di Paolo Cotta-RamusinoSOMMARIO: Le iniziative unilaterali di disarmo rappresentano oggi l'unico strumento che, in aggiunta al sistema tradizionale degli accordi e dei trattati, può contribuire al disarmo. In particolare, se lo scopo della Nato è, come dichiarato, esclusivamente quello di difendersi, è possibile studiare dei modi in cui le capacità difensive della Nato possano essere accresciute, senza che questo implichi anche un aumento delle capacità offensive e in una operazione di ristrutturazione e riorientamento delle forze convenzionali in un senso esclusivamente difensivo sono praticabili ed auspicabili iniziative unilaterali.
(Irdisp - Quale disarmo - Franco Angeli editore - Milano - ottobre 1988)
1. Introduzione
Non si può negare che le trattative e gli accordi per il controllo degli armamenti abbiano svolto una funzione importantissima nel limitare e contenere la corsa agli armamenti, specie quelli nucleari. I risultati, tuttavia, sono stati ben lontani dalla realizzazione di quel "disarmo completo e generale", che pure era (ed è) l'obiettivo dichiarato di Stati Uniti e Unione Sovietica, come risulta dalle premesse contenute nei vari accordi per il controllo degli armamenti che sono stati sottoscritti (1).
E' dunque ragionevole tentare di sviluppare una analisi critica dei diversi aspetti del processo di controllo degli armamenti, esaminarne i punti deboli e cercare di proporre soluzioni, almeno in parte, alternative. Per essere più chiari: il punto non è quello di sminuire il contributo portato da oltre quarant'anni di trattative e accordi più o meno parziali, né è quello di sottovalutare il contributo che tali accordi potranno portare in futuro; si tratta invece di comprendere come ad essi possano essere affiancati altri tipi di iniziative utili alla riduzione degli armamenti e, più in generale, alla distensione tra est ed ovest.
In termini di logica elementare un paese può assumere iniziative per la riduzione degli armamenti in seguito a: accordo, azione unilaterale o costrizione da parte di un altro paese o di un gruppo di paesi. La terza ipotesi è scarsamente applicabile, nella attuale situazione e in tempo di pace, alla NATO e al Patto di Varsavia. Dunque, sempre in termini di logica elementare, le iniziative unilaterali rappresentano l'unico strumento che, in aggiunta al sistema tradizionale degli accordi e dei trattati, può contribuire al disarmo.
La utilità di eventuali passi unilaterali, risulta poi evidente dall'esame delle difficoltà incontrate, nel passato, dal processo di controllo degli armamenti.
a)'La dinamica delle trattative'. Ci sono alcune caratteristiche e regole comuni a quasi tutti i tipi di trattative. La prima regola base è che alla trattativa bisogna presentarsi in condizione di superiorità nei confronti dell'avversario. Quando parliamo di controllo degli armamenti ciò significa che entrambe le parti tendono a sviluppare il più possibile i loro programmi militari, prima di arrivare al momento della contrattazione (si veda a questo proposito anche il punto successivo). Lo svolgimento stesso della trattativa presenta poi tutta una serie di problemi. Questi sorgono, ad esempio, quando le parti presentano proposte di accordo con lo scopo evidente di mettere in difficoltà l'interlocutore e non quello di arrivare ad una ragionevole conclusione della contrattazione. In questo modo i tempi delle trattative si allungano sensibilmente oppure si arriva al punto in cui l'accordo stesso diventa impossibile. Tipico esempio in tal senso è la trattativa START proposta dall'amministrazione Reagan (2). Alte
rnativamente, problemi connessi con la definizione dei vari sistemi d'arma o con la valutazione delle loro capacità o, infine, con la determinazione dei quantitativi di essi installati dalle due parti, possono rallentare sensibilmente la conclusione di un accordo, anche quando i termini generali di esso sono stati definiti da molto tempo. Lo stesso può dirsi quando nella trattativa viene data importanza a questioni secondarie (magari presentate come questioni di principio) o a semplici problemi terminologici o di formulazione del testo. Ad esempio, la discussione dell'accordo SALT II si prolungò per oltre sette anni, anche se gli obiettivi di base e il contesto generale dell'accordo furono definiti all'inizio della trattativa. Un altro esempio significativo è quello delle trattative sulle forze convenzionali in Europa (MBFR, 'Mutual and Balanced Force Reductions'), che si prolungano dal 1973 e in cui una combinazione delle varie difficoltà menzionate prima ha di fatto svuotato di significato il negoziato ste
sso (3).
b)'Bargaining Chip'. Si usa chiamare così un sistema d'arma che viene utilizzato come merce di scambio, o carta da giocare, in una trattativa, perché facilmente spendibile. Molto spesso, però, sistemi d'arma che vengono concepiti inizialmente come 'bargaining chip' diventano poi aggiunte permanenti agli arsenali dei due blocchi. Ad esempio, all'inizio della trattativa SALT I, si pensava che i missili a testate multiple indipendenti (MIRV, 'Multiple Indipendently targetable Re-entry Vehicle') potessero essere considerati come 'bargaining chip'; tuttavia la possibilità di una loro negoziazione svanì rapidamente quando venne riconosciuta la loro rilevanza militare (4). Inoltre l'uso di sistemi d'arma come carte da giocare in una trattativa, costituisce un incentivo per le superpotenze a mantenere installati anche sistemi d'arma obsoleti o relativamente inaffidabili, con la prospettiva di poterne, in futuro, negoziare l'eliminazione ed ottenere quindi qualche concessione in cambio.
c)'Controllo degli armamenti e rapporti politici complessivi' (5). I rapporti politici complessivi condizionano ovviamente il processo di controllo degli armamenti; e questo condizionamento crea diversi ordini di problemi. Un primo modo in cui tale condizionamento si manifesta è nel ruolo di simbolo politico che viene attribuito a vari sistemi d'arma. In altri termini, certi strumenti bellici non vengono valutati per sé, cioè per le loro caratteristiche e capacità militari, quanto per il significato politico che la loro presenza rappresenta, o si crede che rappresenti. Prendiamo come esempio il problema degli euromissili, la trattativa ad essi relativa sviluppatasi all'inizio degli anni '80 e l'atteggiamento verso questo problema assunto dagli europei occidentali. Tutto il dibattito sul collegamento tra difesa dell'Europa occidentale e difesa degli Stati Uniti che ha motivato, o ha contribuito a motivare, la decisione di installare i nuovi missili a raggio intermedio in Europa, partiva dal presupposto che q
uesti missili simbolizzassero, in qualche senso, l'unità della NATO (6). Per i governi dell'Europa occidentale, gli euromissili hanno cioè costituito una sorta di ingannevole soluzione 'hardware' ad un complesso problema politico di rapporti interalleati. E questo è avvenuto nonostante che le caratteristiche tecniche dei 'Pershing II' e dei cruise, e la struttura del loro sistema di controllo, non fossero certo tali da garantire automaticamente, come si voleva far credere, la coesione militare tra gli alleati della NATO, in caso di conflitto nucleare. Quando certi sistemi d'arma diventano simboli politici, diventa dunque più difficile negoziarne l'eliminazione. Il condizionamento dei rapporti politici complessivi sul processo di controllo degli armamenti si manifesta in diversi altri modi. Per esempio, ciò avviene quando una parte subordina, esplicitamente o di fatto, lo sviluppo o la conclusione di una trattativa ad un certo tipo di comportamento della parte avversa, anche quando questo comportamento riguar
da un settore della politica internazionale o interna, che poco ha a che fare con i problemi discussi nella trattativa. Il tipico caso, a questo proposito, è la richiesta fatta dal presidente Carter al Senato americano di non procedere alla ratifica del trattato SALT II, a seguito dell'invasione sovietica dell'Afghanistan. Il rischio, in situazioni analoghe a questa, è che il processo di controllo degli armamenti venga interrotto proprio quando la tensione politica tra i due blocchi è più alta, cioè quando più grande è il bisogno di contenere il confronto militare tra i due schieramenti. Un altro modo in cui i rapporti politici complessivi condizionano le trattative per il controllo degli armamenti, riguarda l'interazione tra queste trattative e la politica interna dei singoli paesi. Ci riferiamo soprattutto agli Stati Uniti e, in misura minore, ai paesi dell'Europa occidentale. Le trattative per il controllo degli armamenti assumono una grande rilevanza per l'opinione pubblica. E' quindi comprensibile che i
l destino di una trattativa dipenda anche dal tipo di effetto che certe proposte di accordo hanno sulla pubblica opinione e sulla politica interna delle due parti. Fattori completamente estranei al controllo degli armamenti possono spingere l'opinione pubblica ad accettare una maggiore disponibilità nei confronti dell'avversario o, al contrario, a chiedere una maggiore rigidità. Un esempio del tutto particolare è quello dell'Iniziativa di Difesa Strategica (SDI, 'Strategic Defense Initiative'). L'idea di costruire un sistema che, in linea di principio, protegga gli Stati Uniti da un attacco nucleare è certamente un'idea che attira settori dell'opinione pubblica americana. Perciò l'SDI, nonostante incontri difficoltà tecniche insuperabili e svolga, allo stesso tempo, un ruolo destabilizzante per quanto riguarda la corsa agli armamenti, incontra tuttavia un certo sostegno da parte dell'opinione pubblica. Questo sostegno ha consentito all'amministrazione Reagan di tenere un atteggiamento relativamente rigido ne
lle trattative sulla limitazione dei sistemi di difesa strategica. Più in generale occorre ricordare che, se si discute con l'avversario sulla possibile riduzione o eliminazione di certi sistemi d'arma, si mettono questi sistemi d'arma sotto le luci dei riflettori della pubblica opinione. La percezione che si crea intorno alla loro rilevanza o al loro ruolo, non coincide necessariamente con la rilevanza effettiva dal punto di vista militare e strategico, come pure la percezione rispetto alla loro pericolosità può non coincidere con la pericolosità effettiva (7). Come esempio, si potrebbe citare il fatto che, all'inizio degli anni '80, larga parte dell'opinione pubblica riteneva che il rischio nucleare derivasse solo dagli euromissili.
d)'La verifica'. Uno dei requisiti fondamentali di ogni accordo riguarda la sua verificabilità, ovvero la capacità delle singole parti firmatarie di verificare l'adempimento degli impegni assunti da parte degli altri partecipanti all'accordo. Anche se la verificabilità di un accordo è certamente un requisito ragionevole, bisogna osservare che, in generale, non esiste una 'verificabilità assoluta', cioè non è possibile, nella maggioranza dei casi, che una parte sia in grado di controllare se la parte avversa rispetti al 100% gli accordi presi. Ovvero esiste quasi sempre un margine di possibili violazioni dell'accordo, che non possono essere rivelate. Il problema diviene dunque prima di tutto stimare questo margine e valutare realisticamente i possibili effetti di ipotetiche violazioni degli accordi che siano contenute in questo margine (8). Ad esempio, se una delle parti decidesse di mantenere di nascosto qualche missile in più del consentito, ciò ragionevolmente non cambierebbe i rapporti militari complessiv
i. Quindi i vantaggi politici e di stabilità militare che deriverebbero dall'esistenza di un accordo per la limitazione del numero di certi tipi di missili, non verrebbero certo messi in forse da una ipotetica limitata violazione dell'accordo stesso. Bisogna anche notare che se una nazione tenesse qualche unità di sistemi d'arma in eccedenza rispetto al limite consentito dai trattati, dovrebbe costantemente preoccuparsi di non essere scoperta e non potrebbe certo installare apertamente i sistemi d'arma illegali; la violazione degli accordi le darebbe cioè un vantaggio molto limitato. Il fatto è che il problema della verificabilità di un eventuale accordo è stato spesso sollevato da chi desiderava trovare una motivazione pretestuosa per non arrivare alla firma di un trattato. Ovvero, in una buona parte dei casi, i limiti alla capacità di verificare un accordo, riducono solo in misura del tutto marginale i possibili benefici dell'accordo stesso.
Dovrebbe essere a questo punto chiaro che eventuali iniziative unilaterali potrebbero, in certe circostanze, contribuire a superare gli 'impasse' del processo di controllo degli armamenti. Prima di discutere le possibilità concrete di tali iniziative è opportuno fare alcune precisazioni.
i. Parlando di iniziative unilaterali occorre, in linea di principio, distinguere tra iniziative unilaterali assunte da uno dei due schieramenti militari, cioè NATO e Patto di Varsavia, e le iniziative unilaterali assunte da un determinato paese, membro di una alleanza. Le iniziative unilaterali di disarmo portate avanti da singoli paesi possono benissimo stimolare l'assunzione di certe iniziative unilaterali da parte dello schieramento di cui il paese in questione fa parte o comunque possono contribuire alla distensione. Possono però anche creare fratture all'interno delle alleanze, sviluppare tensioni tra paesi alleati e, in ultima analisi, generare una situazione di maggiore conflittualità tra i due blocchi. Ad esempio non è difficile immaginare circostanze in cui l'uscita di un paese dalla NATO o dal Patto di Varsavia potrebbe creare una situazione di tensione politica e militare in Europa. Al contrario, è più difficile immaginare situazioni in cui iniziative unilaterali di disarmo, assunte collettivamen
te da uno dei due schieramenti, potrebbero accrescere la tensione internazionale.
ii. Iniziative unilaterali di disarmo sono state portate avanti in passato, anche se non molto frequentemente. Ad esempio ci possiamo riferire alle decisioni della NATO di ridurre progressivamente il numero di armi nucleari tattiche collocate in Europa; alla riduzione di truppe sovietiche schierate in Europa orientale; allo smantellamento, nei primi anni '60, dei primi missili americani a raggio intermedio 'Thor' e 'Jupiter'; alla riduzione complessiva, misurata in megaton, della potenza distruttiva delle armi nucleari americane; alla moratoria degli esperimenti nucleari sovietici tra l'agosto 1985 e il febbraio 1987. E così via. Certo, ciascuna di queste decisioni e di altre analoghe aveva una sua motivazione tecnica o politica indipendente dalla necessità di sviluppare la distensione tra est e ovest. Resta comunque il fatto che iniziative unilaterali di disarmo, grandi e piccole, vengono prese continuamente; perciò la scelta di procedere a tali iniziative in modo più consistente non rappresenta necessaria
mente una inversione di 180 gradi.
iii. Esistono naturalmente settori in cui iniziative unilaterali di disarmo sono più possibili di altre e ciò è vero per fattori sia militari che politici. Se si auspica che un numero sempre più alto di iniziative unilaterali contribuisca al disarmo, è necessario uno sforzo per determinare quali di queste iniziative siano più praticabili.
Proprio per poter comprendere quali iniziative unilaterali siano più praticabili discuteremo brevemente il ruolo che svolgono i vari tipi di sistemi d'arma nucleari che sono presenti in Europa occidentale, e in Italia in particolare. Tra questi abbiamo armi cosiddette eurostrategiche, che comprendono missili e bombardieri a medio raggio; armi nucleari tattiche, che includono armi per aerei a corto raggio d'azione, proiettili di artiglieria atomica, missili terra-terra a corto raggio, missili antiaereo, mine atomiche. Quindi abbiamo varie categorie di armi navali, dove anche qui conviene distinguere tra armi tattiche (missili antinave e armi atomiche antisommergibile) e missili cruise lanciati dal mare (SLCM, 'Sea Launched Cruise Missile') che svolgono e svolgeranno una funzione strategica o eurostrategica.
Per completare il panorama sulle armi nucleari in Europa, bisognerebbe poi tener conto dei limitati arsenali nucleari (francese e britannico) nonché della presenza in Europa di armi americane classificate come strategiche (ad es. sottomarini con missili nucleari a lungo raggio d'azione - SSBN con SLBM). Siccome in questo lavoro siamo interessati soprattutto alla possibilità di iniziative unilaterali che coinvolgano più direttamente l'Italia, escluderemo dalla nostra trattazione le armi britanniche e francesi e le armi cosiddette strategiche.
2. Armi nucleari tattiche
Per armi nucleari tattiche intendiamo in modo generico quei sistemi d'arma con un raggio d'azione inferiore ai 1000 km. Le armi nucleari tattiche hanno sempre costituito, numericamente, la componente più consistente dell'arsenale nucleare collocato nei paesi europei della NATO, e questo è vero anche per ciò che riguarda l'Italia.
Le motivazioni per l'introduzione delle armi tattiche risalgono agli inizi degli anni '50 e più precisamente al progetto 'Vista' sviluppato al 'California Institute of Technology', sotto la direzione di R.J. Oppenheimer (9). Lo scopo del Progetto 'Vista' era quello di dimostrare che era possibile utilizzare le armi nucleari come strumenti bellici utili a vincere la guerra sul campo di battaglia e non solo come armi di distruzione di massa. Oppenheimer si proponeva in particolare di convincere politici e militari che l'uso più appropriato dell'energia nucleare in guerra era connesso alla creazione di bombe atomiche piccole e diversificate, che fossero in grado in diverse circostanze di migliorare drasticamente la capacità bellica convenzionale. Come corollario di questo approccio si sarebbe dovuto rinunciare alla costruzione della cosiddetta superbomba, ovvero della bomba H (a fissione-fusione-fissione).
La superbomba fu comunque costruita, nonostante il parere contrario di Oppenheimer. La proposta di costruire bombe piccole, cioè tattiche, venne invece accettata e, a partire dal 1951, vennero sperimentate bombe di energia inferiore al kiloton. Esercitazioni militari con l'uso di armi nucleari destinate al campo di battaglia si tennero a partire dal 1953. In particolare il 22 aprile di quell'anno, in una esercitazione a Yucca Flat (Nevada), venne fatta esplodere una testata nucleare di bassa energia e, successivamente, vennero fatti passare dei soldati sul luogo dell'esplosione, per conquistare un ipotetico obiettivo in territorio nemico (10).
Il campo di battaglia ideale per le nuove armi nucleari tattiche americane era naturalmente l'Europa ed è infatti qui che queste armi vengono schierate a partire dall'ottobre 1953. Le prime ad essere installate sono le testate nucleari per i cannoni, i missili cruise del tipo 'Regulus' e i missili balistici a corto raggio d'azione del tipo 'Honest John'. Il numero delle armi nucleari americane tattiche installate in Europa cresce fino ad un massimo di 7000 unità, che viene raggiunto nella metà degli anni '60. Successivamente, nel 1980, vengono ritirate circa 1000 testate tattiche e nel 1983 i ministri della Difesa della NATO, riuniti a Montebello (Canada), concordano una ulteriore riduzione di 1400 unità. Entrambe queste riduzioni dell'arsenale di armi nucleari tattiche americane installate in Europa, sono esempi di iniziative unilaterali.
Le motivazioni per la presenza delle armi nucleari tattiche è sempre stata basata sulla possibilità di compensare, con l'uso di armi nucleari, una eventuale inferiorità convenzionale. Per dirla con l'allora (1954) comandante supremo della NATO, il generale americano Gruenther: "Abbiamo deciso che la nostra strategia richiede l'uso delle armi atomiche, sia che il nemico le usi, sia che non le usi; noi dovremo usare le armi atomiche per correggere lo squilibrio tra le loro forze e le nostre e per ottenere la vittoria" (11).
Queste argomentazioni non sono molto cambiate dal 1954; la loro validità può essere solo dimostrata rispondendo positivamente a due interrogativi.
1. Esiste realmente una inferiorità convenzionale della NATO?
2. L'uso di armi nucleari sul campo di battaglia permetterebbe effettivamente di rovesciare le sorti, in caso di difficoltà gravi della NATO?
Discuteremo per primo il punto 2, ovvero assumeremo come dato di fatto l'esistenza di una inferiorità convenzionale della NATO nei confronti del Patto di Varsavia (salvo ritornare in seguito su questo punto), ed esamineremo il possibile ruolo delle armi nucleari tattiche sul campo di battaglia. La prima considerazione da fare è che le armi nucleari tattiche sono armi nucleari. Questa affermazione, un po' provocatoriamente tautologica, vuol significare che l'uso di armi nucleari tattiche, ancorché limitato nella potenza esplosiva impiegata, nel numero di testate che verrebbero fatte esplodere e nell'area geografica interessata, farebbe superare la cosiddetta soglia nucleare. E questo superamento avrebbe certamente un effetto politico e psicologico, ancor più che militare, assai significativo. La nazione, le cui truppe fossero state attaccate con armi nucleari, si sentirebbe probabilmente legittimata a rispondere con le stesse armi e in modo non necessariamente finalizzato a limitare i danni al nemico e quindi
a limitare l'escalation. E' lecito aspettarsi che ci sarebbero forti pressioni politiche (comprese quella della pubblica opinione) per una rappresaglia nucleare. E l'idea di poter contenere la rappresaglia e la controrappresaglia, ovvero l'idea di poter realizzare l' 'escalation dominance', presuppone uno straordinario coordinamento tra forze belligeranti, cosa assai improbabile nella confusione di un conflitto.
Ma gli effetti psicologici di un attacco nucleare con armi tattiche non sarebbero, con tutta probabilità, limitati alle forze che sono oggetto dell'attacco. Non è necessariamente detto che il morale e la capacità di combattimento delle forze armate, da cui è partita la decisione di usare le armi nucleari per prime, siano particolarmente rafforzati da questa decisione. Al contrario è ragionevole ritenere che l'idea di dover combattere in un ambiente già nuclearizzato per l'esplosione delle proprie bombe e la prospettiva di doversi aspettare una rappresaglia nucleare, non migliorerebbero certo la capacità di combattimento delle truppe.
Quindi una risposta nucleare limitata, con un piccolo numero (12) di armi tattiche, non avrebbe probabilmente un effetto positivo sulle sorti del conflitto. In questo argomento abbiamo, tra l'altro, trascurato i danni cosiddetti collaterali alla popolazione civile, che certamente devono essere tenuti in considerazione, se si discutono le possibili conseguenze di un attacco nucleare con armi tattiche (13).
Abbiamo discusso sulle possibili conseguenze dell' 'uso' di armi nucleari tattiche in un conflitto che nasce come conflitto convenzionale. Possiamo ora esaminare le conseguenze della 'presenza' di armi tattiche in una zona dove esiste il rischio di un coinvolgimento militare convenzionale.
La distinzione di cui sopra merita di essere approfondita. Si può benissimo concordare sul fatto che un eventuale uso di armi tattiche creerebbe, con buona probabilità, una situazione di escalation incontrollata e pure ritenere che è proprio la presenza di armi tattiche, con il rischio di conflitto generalizzato che potrebbe derivare dal loro uso, a dissuadere l'avversario dall'intraprendere azioni militari, anche solo con forze convenzionali.
Questo discorso si inquadra in un dibattito che è vecchio quanto l'invenzione della bomba atomica. Il dibattito riguarda il significato di una concezione 'tripwire' delle armi nucleari, ovvero di un punto di vista che vede la minaccia dell'uso di armi nucleari come un deterrente assoluto, da usarsi nel caso di ogni tipo di minaccia avversaria. Il rischio di conflitto totale impedirebbe cioè la più piccola aggressione. Il pericolo è però quello di trasformare ogni piccolo incidente di frontiera in una catastrofe. Proprio con questa motivazione la NATO aveva, all'inizio degli anni '60, abbandonato la strategia della "rappresaglia massiccia" per passare alla strategia della "risposta flessibile".
Dunque l'installazione delle armi nucleari tattiche e, particolarmente, di quelle da campo di battaglia, è avvenuta con motivazioni che datano dalla metà degli anni '50 e che erano giustificate nel quadro della strategia della rappresaglia massiccia. I tentativi successivi di inserire la presenza di queste armi in un contesto strategico differente (14), non ha però eliminato la caratteristica principale di queste armi, cioè il fatto che sono destinate ad una nuclearizzazione precoce del conflitto. E' giustamente famoso, in questo contesto, il dilemma dell' 'use them or loose them', ovvero il dilemma che dovrebbe affrontare un comandante NATO, in possesso di armi nucleari, che si trovasse in difficoltà con il nemico. Dovrebbe decidere se lanciare precocemente le armi tattiche o correre il rischio di perderle nella battaglia. Un altro argomento che mette in luce la pericolosità delle armi nucleari tattiche riguarda la necessità di rendere le varie unità in possesso di armi nucleari, in grado di poter usare que
sto tipo di armi al momento giusto. Siccome non è ragionevole mandare un'unità in battaglia, senza darle l'autorizzazione ad usare le proprie armi, questo significa che, in caso di crisi o di microconflitti, ci saranno pressioni per dare una autorizzazione anticipata all'uso delle armi nucleari ai vari comandanti di campo. E questo, a sua volta, potrebbe accelerare l'escalation incontrollata.
Possiamo ora tornare al primo interrogativo che ci eravamo posti e cioè al problema dell'esistenza o meno di una inferiorità convenzionale della NATO. Consultando i maggiori annuari internazionali, ci si rende immediatamente conto che sia le forze che gli armamenti del Patto di Varsavia sono numericamente molto superiori alle forze e agli armamenti NATO collocati in Europa. Il punto è però quello di comprendere che il confronto numerico non è l'unico criterio che deve essere tenuto in conto. In particolare bisogna considerare che, per effettuare con successo un attacco è necessario avere, soprattutto nei punti di sfondamento, un rapporto numerico con le forze di chi si difende che è di molto superiore ad 1:1. Ovvero la posizione di chi si difende è generalmente più avvantaggiata di quella dell'attaccante. Inoltre bisogna tener conto del fatto che lo sviluppo di nuove tecnologie negli armamenti convenzionali (armi di precisione guidate, sensori, ecc.) ha fornito strumenti che possono ulteriormente avvantaggia
re la difesa rispetto all'offesa. In conclusione, se lo scopo della NATO è, come dichiarato, esclusivamente quello di difendersi, è ragionevole ritenere che l'Alleanza non sia in una posizione di inferiorità sostanziale nei confronti del Patto di Varsavia (15). Inoltre è possibile studiare dei modi in cui le capacità difensive della NATO possano essere accresciute, senza che questo implichi anche un aumento delle capacità offensive. Ovvero si possono studiare delle strutturazioni complessive delle forze convenzionali, che diano a queste forze una configurazione prevalentemente difensiva. Ciò vale ovviamente anche per il Patto di Varsavia. Questo tipo di ristrutturazione e modifica di orientamento delle forze convenzionali è un altro importante campo in cui sono praticabili ed auspicabili iniziative unilaterali (16).
Vediamo adesso alcune considerazioni specifiche per l'Italia. L'uso di armi tattiche e in particolare l'uso di armi da campo di battaglia è previsto per contrastare un'ipotetica invasione sul fronte nord-est. Su questo fronte non esistono lontanamente le difficoltà che si possono incontrare nella pianura tedesca: la configurazione orografica rende molto più difficile che in Germania la concentrazione di truppe corazzate nemiche (17) ed inoltre l'Italia non confina direttamente con nessun paese del Patto di Varsavia.
La presenza di depositi di armi nucleari sparsi per l'Italia, costituisce probabilmente più un rischio in tempo di pace - si tenga presente il pericolo terrorista o la possibilità di incidente (18) - che un possibile vantaggio in tempo di conflitto. Si noti ancora, a questo proposito, che in Italia sono schierate anche testate nucleari destinate alle forze di altri paesi della NATO.
Altri elementi da tenere in considerazione, per quanto riguarda la presenza di armi nucleari tattiche in Italia, sono: il fatto che alcune di queste armi sono particolarmente 'obsolete' (missili antiaerei 'Nike-Hercules', proiettili di artiglieria atomica, mine atomiche (19) ) e la relativa poca chiarezza sulle modalità di impiego delle armi tattiche (29).
Le iniziative assunte dalla NATO per la riduzione delle armi nucleari tattiche sono state in passato esclusivamente iniziative unilaterali. Tenendo conto di ciò e tenendo conto dei rischi connessi alla loro presenza contrapposti alla limitata, se non nulla, 'utilità' militare, si può ritenere che quello delle armi nucleari tattiche è forse il terreno più promettente per lo sviluppo di iniziative unilaterali della NATO e anche per un ruolo più deciso da parte dell'Italia in questa direzione.
3. Armi a raggio intermedio (21)
La prima installazione di missili americani a raggio intermedio in Europa risale alla fine degli anni '50. Ci riferiamo ai missili 'Thor' e 'Jupiter' che furono collocati in Gran Bretagna, Turchia e Italia. Questi missili (che avevano un raggio d'azione di circa 2400 km) vennero smantellati entro il 1963 per due ragioni: perché i missili intercontinentali balistici erano in grado di svolgere il ruolo che veniva in precedenza assegnato ai missili a medio raggio e perché, dopo la crisi di Cuba del 1962, lo smantellamento di questi missili era uno dei compromessi che gli americani erano disposti ad accettare per ripristinare un normale 'modus vivendi' con i sovietici. Nonostante ciò la decisione di eliminare i missili 'Thor' e 'Jupiter', non essendo dovuta a nessun accordo specifico con la controparte sovietica, può a ragione essere considerato un atto unilaterale.
Il problema dei missili a raggio d'azione intermedio si ripropone per l'Europa con l'introduzione degli SS-20 sovietici. Una interessante descrizione delle motivazioni sovietiche che furono alla base della decisione di installare gli SS-20 è data da Raymond Garthoff (22). Garthoff ricorda che la decisione di procedere allo spiegamento degli SS-20 sovietici aveva i seguenti presupposti.
1. Il riconoscimento che gli Stati Uniti avevano deciso di non voler trattare con l'Urss la questione delle forze intermedie basate in Europa. In questo senso i sovietici vedevano gli SS-20 come una sorta di risposta naturale alle cosiddette basi avanzate americane.
2. La necessità di sostituire forze nucleari obsolete, vulnerabili, di grande energia distruttiva, e lente (perché a combustibile liquido) quali gli SS-4 e gli SS-5 con forze nucleari che avessero le caratteristiche opposte. E la limitata vulnerabilità, la mobilità, la riduzione dell'energia distruttiva e del carico utile, nonché la maggiore affidabilità erano tutte caratteristiche dei sistemi d'arma che, nel corso delle trattative SALT, erano state valutate dagli americani come elementi positivi per il mantenimento della stabilità strategica. Il fatto poi che le testate degli SS-20 erano multiple, veniva considerato dai sovietici come un fatto niente affatto provocatorio, visto che erano stati gli americani a richiedere, nelle trattative SALT, di limitare il numero dei sistemi di lancio e non delle testate.
Da parte di alcuni esponenti politici europei (ad esempio l'allora cancelliere tedesco Helmut Schmidt) si sottolineava con preoccupazione la presenza di nuovi armamenti sovietici che non veniva discussa in nessun foro contrattuale (le trattative SALT riguardavano esclusivamente le armi strategiche). Questo fatto, insieme con la proposta americana di installare in Europa le nuove armi a radiazione intensificata (bombe N), poteva dare l'impressione che gli Stati Uniti fossero preoccupati solo di contenere la competizione militare nel campo delle armi utilizzabili per uno scontro diretto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ovvero rialzava il vecchio spettro dell'Europa come teatro di una possibile guerra nucleare limitata. La soluzione di questi problemi non doveva necessariamente trovarsi nell'installazione di nuovi sistemi d'arma in Europa, quanto nello stabilirsi di un nuovo equilibrio eurostrategico, da perseguirsi possibilmente con la ricerca di accordi per la riduzione degli armamenti. Schmidt, per esempi
o, non propose certo, inizialmente, l'installazione di nuovi sistemi d'arma.
Gli Stati Uniti, d'altra parte, dopo un periodo di relativa freddezza di fronte a questo tipo di problematica, spinsero decisamente per risolvere la questione, installando nuovi sistemi d'arma nucleari in Europa. Le motivazioni di questa scelta possono ricercarsi nell'impegno americano a consolidare la propria leadership sull'Europa occidentale, che era stata messa in dubbio da certi atteggiamenti dell'amministrazione Carter, dalla volontà di uscire dall' 'impasse' della controversia sulla bomba al neutrone, dalla consapevolezza che una riapertura del dialogo con i sovietici, sulla questione dei missili di teatro, avrebbe presentato considerevoli difficoltà e infine anche dalle pressioni di chi, all'interno delle forze armate e delle industrie della difesa, vedeva più vantaggiosa una nuova installazione di sistemi d'arma.
La storia della installazione degli euromissili è troppo nota per essere ripresentata qui. Lo scopo delle considerazioni di prima non era infatti quello di fare una brevissima cronistoria, quanto quello di evidenziare la catena di percezioni e false percezioni, di motivazioni politiche e di interessi particolari che hanno condotto all'installazione degli euromissili. Soprattutto i missili stessi sono diventati una sorta di simbolo politico destinato a rappresentare, ad esempio, la coesione dei paesi della NATO o l'affermazione della leadership americana o la risolutezza verso l'Unione Sovietica. Questa, dal canto suo, ha completamente sottostimato gli effetti politici e psicologici della installazione degli SS-20 e il fatto che questa installazione sarebbe stata percepita come una minaccia militare e, allo stesso tempo, politica.
Naturalmente le motivazioni per l'installazione dei missili cruise e 'Pershing II' che sono state presentate alla pubblica opinione dell'Europa occidentale non si basavano sulla necessità di avere dei simboli politici a forma di missile nucleare. Al contrario, queste motivazioni erano centrate su articolate necessità militari e principalmente sulla necessità di mantenere l'accoppiamento ('coupling') tra difesa dell'Europa e difesa degli Stati Uniti. Il ragionamento va più o meno così: se l'Unione Sovietica attaccasse l'Europa, questa risponderebbe con i missili nucleari basati sul proprio territorio; poiché questi missili possono colpire l'Urss, e poiché l'Urss, di fronte ad un attacco nucleare che coinvolgesse il proprio territorio, risponderebbe con un attacco nucleare contro gli Stati Uniti. In questo modo i missili cruise e 'Pershing II' diventano una sorta di 'polizza di assicurazione' contro il rischio di guerra nucleare limitata all'Europa.
Non sembri questa una eccessiva banalizzazione del problema: la sostanza delle argomentazioni a sostegno della necessità di rafforzare il 'coupling' segue proprio la descrizione precedente. Quello che non viene tenuto in conto, in questo tipo di argomentazioni, è il fatto che gli Stati Uniti, mantenendo il controllo totale delle testate, potrebbero rifiutarsi di lanciarle se il loro lancio dovesse coinvolgerli in un conflitto totale in cui non vogliono entrare. Quindi non c'è affatto l'automatismo tipico di una polizza di assicurazione. Più semplicemente, si potrebbe sostenere che la presenza di nuove armi, rappresentando una dimostrazione visibile di maggiore risolutezza nella propria difesa, e di maggiore volontà di intimidazione dell'avversario, costringe quest'ultimo ad un atteggiamento meno aggressivo. La realtà non sembra confermare questo punto di vista, come dimostra, ad esempio, il fatto che la presenza degli SS-20 non ha certo intimidito la NATO. In generale, parlando di confronti tra potenze nucle
ari, la volontà di intimidire l'avversario può mettere in moto meccanismi pericolosi; basti, a questo proposito, ricordare quanto diceva Herman Kahn, cioè che il probabile inizio di un conflitto nucleare sarebbe stato la conseguenza di un 'chicken game' giocato una volta di troppo (23).
Veniamo ora alla discussione sulle prospettive di iniziative unilaterali nel campo delle armi nucleari a raggio intermedio. Anche se è risultato abbastanza chiaro che non esistono motivazioni militari impellenti per il mantenimento dei missili a medio raggio basati in Europa, questo non significa necessariamente che è facilmente perseguibile una iniziativa unilaterale di disarmo in questo settore. Le ragioni di ciò sono ovviamente politiche: la decisione di installare gli euromissili ha rappresentato, in Europa occidentale, un momento di grande tensione politica, ha stimolato la crescita di un importante movimento per la pace, ha creato fratture tra governi e opinione pubblica e tra governo e governo all'interno della NATO. E' quindi abbastanza comprensibile che, senza una fortissima pressione dell'opinione pubblica (cosa che sembra piuttosto improbabile in questo momento), nessun governo dell'Europa occidentale può essere interessato a ridiscutere il problema degli euromissili, proponendo soluzioni unilater
ali. Allo stesso modo nessuna forza politica, dopo aver sostenuto per anni che esisteva una necessità 'oggettiva' militare per questo tipo di missili, sarebbe disposta oggi a perdere la faccia e a sostenere che degli euromissili possiamo benissimo fare a meno. Si è infatti arrivati all'assurdo che diversi governi dell'Europa occidentale sono scettici di fronte alla possibilità di accettare quella stessa opzione zero che era stata sostenuta all'inizio degli anni '80 dalla NATO e che ora viene ripresentata da Gorbaciov. Ovvero, paradossalmente, tra gli obiettivi di oggi c'è quello di ritornare indietro alle posizioni di Reagan del 1981!
In conclusione, l'esempio dei missili a raggio intermedio mostra che la possibilità di azioni unilaterali è sottoposta a vincoli politici e psicologici, prima ancora che militari. E' certamente più facile che si sviluppino iniziative unilaterali in campi in cui il simbolismo politico non sia la preoccupazione dominante. Ovvero è molto più facile pensare ad azioni indipendenti di disarmo in settori in cui tali azioni non verrebbero necessariamente interpretate come un mutamento brusco di direzione politica.
4. Armi nucleari navali
Accanto ai missili nucleari a lungo raggio d'azione collocati sui sottomarini SSBN, esistono numerosi altri tipi di armi nucleari navali. Così, anche nel caso delle armi navali si può distinguere tra armi tattiche e strategiche. Le prime comprendono armi anti-nave o anti-sommergibile, bombe di profondità e missili destinati a colpire aerei, obiettivi in terra ferma (nel caso degli Stati Uniti, i missili anti-nave e anti-sommergibile sono gli ASROC e SUBROC, mentre i missili che possono colpire aerei, obiettivi a terra e anche navi, sono i 'Terrier' destinati ad essere sostituiti dagli 'Standard' (24) ). Le armi strategiche comprendono i missili a lungo raggio lanciati da sottomarini nucleari e di questi non ci occuperemo in questo contesto. Adesso esiste però anche una 'zona grigia' di armi nucleari navali, che cancella la distinzione tra armi tattiche e armi strategiche. Si tratta dei missili cruise lanciati dal mare: questi saranno installati su piattaforme che oggi portano le armi tattiche, ma, tenendo co
nto del loro raggio d'azione, svolgeranno un ruolo strategico.
Nella flotta americana esiste dunque una confusione tra sistemi tattici e strategici e, oltre a ciò, una confusione tra forze nucleari e convenzionali, dovuta sia alla presenza di sistemi d'arma a doppia capacità, sia al fatto che la politica americana è quella di non dichiarare se le proprie navi hanno a bordo armi nucleari o meno (25). Queste ambiguità potrebbero contribuire ad accrescere lo stato di tensione in una crisi e quindi facilitare l'inizio del conflitto.
Ci sono altri aspetti che riguardano la pericolosità delle armi nucleari navali che è opportuno sottolineare. Ad esempio, si può far notare che le navi rappresentano un obiettivo nucleare ideale, se si tiene conto della grande efficacia delle armi nucleari e della limitazione dei danni collaterali. Una nave è un obiettivo facile, definito e limitato; la polazione civile non verrebbe coinvolta gravemente in un eventuale attacco nucleare navale. Quindi il lancio di una testata nucleare contro una nave avversaria potrebbe risultare come il primo e più facile gradino dell'escalation. Detto in altri termini, in una situazione di crisi con due flotte contrapposte dotate di armi nucleari, vi sarebbero, con tutta probabilità, forti pressioni per portare avanti un attacco di anticipazione ('preemption') (26).
Per quanto riguarda il Mediterraneo, occorre aggiungere che la presenza contemporanea della flotta americana e di quella sovietica in un mare di limitata estensione geografica, con forti tensioni sociali e politiche tra i paesi rivieraschi, aumenta notevolmente il rischio connesso alla presenza di armi nucleari navali. Un intervento diretto, in alcuni di questi paesi, della flotta americana (o sovietica) non è certamente impensabile e la presenza di armi nucleari a bordo delle navi aggiungerebbe certo un elemento di grave incertezza e tensione.
A tutto ciò deve poi aggiungersi il fatto che esiste una notevole ambiguità nei criteri che dovrebbero regolare l'uso delle armi nucleari navali tattiche. A proposito della strategia nucleare navale americana, è stato scritto: "La marina ha sviluppato molto poco la sua dottrina, strategia e politica riguardo l'uso delle sue capacità in fatto di armi nucleari tattiche. Inoltre non ci sono praticamente esercitazioni per il combattimento sia in supporto ad un conflitto nucleare di teatro, sia in una guerra nucleare limitata all'oceano, o in una guerra nucleare generale. Ci sono pochissimi studi su tale combattimento e sui problemi che presenta" (27).
Passiamo ora a considerare le possibili azioni unilaterali nel campo delle armi nucleari navali. Alcune di queste iniziative possono comprendere l'eliminazione o la riduzione delle armi tattiche o la decisione di ridurre o eliminare i missili da crociera lanciati dal mare. Tutto ciò può essere opportunamente accompagnato da 'confidence-building measures', quali la creazione di 'santuari' per varie categorie di vascelli (specialmente per gli SSBN), lo stabilimento di un codice di comportamento che riduca sempre di più le possibili occasioni di confronto in mare, ecc.
Per quanto riguarda la presenza di armi nucleari navali nel Mediterraneo, è certamente possibile ed auspicabile l'eliminazione immediata delle armi nucleari tattiche. Come pure è necessario frapporsi alla ulteriore nuclearizzazione del Mediterraneo che deriverà dalla presenza di SLCM a bordo di navi e di sottomarini. Le preoccupazioni che riguardano il Mediterraneo non riguardano ovviamente solo il confronto tra le due alleanze ma anche, e forse soprattutto, l'interrelazione tra le due alleanze e i vari paesi rivieraschi. L'Italia potrebbe, in questo contesto, dare il proprio contributo alla distensione nell'area, se fosse in grado di premere sulla NATO per evitare la presenza nel Mediterraneo di navi con SLCM.
Anzi è certamente possibile sviluppare anche iniziative dei singoli paesi e non necessariamente iniziative collettive di schieramento. L'esempio della Nuova Zelanda ha mostrato che anche un piccolo paese ha la possibilità di opporsi alla decisione americana di non voler dichiarare se una certa nave trasporta armi nucleari o no. E questo è un esempio che, con tutte le cautele del caso, può essere seguito. L'Italia potrebbe creare dei vincoli speciali per l'attracco nei propri porti di navi con armi nucleari a bordo. A meno che non ritenga che la presenza nell'isola della Maddalena di sottomarini con missili cruise lanciati dal mare rafforzerebbe il suo ruolo nella regione. La stessa esperienza della vicenda di Sigonella (28) ha, pur nel suo piccolo, dimostrato che l'opinione pubblica italiana è disposta a sostenere scelte e prese di posizione che non necessariamente riflettono le scelte e le posizioni americane sui problemi del Mediterraneo.
5. Conclusioni
In questa brevissima panoramica sulle forze nucleari in Europa, abbiamo cercato di evidenziare la possibilità di azioni unilaterali a diversi livelli. Nel valutare la fattibilità di tali azioni non serve solo esaminare gli aspetti militari del settore in discussione, bisogna tener conto anche degli aspetti connessi alla sua storia politica. Ciò premesso, è ragionevole aspettarsi una maggiore disponibilità a quei gesti unilaterali che possono anche essere rappresentati come una necessaria ristrutturazione. Se le armi nucleari tattiche, navali e non, hanno una assai dubbia utilità militare, la loro eliminazione non rappresenta solo un gesto di buona volontà verso l'avversario, rappresenta anche una positiva riorganizzazione.
Il fatto che certi gesti unilaterali possano risultare utili anche per chi li assume non sminuisce in alcun modo il significato positivo che questi gesti hanno per la distensione. Eliminazione di armi obsolete, caratterizzazione sempre più orientata in senso difensivo delle proprie forze, promozione di 'confidence-building measures', restano, 'nonostante' la loro funzione razionalizzatrice, strumenti per una maggiore collaborazione tra i due blocchi.
Un aspetto che è stato discusso solo marginalmente riguarda la fattibilità di gesti unilaterali portati avanti da uno dei blocchi come contrapposti a quelli portati avanti da un singolo paese. Anche se è vero che le azioni promosse da una alleanza hanno un peso ed un significato diverso e non aumentano la 'temperatura' globale, esasperando tensioni interalleate, questo non significa che azioni o pressioni di una singola nazione siano intrinsecamente più rischiose. Anzi è stato sostenuto che un certo tipo di azione di pace nel Mediterraneo può richiedere azioni e pressioni indipendenti dei membri delle alleanze, ed in particolare dell'Italia.
Una nota finale a proposito delle iniziative unilaterali riguarda le attese di contraccambio. La storia della corsa agli armamenti è abbastanza ricca di episodi di grandi o piccole concessioni unilaterali non seguite da reciprocità, con conseguente rilancio della corsa agli armamenti. Si pensi ad esempio alle vicende che precedettero il trattato sulla limitazione degli esperimenti nucleari atmosferici.
Una caratteristica fondamentale di un buon passo unilaterale è dunque quella di rappresentare una buona scelta in sé, indipendentemente da una più o meno immediata risposta. Per questo, come si diceva prima, hanno proprio più probabilità di riuscita quegli atti unilaterali che hanno un significato positivo anche (e forse soprattutto) per chi li attua.
NOTE
1. Cfr. U.S. National Academy of Sciences, 'Nuclear Arms Control. Background and Issues', National Academy Press, Washington DC, 1985, p. 3 e appendici.
2. Cfr. M. Krepon, "Deep Cuts", in Arms Control Association, 'Nuclear Arms Control. Options for the 1980's', stampato in proprio, Washington DC, 1982 e "Assessing Strategic Arms Reduction Proposals", 'World Politics', gennaio 1983.
3. Sull'argomento cfr. L. Ruehl, 'MBFR: Lessons and Problems', Adelphi Paper n. 166, IISS, London, 1982.
4. Cfr. U.S. National Academy of Sciences, 'op. cit.', p. 21.
5. In generale su questo argomento cfr. R.L. Garthoff, 'Detente and Confrontation', The Brookings Institution, Washington DC, 1985.
6. Sull'argomento cfr. P.C. Warnke, "The Illusion of NATO's Nuclear Defense", in A.J. Pierre (a cura di), 'Nuclear Weapons in Europe', Council on Foreign Relations, New York, 1984.
7. Si potrebbe facilmente criticare l'uso del termine "effettivo" in questo tipo di argomentazione. Cos'è la rilevanza "effettiva" o la pericolosità "effettiva"? Qui non si vuole sostenere l'esistenza di valutazioni oggettive, accettate o accettabili 'in toto' da esperti di ogni formazione e con ogni punto di vista. Si vuole solo evidenziare la possibilità di una divaricazione tra le percezioni medie dell'opinione pubblica o di settori di essa da una parte, e un corpo, magari vasto e in parte disomogeneo di opinioni di esperti, dall'altra. Su queste questioni, comunque, cfr. W.H.F. Panofsky, "Science, Technology and the Arms Race", 'Physics Today', giugno 1981.
8. Su questo punto cfr. A.S. Krass, 'Verification: How Much Is Enough?', Taylor Francis, London Philadelphia, 1985.
9. Cfr. R. Gilpin, 'American Scientists and Nuclear Weapons Policy', Princeton U.P., Princeton 1961, pp. 113-21.
10. Cfr. R.E. Osgood, 'The Entangling Alliance', The University of Chicago Press, Chicago 1962, p. 126. Si immaginano naturalmente le conseguenze mediche che hanno subito i soldati che parteciparono a quella esercitazione.
11. Citato in R.E. Osgood, 'op. cit.', p. 109.
12. Nella NATO le armi nucleari vengono raggruppate in 'package'. Ciascuno di questi contiene minimo qualche decina di armi nucleari. In linea di massima il 'package' è il più piccolo insieme di armi nucleari di cui viene autorizzato il lancio in un conflitto. Tuttavia, una esperta americana ha recentemente scritto di "autorità di...usare le armi nucleari in 'package', 'o altrimenti'" (nostro corsivo). C. McArdle Kelleher, "NATO Nuclear Operations", in A.B. Carter, J.D. Steinbruner, C.A. Zraket (a cura di), 'Managing Nuclear Operations', The Brookings Institution, Washington DC, 1987, p. 462.
13. E' nota a questo proposito l'esercitazione della NATO denominata 'Carte Blanche' del 1955, in cui venne simulata l'esplosione di 355 bombe nucleari tattiche, che provocò l'ipotetica morte di 1.500.000 di persone.
14. Si pensi, ad esempio, al campo di battaglia "integrato", cioè convenzionale-nucleare-chimico della dottrina d'impiego attuale dell'esercito americano 'Airland Battle'.
15. A questo proposito cfr. J.J. Mearsheimer, "Why the Soviets Can't Win Quickly in Central Europe", 'International Security', estate 1982. Si veda pure il capitolo 5 di questo stesso volume.
16. Su queste questioni confonta il saggio di A. von Mueller in questo stesso volume. Dello stesso autore si veda pure "Structural Stability at the Central Front", in P. Cotta-Ramusino, F. Lenci (a cura di), 'Le armi nucleari e l'Europa', Scientia, Milano, 1986.
17. Uno degli argomenti che più vengono portati in Germania a sostegno della presenza di armi nucleari da campo di battaglia è che queste impedirebbero la concentrazione di truppe corazzate sovietiche. Sia detto tra parentesi, in questo argomento l'arma nucleare viene vista semplicemente come uno strumento di intimidazione del nemico e mai vengono tenute in conto le conseguenze degli effetti dell'uso di tali armi o la possibilità che l'Urss decida di 'vedere' smascherando il 'bluff' della NATO.
18. Particolare preoccupazione destano le armi che sono in allarme permanente, ovvero che sono destinate ad essere impiegate solo con un preavviso di poche decine di minuti. I termini generali relativi alle modalità e alle procedure di impiego di queste armi non sembrano essere ben chiari all'opinione pubblica e agli organi istituzionali come il parlamento.
19. Questi sono i tipi di arma di cui è o dovrebbe essere prevista l'eliminazione a seguito della decisione di Montebello. Tuttavia nel giugno 1987 risultavano ancora esistenti, nell'arsenale americano, 300 mine atomiche (W54: 'Special Atomic Demolition Munitions') e 75 'Nike-Hercules' (questi ultimi assegnati alle forze NATO). Cfr. "Nuclear Weapons Stockpile, June 1987", 'The Bulletin of the Atomic Scientists', giugno 1987. G. Manners sostiene tuttavia che già nel 1986 sono state ritirate dall'Europa tutte le mine atomiche. Cfr. "SACEUR's Plan for Nuclear Stockpile", 'Jane's Defence Weekly', 25 ottobre 1986.
20. Su questo punto cfr. P. Cotta-Ramusino, "Armi nucleari tattiche in Europa", in Cotta-Ramusino e Lenci, 'op. cit.'.
21. Anche in questo caso è bene avvertire che il presente capitolo è stato redatto dall'autore prima dell'accordo Usa-Urss dell'8 dicembre del 1987 sulla eliminazione dei missili a raggio intermedio e più corto (nota del curatore).
22. Cfr. 'Detente and Confrontation', cit.
23. Cfr. H. Kahn, 'On Escalation', Praeger, New York, 1965, p. 14. Il gioco del pollo ('chicken game') è quello che vede di fronte due piloti lanciati uno contro l'altro: perde chi si toglie dalla traiettoria di collissione per primo. Nel contesto degli equilibri nucleari, la metafora viene impiegata per sottolineare i rischi che si corrono ad assumere un atteggiamento troppo 'duro' nel corso di una crisi.
24. ASROC e SUBROC sono missili basati rispettivamente su navi di superficie e su sottomarini. I missili ASROC e 'Terrier' sono a doppia capacità, cioè possono essere dotati di testate convenzionali. Sulle armi nucleari navali cfr. D. Ball, "Nuclear Weapons at Sea", 'International Security', inverno 1985/86.
25. Nel 1983 circa un terzo della flotta americana, cioè 190 navi, era autorizzata a portare armi nucleari. Cfr. D. Ball, 'op. cit.'
26. Sul significato del termine cfr. la nota 2 del capitolo 4.
27. J.D. Douglass, A.M. Hoeber, "The Role of the U.S. Surface Navy in Nuclear War", citato in Ball, 'op. cit.'
28. L'11 ottobre del 1985, caccia della Sesta Flotta intercettavano un aereo della compagnia di bandiera egiziana diretto a Tunisi, a bordo del quale si trovavano i dirottatori palestinesi della nave di crociera italiana 'Achille Lauro', sequestrata pochi giorni prima e rilasciata dopo estenuanti trattative e l'uccisione di un passeggero americano. I caccia statunitensi costringevano l'aereo egiziano ad atterrare alla base italiana di Sigonella. A quel punto si verificava un braccio di ferro, che sfiorava lo scontro armato, tra reparti italiani e soldati statunitensi per chi dovesse prendere in consegna i terroristi. Alla fine erano i primi a spuntarla (nota del curatore).