a digiunare.

Il vero e profondo significato di questo termine, "politica", che è qualcosa che appartiene alla polis, alla comunità dei cittadini, da tempo si è perso nel giudizio dei più. Per questo i nostri cartelli, le nostre marce, i nostri digiuni, le nostre lettere ai potenti, sono stati a lungo ridicolizzati dalla stampa e dall'opinione pubblica: perché a "questi" politici, che ci circondano, apparivano risibilmente inadeguati alla competizione fra i partiti e inadeguati al confronto fra cittadini e potere costituito.

In molte occasioni noi abbiamo invece dimostrato che il nostro metodo della nonviolenza attiva Gandhiana è infinitamente più forte della loro legge della giungla, delle loro menzogne, corruzioni e tradimenti, ed è capace di aprire alla ragione molte menti che sembravano davvero perdute, e definitivamente.

La nostra nonviolenza ha fatto scuola, ha salvato vite, ha conquistato diritti umani e civili. Io credo che ci rimanga il compito di durare nel tempo, di diffondere intorno a noi la fiducia nell'enorme potenziale del metodo: e, ancora, di far conoscere gli strumenti di lotta politica nonviolenta in tutto il loro significato, quale unica speranza per il futuro dell'umanità.

Vi dirò come io intendo la nonviolenza, forse in modo diverso da come la intendono altri: se sbaglio, c'è per fortuna ancora qualche ora di tempo per farmi ricredere dal mio errore.

Molti, pensando alla nonviolenza, pensano solo al digiuno. Nonviolenza non è soltanto digiuno, ma è un metodo composito in cui tutta la disponibilità e tutto l'impegno del militante si manifestano in molti modi.

Si è spesso ripetuto che la nonviolenza va praticata, va vissuta, va "impersonata", perché sia possibile capirne fino in fondo il vero significato: facendo una azione nonviolenta - e particolarmente in quella straordinaria lucidità della mente che sperimentiamo durante il digiuno - fantasia ed immaginazione ci suggeriscono intuizioni preziose e nuovi modi di espressione.

Il profondo desiderio di comprensione e di tolleranza, che ci lega a coloro da cui esigiamo il rispetto delle regole da loro stessi riconosciute (i nostri interlocutori) ci aiuta ad immaginare sempre nuovi modi di richiamare le coscienze al patto della comune civiltà.

Non c'è davvero nulla che sia fanatismo o misticismo, in questo nostro metodo, ma piuttosto un insieme di regole, di certezze; una stretta logica razionale.

La resistenza nonviolenta - lo diceva Gandhi, lo diceva anche Luther King - non è un metodo per deboli o per codardi: non è un vero nonviolento colui che usa questo metodo solo perché ha paura, o semplicemente perché non ha a disposizione strumenti di violenza.

La nonviolenza non si propone di attaccare, sconfiggere o umiliare l'avversario, bensì ha come obiettivo di conquistare un punto di incontro delle opinioni: ciò che il nonviolento combatte non sono le persone, ma è l'errore di alcune persone, o se volete le ingiustizie, che determinate persone commettono.

Il nonviolento non si limita a rifiutare l'uso della violenza fisica, ma ricusa anche la violenza interiore: come non sparerebbe all'avversario, neppure per legittima difesa (Preambolo allo Statuto...), così non riesce ad odiare colui che gli si oppone: perché nonviolenza è speranza positiva, è fiducia nella parte migliore degli esseri umani, che non manca mai in alcun vivente.

Ma tutto questo è sorretto da concrete e precise strategie; uno sciopero della fame ad oltranza condotto in condizioni proibitive, nell'isolamento e nel silenzio - come l'atroce e ben nota vicenda irlandese, tanto per capirci - non è più tecnica nonviolenta, è solo un suicidio calcolato. In quella vicenda c'era odio: si è voluto morire per umiliare la Corona britannica, nel tentativo irrazionale di screditarne l'immagine presso l'opinione pubblica internazionale. Nulla di tutto questo è nonviolenza.

E' stato messo in evidenza ieri, da Emma Bonino, da Francesco Rutelli e da Gianfranco Spadaccia, il nodo dell'informazione. L'opposizione nonviolenta vive sull'informazione, sulla possibilità che l'opinione pubblica possa conoscere e giudicare gli obiettivi dei nonviolenti. Se l'obiettivo è valido, l'opinione pubblica lo rafforza col suo consenso, altrimenti lo isola. Ma tutto ciò può avvenire solo se è noto che è in corso una azione nonviolenta e, soprattutto, perché essa viene condotta.

Uno sciopero della fame, o quello più drammatico della sete - che ha tempi di sopravvivenza tanto più limitati - ha ragione d'essere solo a due condizioni: che il motivo della richiesta sia altrettanto drammatico ed ultimativo quanto l'azione che si è scelta come "escalation" di gravità, e che esso sia conosciuto dall'opinione pubblica e dai destinatari dell'azione in tutto il suo profondo significato.

Poiché nonviolenza è soprattutto dialogo, e il dialogo non può essere intuito per divinazione, ma va vestito di gesti e di parole, che esprimano sentimenti e richieste precise.

Un'azione nonviolenta che non abbia obiettivi chiari e definiti, che sia solo testimonianza, non ha legittimità. Credo anche che non rispondano al nostro concetto di azione nonviolenta - o forse dovrei meglio dire che non rispondono al mio concetto di azione nonviolenta - un digiuno o un sit-in che, per esempio, abbiano come obiettivo richieste di interesse proprio di colui che li conduce, o anche del gruppo sociale a cui egli strettamente appartiene.

Darsi per obiettivo, nell'azione nonviolenta, il ristabilimento di diritti altrui, a favore di persone lontane da noi nello spazio (Africa, Russia, Argentina) o nel modo di pensare (fascisti, estremisti, brigate rosse): questa è forse l'essenza più viva del metodo nonviolento, della prassi nonviolenta.

Per questo la lotta dei radicali contro lo sterminio per fame, che per anni ci ha visto dare fondo ad ogni possibile ed immaginabile aspetto del metodo nonviolento, mi appare come un fulcro della nostra attività politica. E se non abbiamo ancora colto il successo, pur essendo stati tante volte davvero a un capello dal ghermirlo, almeno qui in Italia, ciò non significa che il metodo fosse sbagliato. Forse non abbiamo durato abbastanza, forse l'immane entità del problema, con tante diverse componenti, richiede tempi più lunghi di tenuta di lotta, forse occorre rivolgersi ad un diverso interlocutore: ma le risposte, che di volta in volta ci sono state date, provano che la via è quella giusta.

Mi è stata chiesta, per questo Convegno, una relazione sulla teoria e la prassi della nonviolenza attiva Gandhiana e sul percorso della lotta allo sterminio per fame, che mi ha vista lungamente impegnata insieme a tanti altri. Sarà necessariamente solo un'elencazione, perché non c'è il tempo di piazzare ogni singola azione nel contesto politico del momento: sarà dunque solo un elenco della lunga sfilata di iniziative, per ripercorrere la pratica sostanzialmente ininterrotta di sei anni di azioni nonviolente solo fino alla prima tappa, fino alla Legge 73 del Marzo 1985, azioni diverse in cui ogni nuova iniziativa andava aggiungendo segmenti di teoria e di prassi al nostro metodo.

Noi stessi spesso dimentichiamo, per l'umana tendenza a gettarsi alle spalle ciò che storicamente è stato, relegandolo nel dominio onnicomprensivo del "passato". Angiolo Bandinelli ci raccomandava, ieri, di tenerci lontani da rievocazioni autocelebrative: vorrei dirgli che non è questo lo spirito della rievocazione. E' piuttosto per mostrare che - avendo fatto cento cose - forse avremmo dovuto, o dovremmo ancora, tentare la centunesima.

Riconduciamo la mente al 1979. La portata del problema della fame dilagante nel mondo era sconosciuta all'opinione pubblica più vasta: si sapeva, nebulosamente, che esistevano popolazioni molto povere, ma in un'Italia che dava cifre limitatissime agli aiuti (solo lo 0,06 per cento del prodotto interno lordo), la questione non era ritenuta di rilevanza politica, rimanendo confinata nel dominio del volontarismo caritativo, della tradizione missionaria, della buona coscienza a base di abiti smessi e stagnola.

Fu necessario lavorare dapprima all'informazione, per far capire a tutti che si tratta di un problema politico, e di un problema di rilevanza mondiale: di un problema che coinvolge primariamente la responsabilità delle coscienze (perché le risorse basterebbero per tutti i viventi, se equamente distribuite), ma un problema che - in proiezione di lungo termine - coinvolge la sicurezza del mondo intero.

Nel febbraio 1979, Marco Pannella lancia un appello perché l'Italia si impegni subito a salvare almeno una parte di coloro che sono destinati a morte sicura: insigni personalità della cultura, della politica, del mondo religioso, raccolgono l'appello.

Oltre quaranta giorni di digiuno di Marco, sulla richiesta di precisi stanziamenti per gli aiuti al Terzo Mondo, si concludono a Pasqua, quando diecimila persone camminano da Porta Pia a piazza San Pietro, dando vita alla prima marcia popolare "per la vita, la pace e il disarmo". I Parlamentari radicali raccolgono firme per l'autoconvocazione delle due Camere, su un documento che richiede di portare l'entità degli aiuti allo sviluppo almeno allo 0,70% del PIL, di stanziare una cifra "una tantum" per l'emergenza, di richiedere alle Nazioni Unite l'invio di una forza multinazionale disarmata nei Paesi della fame.

Con un altro lungo digiuno, Pannella ottiene in ottobre una Risoluzione del Parlamento Europeo nello stesso anno.

L'anno 1980 si apre con una azione collettiva di denutrizione: oltre quattrocento persone per tre mesi si alimentano soltanto con le calorie quotidiane che in media "spettano" alla gente die Paesi della fame, meno di mille calorie al giorno. L'azione di conclude con una settimana di digiuno collettivo, che porta alla seconda Marcia di Pasqua.

Frattanto il XXIII Congresso del partito aveva deliberato che il simbolo della rosa nel pugno venisse "abbrunato in segno di lutto, fino alla sconfitta della politica di sterminio per fame e per guerra".

Nel febbraio una delegazione radicale aveva partecipato ad una marcia internazionale in Cambogia, per denunciare al mondo l'estrema miseria di quella popolazione.

Siamo nel 1981. In aprile viene costituita a Bruxelles Food and Disarmament International, l'organizzazione che coordina la campagna internazionale dei Premi Nobel. Il 25 giugno il Manifesto-Appello dei Nobel viene presentato contemporaneamente in cinque capitali: Roma, Bruxelles, Ginevra, Parigi, New York.

In agosto la Conferenza delle Nazioni Unite sui Paesi in via di sviluppo, a Parigi, prende atto del sostanziale fallimento della politica degli aiuti, e il 2 settembre, a Parigi, Pannella inizia un nuovo digiuno: obiettivo, salvare almeno tre milioni di vite entro l'anno seguente. Si avvia così la "campagna sopravvivenza 82". Il 14 ottobre "Le Monde" dedica l'intera prima pagina al digiuno di Marco.

Il 17 ottobre, a Roma, la delegazione dei Premi Nobel guidata da Lord Philip Noel Baker viene ricevuta dal Presidente della Repubblica, dal PResidente del Consiglio, dai Presidenti di Camera e Senato. Lo stesso giorno una marcia di decine di migliaia di cittadini sfila per le vie di Roma in una fiaccolata, invocando vita e disarmo. Marco Pannella, in digiuno da 46 giorni, magro come uno scheletro, parla alla gente al Circo Massimo.

Si raccolgono 187 firme di Deputati di ogni partito su una mozione radicale e, in dicembre, la Conferenza Episcopale dichiara di appoggiare la Risoluzione Parlamentare.

Il 1982 si apre con la raccolta di firme sulla "Legge dei Sindaci" e con la Marcia del 2 gennaio da San Pietro al Quirinale.

In Francia il padre domenicano Jean Cardonnel inizia un digiuno di sostegno della Legge dei Borgomastri belgi e della Legge dei Sindaci italiani: un digiuno che durerà 40 giorni.

A Pasqua, terza Marcia popolare, cui partecipano cinquantamila persone. In aprile si presenta in parlamento la Legge, corredata dalle firme di 1300 Sindaci e decine e decine di migliaia di cittadini: per ottenere la discussione parlamentare, in maggio inizia uno sciopero della fame di Gianfranco Spadaccia, Athos De Luca e Walter Vecellio. Giovanni Negri scende in sciopero della fame per ottenere dalla Rai informazione corretta sullo sterminio per fame nel Terzo e Quarto mondo: queste azioni dureranno sessanta giorni.

In estate siamo in Piazza Navona, col tendone, per quasi un mese ventiquattro ore su ventiquattro. Centoundici cittadini digiunano per venti giorni (alcuni per quindici), scrivendo ogni giorno ai Deputati che dovranno discutere la Legge. "Notizie Radicali" titola "mille giorni di digiuno per aiutare il parlamento"; la mia proposta del digiuno indirizzato personalmente, in dialogo, testa a testa, un digiunatore per ciascun deputato, viene definita come un millimetro di teoria nonviolenta in più. Abbiamo fatto un bilancio di 16.0000 cartoline, 2.000 telegrammi, migliaia di lettere, raccolti ed inoltrati ai destinatari. Commento di Marco Pannella su Notizie Radicali: "... la nonviolenza è dialogo, è informazione su una verità che sappiamo rivoluzionaria...".

Ancora, in luglio, tre severi scioperi totali di Marco Pannella: la fame e la sete a sostegno delle buone volontà altrui, ogni volta fino al limite estremo del rischio di vita. Ottiene le firme di adesione dei Vescovi alla Legge dei Sindaci, una richiesta del Pontefice: "E' necessario che dalle parole si passi ai fatti...", e Marco commenta: "Allorché ricorriamo alle armi estreme della nonviolenza, è sempre per interrompere un processo di morte, mutarlo e convertirlo nel suo opposto."

Siamo nel 1983. In gennaio, ancora lo sciopero della fame e della sete di Marco, per sollecitare il Governo al rispetto degli impegni assunti.

In primavera, quarta Marcia di Pasqua, con oltre 50.000 partecipanti. In giugno, digiuno di dialogo dei Parlamentari radicali.

Mentre in Italia ci si gingilla con le solite elezioni anticipate, in Belgio il Senato approva definitivamente la "loi de Survie".

Otteniamo il 15 ottobre, in occasione della giornata mondiale dell'alimentazione, l'indizione in 29 comuni di una giornata di lutto cittadino "per onorare con un segno ufficiale l'immensa parte di umanità sterminata dalla fame".

In Belgio, intanto, più di cento persone sono in digiuno collettivo, in Satyagraha, per ottenere l'applicazione della legge approvata dal Senato: in Italia alcuni di noi si aggiungono al Satyagraha.

Digiuno ad oltranza di Marco Pannella, allora Segretario del Partito radicale.

Siamo ormai al 1984, e qui davvero mi limiterò ad un elenco per titoli, tante sono le azioni storicamente avvenute in quell'anno.

Marzo 1984: mobilitazione quotidiana da Radio rAdicale: millecentotrentasei persone- radicali e cittadini di ogni fede politica e religiosa - in digiuno dal 5 al 20 marzo: le "lettere della speranza"; i "telegrammi per la vita"; un detenuto di Saluzzo scrive lettere ai direttori di 70 quotidiani di tutta Italia, mentre è in digiuno con noi.

In aprile, Primo Convegno Internazionale "I poveri non mangiano teorie", organizzato da Food and Disarmament International ed altri, con il PArtito radicale; il "Concerto per la vita" di Angelo Branduardi, per finanziare la lotta politica a sostegno della Legge.

Marcia di Pasqua il 22 aprile, coi Gonfaloni di ottanta Comuni, di cui venti capoluoghi di provincia.

Continuo velocemente: c'è ancora molto da ricordare, da elencare...

Tavoli per la raccolta di cartoline dirette ai Deputati della Commissione Esteri, in tutta Italia; digiuno dell'Associazione contro lo sterminio per fame di Roma; staffetta di Walk-around ad oltranza condotto dagli obiettori-affermatori di coscienza intorno a Montecitorio; campagna "una lettera al giorno per la vita", con filo diretto quotidiano da Radio Radicale; migliaia di lettere e telegrammi ai giornali e al Parlamento.

Viene pubblicato il dossier sul fallimento dell'aiuto pubblico ai Paesi in via di sviluppo, dal titolo "Dagli aiuti mi guardi Iddio", a cura dei parlamentari radicali Signorino e Crivellini.

Quarantacinque giorni di digiuno di Giovanni Negri, segretario del partito: alcuni di noi digiunano con lui per trentun giorni. Il digiuno si sospende (fu poi ripreso per le pensioni di fame) con la Marcia di Natale, all'indomani del decreto promulgato dal Governo Craxi, che non sarebbe stato confermato dal Parlamento successivamente... Ma, per Natale, Notizie Radicali titola "E' legge!".

Scadono poi i termini per la conferma del Decreto, che le Camere non confermano: dopo una tormentata discussione si arriva alla Legge n.73 del 29 marzo 1985, e si attende più di un mese la nomina del Sottosegretario, francesco Rutelli viene nominato il 9 maggio 1985... e la morte per fame continua.

Certo avrò dimenticato qualcosa, tanto abbiamo fatto in questa mobilitazione ininterrotta. Ho contato quaranta diverse azioni, solo per arrivare alla Legge 73: una teoria continua di fatti, di gesti di sacrifici... perché non dirlo? Non bisogna aver paura delle parole, né dell'accusa di misticismo.

Ora io credo che questo metodo di azione nonviolenta totale, basato sul digiuno, sull'informazione, su miliardi di passi, sul dialogo paziente, abbia comunque ottenuto un diverso approccio al problema della fame, una prima stratificazione, un primo passo che possa costituire speranza di un successo futuro.

E' un problema che non si risolve nel ristretto ambito di una sola Nazione, a causa delle sue stesse proporzioni; se c'è una speranza di ottenere altri passi avanti, se c'è un barlume di speranza di penetrare questo muro di caucciù degli interessi costituiti che ci sono contro, questo avverrà soltanto coalizzando i cittadini del mondo al di là delle frontiere, al di sopra delle ideologie, al di sopra dei partiti, al di là di tutto: uniti soltanto dal fatto di essere creature viventi e cittadini liberi, che hanno fede di poter ancora influenzare ciò che li circonda, mutandolo in meglio, con la loro volontà, con la loro forza, con la loro ragione.

Per questo non faccio che ripetere ad ogni occasione che il Partito radicale transnazionale non ha scelta: per i suoi obiettivi di vita e di libertà, o il partito transnazionale è nonviolento, e pratica i metodi della nonviolenza attiva Gandhiana, oppure - semplicemente - non sarà mai.

 
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