di Leonardo SciasciaSOMMARIO: Polemizza sarcasticamente con Eugenio Scalfari, l'uomo che "si considera in grado di poter dire apoditticamente la sua su tutto e su tutti": il "povero" Casanova raccontò di aver "messo alle corde" Voltaire, mentre non era vero; ma Voltaire non avrebbe potuto prendere sottogamba Scalfari, tanto "più potente" di Casanova. Ora Scalfari attacca l'a. affermando che nel ripiegamento e riflusso di oggi "non è stato elemento marginale l'attacco che Sciascia portò alcuni mesi fa alle strutture che cercavano di mantenere alta la tensione pubbloca contro la mafia". In Sciascia, prosegue Scalfari, "la vanità personale fa spesso premio sulla responsabilità civile".
Non è vero - replica Sciascia - che in Italia uno scrittore possa scatenare un "movimento d'opinione". Smentisce che egli ce l'avesse "con quei magistrati e con quei politici", solo era inquietato dal comportamento del Consiglio superiore della magistratura, un comportamento che aveva penalizzato il giudice Falcone per favorire Borsellino. Ciò che l'a. vuole, in realtà, è che lo Stato mostri "decisione, fermezza, intelligenza, concordia..."
(LA STAMPA, 6 agosto 1988)
La trahison des clercs. Ma intendeva proprio parlare del libro di Julien Benda, nel suo articolo su "la Repubblica" del 2 agosto, Eugenio Scalfari? O con questo titolo ne ha scritto o si accinge a scriverne uno: contrapposizione, rifacimento o parodia? Certo, Scalfari ha molte corde al suo arco. E uno di quegli italiani geniali e versatili i cui prototipi l'Europa conobbe nel secolo XVIII. Si considera in grado di poter dire apoditticamente la sua su tutto e su tutti: e ne ha gli strumenti pratici, il potere concreto. Guai ad essergli invisi! Altro che il povero Casanova, che nelle memorie racconta di aver messo alle corde Voltaire ma di quella visita, di quella lezione, il solo probabile riscontro è in Voltaire l'annotazione che era passato da Ferney un buffo tipo d'italiano. Scalfari è meno divertente di Casanova, ma tanto più potente: il suo passaggio, le sue lezioni, i suoi rimproveri, non li avrebbe presi sottogamba neppure Voltaire; e figuriamoci noi! Ne siamo afflitti, la tentazione di dichiararci pen
titi in questo mare di pentimento che è l'Italia è piuttosto forte. Ma un protervo demone ci consiglia di resistere alla tentazione, di continuare a meritarci il disdegno di Scalfari. Ci sarà un tempo in cui noi non saremo più e Scalfari sarà meno potente: chi sa che qualcuno non si metta a fare i conti con un certo candore.
Un po' per celia un po' per non morire, diceva Petrolini. Ma lasciamo stare la celia e cerchiamo, sotto i colpi di Scalfari, di non morire. Ed ecco, del citato articolo di Scalfari, il passo che mi riguarda (ho la corretta abitudine di citare testualmente gli argomenti si dice per dire mossi contro di me): "E poiché è venuto il momento di dire tutto con la massima franchezza, aggiungerò che in tutta questa vicenda di ripiegamento e di riflusso non è stato elemento marginale l'attacco che Leonardo Sciascia portò alcuni mesi fa alle strutture che cercavano di mantenere alta la tensione pubblica contro la mafia. Dalle pagine del Corriere della Sera Sciascia tacciò di carrierismo quegli uomini politici e quei magistrati che si sarebbero inventati il mestiere di far da spauracchi alla mafia soltanto per avanzar di grado e di prestigio. Una certa opinione pubblica legata a certi interessi non aspettava altro per partire alla riscossa, e non a caso la presa di posizione di Sciascia fu amplificata e rilanciata i
n tutte le direzioni, per l'autorità di chi ne era l'autore. Esempio di una trahison des clercs quale più lampante non si poteva dare. Ma del resto Leonardo Sciascia non è nuovo a questo genere di sortite, nelle quali la vanità personale fa spesso premio sulla responsabilità civile."
Nel passo c'è un'affermazione che sarebbe confortante se non fosse del tutto infondata: che in Italia uno scrittore ha l'autorità di innescare un largo, e carico di conseguenze, movimento d'opinione. Nulla di meno vero: la mia presa di posizione ha trovato ascolto e consenso (come ha anche suscitato inconsulte reazioni) perché di semplice verità, a Palermo sotto gli occhi di tutti che avessero voglia di vederla. Inevitabile era che una tale verità venisse strumentalizzata da, come dice Scalfari, "una certa opinione pubblica legata a certi interessi": è un rischio che si corre sempre, quando si dicono certe verità. Ma gli interventi dei sindacalisti della CGIL, della CISL, dell'UIL che a Palermo dicevano inascoltati le stesse cose che io mi ero provato a dire e gli articoli del Manifesto e di altri giornali, molto servirono a render minimo il rischio. Se la Repubblica, invece di rivolgermi furibondi attacchi, avesse serenamente valutato le mie affermazioni, forse oggi si sarebbe a miglior punto. Perché no
n è vero che io ce l'avessi con quei magistrati e con quei politici, e per nulla sul piano personale (e di ciò si era reso ben conto proprio il dottor Borsellino): quel che mi inquietava era la temperie che intorno a loro si era stabilita, acriticamente, a renderli intoccabili; e soprattutto mi inquietava il comportamento del Consiglio superiore della magistratura appunto nel caso della promozione del dottor Borsellino. Il Consiglio si era sottratto alla regola vigente senza però stabilirne un'altra. Se l'avesse da quel momento stabilita, il caso del dottor Falcone, con tutto quel che oggi importa, non ci sarebbe stato. Adottando un criterio per promuovere Borsellino e tornando invece alla vecchia regola per non promuovere Falcone, ecco il nodo che presto o tardi doveva venire al pettine. La situazione di oggi, insomma, non l'ho inventata io con quel mio articolo sul Corriere: c'era, e non poteva che esplodere. Io non ho fatto che avvertirla, e tempestivamente. Ed è vero che non mi piacciono le tensioni, di
solito destinate a cadere: io voglio, da parte dello stato, decisione, fermezza, intelligenza, concordia tra i diversi organismi della pubblica amministrazione preposti al compito di combattere la mafia. Voglio quel che non c'è mai stato e che evidentemente non c'è; e che così continuando si fa meta sempre più lontana. Il che mi fa ancora e sempre apparire come un pessimista: e pare non sia permesso esserlo nemmeno di fronte al pessimo. Allegria, allegria.
In quanto a quelle che Scalfari chiama "sortite", capisco benissimo che non gli passi per la testa il sospetto che si possa scrivere per null'altro che per amore della verità. E vero che son troppe le mie "sortite" che sono andate incontro a polemiche, risentimenti, riprovazioni e perfino diffamazioni e calunnie. Calunnie alla don Basilio (pertinente richiamo, a pensarci bene). Ma che posso farci? Come Shaw diceva che i negri prima li si costringe a fare i lustrascarpe e poi si dice che sanno solo fare i lustrascarpe, prima mi si attacca e poi mi si fa il rimprovero di essere attaccato. Io ho dovuto fare i conti da trent'anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all'esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono i
nfallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità. Ho sessantasette anni, ho da rimproverarmi e da rimpiangere tante cose; ma nessuna che abbia a che fare con la malafede, la vanità e gli interessi particolari. Non ho, lo riconosco, il dono dell'opportunità e della prudenza. Ma si è come si è.