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De Andreis Marco - 1 ottobre 1988
CONSIDERAZIONI SUI PROBLEMI DIFENSIVI ITALIANI
di Marco De Andreis

SOMMARIO: Per poter valutare quali scelte compiere per assicurare la difesa militare di un paese e, eventualmente, quali iniziative prendere in tema di disarmo occorre prima conoscere bene quali sono le eventuali minacce da affrontare. A questo scopo vengono qui analizzate, non diversamente da come fanno gli Stati maggiori, le possibili minacce militari presenti per l'Italia: la minaccia a nord-est ("soglia di Gorizia") e la minaccia proveniente da sud, dall'area del Mediterraneo. A confronto, le forze militari mobilitabili da entrambe le parti. La conclusione cui giunge l'Autore al termine di questa analisi è che esiste uno iato evidente, in Italia, tra gli impegni e le ambizioni dei militari, che sono in crescita, e le minacce militari alla sua sicurezza, che appaiono invece stabili o in via di riduzione. Dunque, se l'analisi delle minacce fosse realmente il metro sul quale viene commensurata la politica di sicurezza, l'Italia potrebbe prendere subito molte delle misure di disarmo unilaterale e multilatera

le di cui si parla nel volume "Quale disarmo", cui questo saggio appartiene.

(Irdisp - Quale disarmo - Franco Angeli editore - Milano - ottobre 1988)

1. Introduzione

Scopo di questo capitolo è abbozzare una valutazione delle minacce militari alla sicurezza dell'Italia, e delle misure difensive messe in atto per farvi fronte. A ciò farà seguito qualche ipotesi di riduzione unilaterale degli impegni militari italiani.

E' dopo aver valutato l'entità delle minacce che la politica di difesa di un paese dovrebbe prender corpo. La conclusione qui raggiunta è che questo avviene da noi solo in parte: la politica di difesa italiana ha una sua propria logica che ha a che fare solo parzialmente con una valutazione 'realistica' delle minacce. Di questo, crediamo, bisogna in qualche modo tener conto, tanto più se si guarda con favore a una prospettiva di disarmo.

In questo capitolo la competizione militare NATO-Patto di Varsavia viene presa in parola: non diversamente da come fanno gli Stati maggiori, si prescinde dalle intenzioni politiche del potenziale avversario (che non è detto siano sempre ostili) e si guarda semplicemente alle capacità di difesa dell'Italia, principalmente nel contesto di una guerra tra i blocchi.

Si dirà che la direttrice est-ovest non è l'unica dalla quale possono provenire attacchi militari - è qualche anno, d'altronde, che il concetto di "minaccia da sud" tiene banco nelle discussioni sulla politica di difesa italiana. Ma, se si prova a definirla meglio questa minaccia da sud, si finisce per trovare o la dimensione aeronavale, mediterranea, di un conflitto NATO-Patto; oppure un qualche paese non-allineato, sempre mediterraneo, che abbia o possa sviluppare motivi di ostilità nei nostri confronti.

In quest'ultimo caso va detto subito che l'unico modo sensato di guardare alla minaccia potenziale per la sicurezza italiana è quello di ipotizzare un uso 'normale' della forza militare. Un uso dei mezzi militari per atti di terrorismo o per scorrerie di vario genere è chiaramente un uso 'anormale': segnala assai più un problema politico che un problema per l'organizzazione della difesa. Contro gli atti di terrorismo c'è ben poco da fare, sul piano della difesa militare. Anzi, pretendere di prepararsi a contrastare militarmente minacce essenzialmente non-militari, significa stravolgere il dibattito sul ruolo delle forze armate. Un errore che qui si proverà ad evitare.

In definitiva, dunque, in questo lavoro si assume che la politica militare italiana ruoti attorno a due possibili minacce: una da nord-est e una dal Mediterraneo. A queste dovrebbero corrispondere, per le nostre forze armate, due missioni difensive: una aeroterrestre, l'altra aeronavale (1).

2. La minaccia a nord-est: la difesa della soglia di Gorizia (2)

Così come accade in altri paesi europei, la stampa italiana ci ha abituati a credere che le nostre difese, in caso di attacco da parte del Patto di Varsavia, resisterebbero per poche ore. Poche ore e poi la rotta. Basta dare un'occhiata anche sommaria alle forze in campo, tuttavia, per trovare tali catastrofiche previsioni decisamente infondate. A parte il problema degli sbarchi sulle nostre coste (3), da dove dovrebbe provenire un attacco del Patto ai confini italiani?

Si ritiene comunemente che esso originerebbe in Ungheria. Il grosso delle forze ungheresi consiste di 1 divisione corazzata e 5 divisioni di fanteria motorizzata (4). Quanto a prontezza operativa, la divisione corazzata e due di quelle di fanteria motorizzata sono considerate di seconda categoria, le tre restanti di terza categoria (5). Hanno in tutto 1200 carri armati T-54/55, che risalgono agli anni '50, e un centinaio di T-72, più moderni. L'aeronautica ungherese schiera 120 vecchi MiG-21, più 10 MiG-23 - tutti nel ruolo di intercettori. I cacciabombardieri sono in tutto 15 (Su-25) e gli elicotteri d'attacco 30 (Mi-24). In Ungheria ci sono anche 2 divisioni corazzate e 2 divisioni di fanteria motorizzata sovietiche (tutte di prima categoria), oltre a 240 aerei da combattimento (6), sempre sovietici.

Se la guerra durasse tanto da consentirlo, il Patto di Varsavia potrebbe dirigere verso il fronte italiano 6-8 divisioni corazzate (di seconda categoria), 4-8 divisioni di fanteria motorizzata (di terza categoria), 1-2 divisioni d'artiglieria, tutte sovietiche, provenienti dal distretto militare di Kiev (7) - in questo distretto l'Urss dispone pure di circa 90 aerei da combattimento. E' chiaro, tuttavia, che la mobilitazione di queste forze di riserva prenderebbe molto tempo e sarebbe assai visibile; così da permettere alla NATO di prendere adeguate contromisure.

Per arrivare al nostro confine, comunque, queste non straordinarie forze del Patto dovrebbero passare attraverso l'Austria e/o la Iugoslavia, dove incontrerebbero una seria opposizione in entrambi i casi (8). Alla fine solo una frazione - che è impossibile prevedere con precisione - di queste forze dovrebbe vedersela con le forze armate italiane. Che, dal canto loro, hanno l'importante vantaggio di conoscere il terreno. Un terreno che sembra fatto apposta per complicare i piani di qualsiasi attaccante.

"La soglia di Gorizia - ha scritto un generale italiano - è l'unica vera rotta d'accesso dall'est alla parte settentrionale del bacino mediterraneo e alla penisola italiana" (9). La soglia di Gorizia coincide più o meno col confine italo-iugoslavo, mentre le Alpi rappresentano una barriera naturale contro un'invasione proveniente dal territorio austriaco. Sulle Alpi, comunque, le cinque brigate alpine dell'esercito italiano trovano il loro terreno naturale d'azione.

Tra Brescia, Padova e Bologna e fino al confine orientale, sono schierate 14 brigate (corazzate, meccanizzate e alpine), più la brigata missilistica e la gran parte delle unità antiaeree dell'esercito. Immediatamente a ridosso, tra la Lombardia e il Piemonte, si trovano altre 4 brigate. Come si vede si tratta del grosso delle nostre forze terrestri: rimangono solo 6 brigate (tra cui una paracadutisti), sparse nel resto della penisola.

Tra il 1975 e il 1985 gli effettivi militari italiani sono passati da 459.000 a 531.000 (10). Parte dell'aumento, forse il 50%, è spiegabile con l'ingrossarsi delle fila nei corpi paramilitari (11). Tuttavia il resto dell'incremento va attribuito all'esercito, le cui 24 brigate sono ora tutte molto vicine al 100% degli effettivi assegnati (12). Inoltre oggi, diversamente da solo dieci anni fa, le unità di campagna sono quasi completamente meccanizzate. Una maggiore mobilità ha consentito di rischierare all'indietro qualcuna di queste unità. Ma anche la mancanza di spazio fisico - la soglia di Gorizia è larga 50 km - deve aver consigliato di introdurre qualche elemento di flessibilità al principio NATO di difesa in avanti. Ancora al 1975 risale l'avvio dei programmi di potenziamento delle tre forze armate, meglio noti come "leggi promozionali". Da allora le spese militari italiane crescono con tassi di incremento molto sostenuti per la media dell'Alleanza. Ciò si è riflesso nella loro incidenza sul Prodotto N

azionale Lordo (PNL), che è passata dal 2,3% del 1976 al 2,7% del 1983 - livello poi stabilizzatosi almeno sino a tutto il 1986. Cosa ancora più importante, la quota destinata all'acquisto di armamenti tende a crescere all'interno del bilancio della Difesa (13).

L'esercito italiano schiera 1110 pezzi d'artiglieria, il numero più alto tra i membri europei della NATO, dopo la Germania federale che ne ha 1227. Tra questi figurano 164 FH-70, un modello d'obice campale da 155 mm dell'ultima generazione, e quasi 300 semoventi M-109/110 (altri ne sono stati ordinati). Anche la linea carri non è trascurabile: 920 'Leopard' 1 e 300 M-60A1, oltre a 500 M-47 (14). Nel settore del trasporto truppe sono state ordinate 2000 blindo leggere 4x4 'Puma' e 600 corazzati VCC-80. Migliaia di miliardi vengono poi investiti nell'acquisto di diversi tipi di armi anticarro, tutte di recente concezione: 'Milan', 'Apilas' e 'Folgore', più 60 esemplari dell'elicottero d'attacco A-129 'Mangusta'.

L'aeronautica, che già dispone di 460 aerei da combattimento sta anch'essa impiegando risorse ingenti nel rinnovamento dei propri mezzi: sono già in linea 64 cacciabombardieri 'Tornado' (su 100 ordinati); è a uno stadio ormai abbastanza avanzato lo sviluppo dell'AM-X, un caccia da appoggio tattico ordinato in circa 240 esemplari; si è iniziata la fase di Ricerca e Sviluppo dell' 'European Fighter Aircraft' (EFA), un consorzio multinazionale cui partecipa anche l'Italia per la sostituzione dei propri intercettori; è a buon punto il programma per l'acquisizione dei missili 'Spada/Aspide', e sta per essere avviato quello dei missili 'Patriot', ambedue rivolti a migliorare la difesa antiaerea delle basi dell'aeronautica.

Considerati nel loro insieme, i dati che abbiamo appena visto lasciano ritenere che le prospettive che le forze aeroterrestri italiane si oppongano con successo a un attacco proveniente da est siano decisamente buone (15). Certo, si tratta di confronti sulla carta, mentre una guerra metterebbe in gioco un gran numero di variabili di impossibile ponderazione. Tuttavia, e per fortuna, il metodo dei confronti sulla carta è quello usato da tutti. Anche da chi pronostica fulminee avanzate sovietiche.

Da ultimo non si possono tralasciare due considerazioni. Primo, non è molto probabile che gli alleati dell'Urss sarebbero disposti ad associarsi a una campagna offensiva sovietica contro l'Alleanza atlantica - e gli ungheresi non fanno certo eccezione. Secondo, e ancor più importante, non è affatto detto che le divisioni di stanza in Ungheria verrebbero impiegate nella assai ardua missione di attraversare la Iugoslavia e invadere l'Italia dal nord-est. Molte analisi dei rapporti di forza tra NATO e Patto di Varsavia (16), infatti, assumono che quelle divisioni concorrano all'offensiva sul fronte centrale tedesco.

Nel caso di un conflitto generalizzato in Europa, lo scenario che si presenterebbe sarebbe dunque assai diverso da quello delle orde che dilagano inarrestabili nella pianura padana: la soglia di Gorizia verrebbe semplicemente ignorata. Che farebbero in questo caso 24 brigate e 460 aerei da combattimento italiani: starebbero a guardare mentre i sovietici vanno all'assalto del fronte centrale? Il problema dei due Stati cuscinetto, l'Austria e la Iugoslavia, si riproporrebbe, ma a parti rovesciate: sarebbero infatti gli italiani ad aver bisogno di attraversarne uno o entrambi, per ricongiungersi al resto delle forze della NATO. Con la differenza che questi paesi - come pure la Svizzera - potrebbero tutto sommato consentire il passaggio, poiché avrebbero ben poco da guadagnare da una vittoria dei sovietici.

Ma è bene fermarci qui, se non vogliamo sfociare nella fantapolitica. Vale la pena di notare, comunque, che c'è chi prende in seria considerazione l'ipotesi che le forze italiane si portino rapidamente in Iugoslavia o in Austria in caso di conflitto - naturalmente senza chiedere il permesso a Belgrado o a Vienna. Scrive Carlo M. Santoro: "La difesa della 'soglia di Gorizia', in effetti, ha un senso strategico e tattico solo a patto che essa possa venir anticipata alle linee difensive davanti a Lubiana o a Karlovac in Iugoslavia, ovvero alla linea Innsbruck/Graz in Austria. Altrimenti è ben difficile pensare che lo schermo di resistenza opposto dalle sole forze armate dei due paesi neutrali, possa davvero rallentare l'avanzata delle forze sovietiche e del Patto di Varsavia" (17).

Da parte sua Virgilio Ilari ha scritto: "Sul fronte italiano potrebbero essere addirittura effettuate le 'cross-border operations' previste dall'Airland Battle (ALB), come lo sbocco ad est delle Alpi Giulie oppure il collegamento con il fronte centrale della NATO realizzato attraverso l'Austria" (18). Più cauto, Maurizio Cremasco ha affermato che "il collegamento tra fronte centrale e fronte meridionale della NATO è strategicamente molto più stretto di quanto geograficamente non appaia, mentre la difesa dell'Austria è una preoccupazione condivisa dalle forze armate italiane e tedesche" (19).

A leggere tra le righe delle opinioni di questi esperti di tendenza conservatrice, pare di poter concludere che la capacità italiana di difendere la soglia di Gorizia sia più che adeguata alla minaccia (20) - tanto più che sembra mancare una minaccia inequivocabilmente rivolta colà. Altrimenti perché tanta insistenza su ipotetiche operazioni delle forze italiane oltre la frontiera, o sul collegamento col fronte centrale?

3. La minaccia da sud: il Mediterraneo

A giudicare dalle forze che vi schierano abitualmente, il Mediterraneo non è una regione di primaria importanza per le due superpotenze. La marina americana, ad esempio, assegna circa il 60% delle proprie unità al teatro Atlantico/Mediterraneo e il 40% a quello Pacifico/Oceano Indiano (21). All'interno del primo, tuttavia, prevalgono mediamente i seguenti rapporti di forza: 28 sottomarini nucleari lanciamissili balistici (SSBN), 51 sottomarini d'attacco (SSN/SS), 7 portaerei, 93 unità principali di superficie (incrociatori, caccia, fregate e corvette (22) ), 24 navi anfibie per la Seconda Flotta (Atlantico); contro 0 SSBN, 4 SSN, 1 portaerei, 9 unità principali di superficie, 5 navi anfibie per la Sesta Flotta (Mediterraneo). Dunque la Sesta Flotta - che ha il suo quartier generale a Gaeta - assorbe in media circa il 5% delle forze navali americane.

Questa è invece la composizione media della Quinta Squadra Navale sovietica del Mediterraneo: 0 SSBN, 5 SSN/SS, 7-8 unità principali di superficie, 0 unità minori di superficie (vedette veloci d'attacco, aliscafi, unità da pattugliamento, comprese quelle missilistiche), 2 cacciamine, 0 navi anfibie, 24 navi ausiliarie. A titolo di paragone la marina sovietica dispone di 62 SSBN, 360 SSN/SS, 274 unità principali di superficie, 757 unità minori di superficie, 365 unità per la guerra di mine, 190 navi anfibie e 382 navi ausiliarie (23).

Se quello che interessa, comunque, è il rapporto di forze tra la NATO e il Patto di Varsavia, la prima cosa da fare è dare un'occhiata alla carta geografica. Si vede subito, così, che le marine del blocco orientale - quella sovietica, più quelle di Romania e Bulgaria (24) - sono tutte imbottigliate nel Mar Nero: per uscire nel Mediterraneo devono attraversare il Bosforo e i Dardanelli, stretti sotto il pieno controllo di un membro dell'Alleanza atlantica, la Turchia (25). L'Urss dispone ovviamente di altre basi navali, oltre a quelle sul Mar Nero. E infatti alcune unità della Quinta Squadra - i sottomarini (26) - provengono dal Mare del Nord: inutile ricordare, tuttavia, come anche in questo caso per accedere al Mediterraneo esse debbano attraversare uno stretto, Gibilterra, sotto controllo occidentale.

Le conseguenze, in caso di conflitto, sono facilmente intuibili: "E' prevedibile che il Mediterraneo diventerà un mare sostanzialmente chiuso alle unità sovietiche, sia per il blocco del Bosforo, sia per l'estrema difficoltà di un passaggio inosservato e incontrastato dei sottomarini sovietici attraverso lo stretto di Gibilterra" (27).

Certo diversa sarebbe la situazione se i sovietici disponessero di una base navale permanente nel Mediterraneo. Persa quella di Alessandria agli inizi degli anni '70, al momento della rottura con l'Egitto, l'Urss non è riuscita a procurarsene nessun'altra. Né appare probabile possa riuscirci nel futuro prossimo, a meno di profondi rimescolamenti nel panorama delle alleanze mediterranee. Sempre agli inizi degli anni '70, comunque, l'allora comandante della Sesta Flotta, l'ammiraglio statunitense Stansfield Turner, sminuiva "...la portata della minaccia navale sovietica rilevando che le flotte dei paesi della NATO operanti nel Mediterraneo ...hanno un potenziale di fuoco superiore a quello avversario: la presenza delle portaerei americane aumenta ancora questo divario" (28).

Nei quindici anni successivi a questo giudizio, numerosi fattori hanno contribuito ad accentuare la superiorità occidentale. Primo, tutte le marine della NATO (29), a cominciare da quella italiana (30), hanno beneficiato di rilevanti programmi di ammodernamento. Secondo, la Spagna, pur rimanendo, per ora, al di fuori della struttura militare integrata, è entrata nella NATO (31). Terzo, "dal 1976 la Francia ha spostato nel Mediterraneo (Tolone) circa metà della sua flotta" (32); anch'essa non integrata militarmente nell'Alleanza, pure partecipa alle maggiori esercitazioni (33) e non cessa di dare segnali di crescente cooperazione militare nel Mediterraneo con gli alleati occidentali (34). Quarto, se una tendenza è discernibile nella presenza militare sovietica nel Mediterraneo, questa è al ribasso: misurata in giorni-nave annui, essa raggiunse un picco di 20.600 nel 1973, per poi scendere e attestarsi attorno ai 16.000 sino all'81 (35); da allora, diversi altri indicatori si sono incaricati di confermare la

stessa tendenza (36).

Vero è che nello stesso torno di tempo anche la composizione media della Sesta Flotta si è ridotta, passando da due a una portaerei, e relativa scorta. Tuttavia questo ridimensionamento, mentre sul piano politico riflette la sostanziale espulsione dei sovietici dal medioriente e l'accresciuta importanza relativa di altri teatri (Golfo Persico), è di scarsa importanza militare: la marina degli Stati Uniti non ha alcun problema nel Mediterraneo, né di accesso, né di disponibilità di basi. In altre parole le è facile incrementare la propria presenza, ove le circostanze lo richiedano (37).

La mancanza di basi sovietiche nel Mediterraneo, limita pure fortemente la minaccia aerea verso le forze dell'Alleanza atlantica. Difatti, "non sono più disponibili gli aeroporti di Jiyanklis, Cairo West, Beni Suef e Aswan che si trovavano nel 1970 sotto pieno controllo sovietico e da cui decollavano i velivoli da ricognizione per il Mediterraneo" (38). Rimangono naturalmente i bombardieri a lungo raggio (39) dell'aviazione di marina sovietica, dotati di missili 'stand-off' e con un considerevole raggio d'azione. La loro, comunque, non è una missione facile se si tengono nel giusto conto sia le capacità, davvero considerevoli, di sorveglianza, guerra elettronica ed 'early warning', sia la sostanziale superiorità aerea della NATO nella regione.

Come già fatto per la soglia di Gorizia, anche nel caso del Mediterraneo pare dunque di poter concludere che i rapporti di forza tra NATO e Patto di Varsavia siano tali da garantire al nostro paese una più che soddisfacente sicurezza da minacce militari. Fatta salva, naturalmente, la solita avvertenza: le guerre vere hanno un andamento difficilmente prevedibile sulla sola base dei dati contenuti negli annuari, entrandoci fattori incommensurabili come il morale, la motivazione politica, la coesione sociale di combattenti e non.

Sempre alla luce di questi rapporti di forza, comunque, il problema di garantirsi l'afflusso di energia, materie prime e rifornimenti bellici - in un conflitto est-ovest che durasse così a lungo da rendere tutto ciò necessario - sembra commensurato alle capacità della NATO: i sovietici non sembrano in grado di montare una guerra aerea, navale di superficie o, tantomeno, sottomarina nel Mediterraneo tale da limitare severamente il movimento di eventuali convogli dell'Alleanza atlantica. Si ha piuttosto l'impressione che, a paragone dell'Atlantico, dove semmai avrebbe luogo la vera battaglia per l'afflusso di rifornimenti dagli Stati Uniti all'Europa, il Mediterraneo si trasformerebbe presto in una sorta di lago occidentale.

A che si deve allora tutto il discutere sulla "minaccia da sud" dell'ultimo decennio?

Per quel che concerne i sovietici, l'intero caso sembra aver poggiato su questo: "Lo spiegamento nel Mediterraneo di una forza navale sovietica, il suo progressivo potenziamento quantitativo e qualitativo fino a un livello significativo di 'minaccia' e l'entrata in servizio del bombardiere Tu-22M 'Backfire' nei reparti dell'aviazione di marina sono stati i principali fattori di cambiamento nel quadro militare nel fianco sud della NATO" (40).

Questo modo di ragionare illustra perfettamente il tipo di atteggiamento, psicologico prima ancora che strategico, che sostiene la corsa al riarmo. Come si può vedere, infatti, tutto quello che si asserisce è che l'avversario partecipa anch'egli alla corsa: modernizza le proprie forze e, potendolo, cerca di incrementarle. Manca però una definizione sufficientemente precisa di cosa debba considerarsi "un livello significativo" di minaccia.

A meno di non considerare significativo tutto ciò che non coincide con l' 'assenza' di minaccia. Scrive infatti lo stesso autore, sette anni dopo la citazione precedente, che la Quinta Squadra sovietica "è attualmente in grado di svolgere un'efficace 'mission-denial mission' nei confronti delle forze navali della NATO, almeno nella determinante fase iniziale di un confronto militare"; ciò, insieme alla minaccia rappresentata dai bombardieri 'Backfire', "significa che la Sesta Flotta, insieme alle forze aeronavali alleate, dovrà prima di tutto neutralizzare la minaccia aeronavale sovietica e vincere la battaglia in mare. Solo successivamente essa potrà dedicarsi all'appoggio delle operazioni terrestri. In altre parole, la missione di 'sea-control' è diventata una priorità iniziale, rispetto a quella tradizionale di 'power projection'" (41).

Come si vede, in questo ragionamento conta poco o nulla il fatto che dagli inizi dello scorso decennio la situazione per la NATO sia andata migliorando costantemente - grazie soprattutto al fatto che i sovietici hanno perso le proprie basi navali ed aeree nel Mediterraneo e hanno progressivamente abbassato il profilo della propria presenza navale. Il termine di paragone è una sorta di età dell'oro - gli anni '50? - quando la capacità militare sovietica era presumibilmente pari a zero. E' chiaro che con questo metro è impossibile trovare, nel campo dei rapporti di forza militari, un livello di sicurezza che sia accettabile.

4. La guerra del merluzzo

Ma la NATO, si sente spesso ripetere, non può coprire tutte le dimensioni della politica estera italiana - in particolare nel Mediterraneo. La prima parte di questa affermazione è difficilmente contestabile, dal momento che la NATO è un'alleanza di Stati sovrani, i quali continuano appunto a mantenere piena autonomia di movimento. C'è da discutere, semmai, sul fatto che debba per forza essere il Mediterraneo la palestra dell'autonomia italiana.

Certo, nelle vicende di questo mare abbiamo interessi immediati: lo sfruttamento delle risorse nelle zone che ci competono; il flusso dei commerci che partono e arrivano nei nostri porti; la lotta all'inquinamento (cui però il nostro governo non bada granché). E così via. Ma al di là di questo, l'Italia non è omogenea al Mediterraneo e viceversa.

Per rendersene conto basta riflettere sul fatto che uno studente, un uomo d'affari, come pure un governo, di un qualsiasi paese mediterraneo non hanno alcuna ragione - se non opportunità e convenienza contingenti - per anteporre i rapporti con l'Italia a quelli con qualsiasi altro paese europeo. Con l'eccezione della Libia, non abbiamo nemmeno un passato coloniale che abbia stabilito relazioni privilegiate con particolari paesi.

Queste considerazioni valgono altrettanto se l'attenzione si sposta sul piano della sicurezza. Anche qui, a tradurre letteralmente la geografia in politica non si ricava molto di più di alcuni truismi ben noti, come la "portaerei inaffondabile" (42) e simili (43). Mentre il problema di politica di sicurezza è sempre lo stesso: si tratta di individuare quali sono le minacce che 'realisticamente' possono riguardarci, e se in relazione a queste i mezzi militari approntati sono sufficienti.

In buona sintesi, il caso della "minaccia da sud" è stato costruito in Italia - oltre che sulla 'crescita' del potenziale militare sovietico, che abbiamo già esaminato - sulla seguente ipotesi: nel Mediterraneo potrebbero sorgere "dispute minori" riguardanti l'Italia e un paese non allineato, ma tali da non coinvolgere la NATO (44).

Per minori che siano queste dispute, è intanto difficile comprendere perché dovrebbero venire a cadere i vincoli di alleanza. Qui l'assunto implicito è che la NATO debba funzionare solo 'vis-à-vis' il Patto di Varsavia. Ma da nessuna parte del Trattato del Nord Atlantico si distingue in dispute minori o maggiori, né viene individuato a priori il latore della minaccia (45).

Certo, è impossibile escludere l'insorgere di un 'casus belli' cui - dopo adeguata consultazione - si preferisca non rispondere come Alleanza atlantica. Si può presumere che ciò verrebbe fatto allo scopo di non alzare inutilmente la posta, di raffreddare la crisi e aumentare la probabilità che questa si componga rapidamente. Deve essere, comunque, una minaccia men che mortale per giustificare un comportamento simile. Una minaccia che non richiede missioni militari aggiuntive, oltre a quelle già concordate collettivamente. Altrimenti sarebbe un'alleanza molto strana la NATO se i suoi membri dovessero adottare una pianificazione militare che prescinda dalla sua esistenza.

Giacché siamo in argomento, vale comunque la pena di provare a vedere quali siano le capacità militari dei potenziali nostri aggressori mediterranei (46). La rosa dei candidati sembra si possa restringere a due paesi (47): Algeria e Libia.

L'Algeria ha un esercito considerevole, forte di 150.000 uomini, 2 brigate corazzate, 5 meccanizzate, 9 di fanteria motorizzata, con 910 carri armati e 780 pezzi d'artiglieria. L'aeronautica e la marina, che dal nostro punto di vista sono più importanti, sono altrettanto ben equipaggiate. La prima ha circa 346 aerei da combattimento, tutti di costruzione sovietica (MiG-17, 21, 23, 25, Su-7 e 20). La seconda schiera 3 fregate, 3 corvette, 16 vedette veloci (tutte unità armate di missili antinave), più due sottomarini. Sia la marina che l'aeronautica sembrano però a corto di personale per i mezzi di cui dispongono: 7000 uomini la prima, 12.000 la seconda. A titolo di paragone si consideri che l'aeronautica italiana con 460 aerei da combattimento ha 73.000 uomini. In definitiva le forze armate algerine sono di buon livello per lo standard nordafricano. Ma non esiste alcun indizio che possa far pensare che esse siano un'eccezione a quello stesso standard - che cioè siano in grado di sostenere operazioni prolunga

te e, soprattutto, dispongano di un numero sufficiente di tecnici specializzati in grado di sfruttare tutte le potenzialità dei mezzi (48). Sul piano politico, infine, il governo algerino ha sempre mostrato abbastanza ragionevolezza e moderazione da far escludere che abbia alcun interesse nell'intraprendere in proprio o fomentare atti d'aggressione. Meno che mai, poi, nei confronti dell'Italia, con la quale semmai ci sono forti incentivi economici (49) a mantenere amichevoli le relazioni.

Il caso della Libia è molto diverso, specialmente sul piano politico. Il governo di quel paese 'ha' un comportamento aggressivo: all'interno (l'esecuzione spietata dei dissidenti, in Libia e fuori), nella sua propria regione (la guerra nel Ciad) e oltre (i consistenti indizi del sostegno dato ai più diversi gruppi terroristici in ogni parte del mondo). Per quanto riguarda l'Italia in particolare c'è anche un preoccupante precedente: il lancio di due missili contro l'isola di Lampedusa, nell'aprile del 1986. Per fortuna i due ordigni finivano in mare, senza nemmeno colpire la terraferma. Ma è difficile pensare che sia stata questa l'intenzione originaria: se fossero finiti sull'abitato è molto probabile che avrebbero fatto più di una vittima. Come se non bastasse tutto questo, sulla carta l'arsenale messo assieme dal governo di Tripoli è impressionante: 2300 carri armati, 1300 pezzi d'artiglieria, 540 aerei da combattimento, 6 sottomarini, 2 fregate, 4 corvette, 24 vedette missilistiche.

Tuttavia tutti questi elementi sono solo una parte di quanto occorre per arrivare a un giudizio sobrio sulla minaccia libica. Tanto per cominciare il rapporto tra mezzi e uomini è ancora più squilibrato che nel caso dell'Algeria visto prima. La Libia è una nazione di 3 milioni e mezzo di persone, le cui forze armate arrivano a totalizzare 76.500 uomini - 60.000 dei quali nell'esercito, 10.000 nell'aeronautica e 6500 in marina. Gran parte dell'equipaggiamento, specie quello più sofisticato, giace inutilizzato nei magazzini. I consiglieri militari sovietici, infatti, sono circa 2000 e si aggiungono a numerosi altri tecnici, civili e militari, provenienti tra l'altro dalla Germania dell'est, dalla Siria, dal Pakistan e dalla Corea del nord.

Questi problemi di fondo hanno avuto, d'altronde, puntuale riscontro nelle occasioni in cui i libici si sono trovati a combattere. Durante il bombardamento americano su Tripoli, il 15 aprile del 1986, "le luci della città sono rimaste accese per 20 minuti dall'inizio dell'attacco" e "nessun aereo libico è stato visto alzarsi in volo o inseguire gli aerei americani" (50). Nei mesi precedenti, quando la tensione montava attorno al Golfo della Sirte, i piloti libici di notte non volavano, oppure rimanevano attorno alle basi di partenza, in modo da scorgere le luci della pista. Quanto ai marinai, "gli analisti militari non hanno un buon giudizio delle capacità libiche, sottolineano le origini desertiche di gran parte dei libici e confermano le notizie secondo le quali i marinai in servizio tendono a soffrire di mal di mare" (51).

Non che le cose vadano meglio con la componente terrestre: l'avventura in Ciad, ad esempio, si è risolta in un vero disastro per gli uomini di Gheddafi. I combattimenti più aspri si sono avuti tra l'agosto e il settembre del 1987, per il controllo dell'oasi di Aozou, nel nord del Ciad. Le truppe di quest'ultimo paese sono un non-esercito, armato tutt'al più di missili anticarro e fuoristrada Toyota. Eppure era con questi mezzi che i ciadiani superavano in agosto le difese libiche, fatte di carri armati e campi minati, e guadagnavano il controllo dell'oasi (52). Pochi giorni dopo, all'inizio di settembre, essi si spingevano 60 miglia in territorio libico e distruggevano la base aerea di Matan-as-Sarah, da cui partivano i bombardamenti libici su Aozou, e anch'essa pesantemente difesa (53). Alla fine i contrattacchi libici riuscivano a riconquistare Aozou e "dopo aver perso un decimo del suo esercito, 1 miliardo di dollari di materiali e il controllo di gran parte del Ciad settentrionale, il colonnello Gheddafi

accettava un cessate il fuoco negoziato dall'Organizzazione dell'Unità Africana" (54).

Non meraviglia, quindi, che "Israele, che è generalmente considerato il paese con i migliori servizi d'informazione della regione, si occupa relativamente poco della Libia, perché i libici non vengono considerati una minaccia. Per riassumere, un ufficiale ha detto: 'sono i libici una forza con la quale si debbano fare i conti? No'" (55). Nei mesi successivi a questo giudizio la situazione è andata solo peggiorando per il governo di Tripoli, al punto che "L'amministrazione Reagan crede che il governo del colonnello Moammar Gheddafi è stato così indebolito da una serie di sconfitte nell'ultimo anno che, secondo funzionari della Casa Bianca e del dipartimento di Stato, 'non è più in grado di rappresentare una seria minaccia ai suoi vicini nella regione mediterranea'" (nostro corsivo) (56). Ammesso, naturalmente, che lo sia mai stato.

Due parole, infine, sull'attacco missilistico libico contro Lampedusa. Il gesto è stato sicuramente tipico della criminale insensatezza del regime di Tripoli. Tuttavia, proprio allo scopo di non esagerare i danni che quel regime è in grado di provocare a chicchessia, va anche considerata l'eccezionalità delle circostanze. Il raid americano aveva appena avuto luogo, causando secondo fonti libiche 37 morti (tra cui una figlia adottiva di Gheddafi) e 93 feriti, e dal punto di vista libico Lampedusa non vi era poi così estranea, se è vero che "mentre si avvicinavano a Tripoli, gli F-111 (i bombardieri Usa impiegati nell'attacco. ndr) si sono allineati con un radiofaro di una base americana nell'isola italiana di Lampedusa" (57).

Insomma, non pare proprio che il quadro degli equilibri militari nel Mediterraneo, giustifichi tutto il gran parlare che si è fatto in Italia nell'ultimo decennio sulla "minaccia da sud". I mezzi italiani - in particolare se inseriti, come è logico fare, nel quadro della NATO - sono 'realisticamente' più che sufficienti per far fronte ad eventuali atti d'aggressione, per quanto gratuiti ed insensati essi possano essere.

Se invece ci fosse ambiguità quanto al suo status di vittima di un attacco l'Italia dovrebbe di sicuro vedersela senza il concorso dei propri alleati. Ma è come dire che se ad attaccare qualcuno fossimo noi, la NATO non ci difenderebbe (58).

Scartata anche questa ipotesi restano solo quelle situazioni ambigue, come i contenziosi sulla pesca, o lo sfruttamento delle Zone Economiche Esclusive in cui, pendenti accordi risolutivi in materia, si desidera fare la voce grossa mostrando la bandiera (59).

Tuttavia, può la politica militare italiana - una politica che costa al contribuente più di 20.000 miliardi l'anno - poggiare su queste premesse?

A sentire il capo di Stato maggiore della marina, che deve rispondere di una buona fetta di quei 20.000 miliardi, si direbbe di sì. In un recente discorso, infatti, l'ammiraglio Piccioni, dopo essersi dilungato nel rendere conto del contenzioso greco-turco nell'Egeo, ha affermato: "Di fronte a tali eclatanti fatti che, in Europa, si aggiungono al contenzioso tra Islanda e Gran Bretagna, meglio conosciuto come la guerra del merluzzo, si comprende facilmente come l'impiego delle flotte in ruolo di tutela dell'alto mare, un ruolo tipico del cosiddetto tempo di pace, debba al momento inquadrarsi esclusivamente nell'ambito delle attività a carattere puramente nazionale" (60).

Quindi è, almeno in parte, per prepararci alla guerra del merluzzo che "...sono stimati necessari due gruppi combattenti di altura, forze subacquee, di contromisure mine, forze aeree antisom ed una linea complementare di mezzi ausiliari e di supporto alla squadra...(oltre a)...forze aeree per il supporto aereo difensivo ed offensivo (caccia intercettori e bombardieri in funzione antinave con adeguato raggio d'azione)" (61).

Spiace dirlo, ma quello appena citato non è l'unico caso in cui l'enunciazione degli obiettivi strategici, o più semplicemente dei 'desiderata' delle varie armi, assume da noi toni grotteschi. Così, si può leggere in documenti ufficiali che "per assicurare la difesa a sud e alle linee di comunicazione marittime di interesse nazionale, occorre che le forze aeronavali italiane acquisiscano il controllo del mare". Da sole evidentemente, come se gli alleati non esistessero, e non di una parte, ma di tutto il Mediterraneo (62)!

Ma che dire allora delle tesi dell'ex capo di Stato maggiore dell'aeronautica, Basilio Cottone, secondo il quale la prossima generazione di intercettori italiani "...per essere impiegati in tempo utile, non dovrebbero essere basati a terra, bensì volare in permanenza nelle aree prossime all'intercettazione...(grazie all')...acquisto di velivoli cisterna che rifornirebbero in volo gli aerei" (63)? Sono cose che nemmeno lo 'Strategic Air Command' (SAC) dell'aviazione statunitense può ancora permettersi.

Non possono andare senza menzione, infine, i pensieri del più alto in grado tra i militari italiani, il capo di Stato maggiore della Difesa Riccardo Bisogniero. Per il generale, "L'ambiente geopolitico al quale l'Italia appartiene, e nel quale deve funzionare come nazione, consiste di due regioni contigue: il continente europeo - non semplicemente l'Europa meridionale - e l'area del Mediterraneo che per i nostri scopi 'comprende l'intero medioriente e il nordafrica e si estende dal Golfo d'Arabia agli Stretti di Gibilterra'" (nostro corsivo) (64). Fosse solo una constatazione di quanto complesse siano oggi le relazioni internazionali, questa sorta di definizione sarebbe condivisibile - ma allora perché non dire che l'ambiente geopolitico dell'Italia è l'universo mondo? Il problema è che ha delle conseguenze sulla politica di sicurezza: "Le forze armate italiane devono oggi essere in grado di mantenere la sicurezza nel Mediterraneo". Vista la definizione del Mediterraneo data sopra non sorprende che "una visi

one più ampia della politica di sicurezza italiana è in ordine".

Per chi dovesse chiedersi quali sono le questioni in grado "di incidere sul futuro della politica di sicurezza occidentale" ecco la risposta: "Primo, l'incerto ruolo delle armi nucleari; secondo, l'influenza crescente del fondamentalismo religioso nel mondo islamico".

Visto l'argomento di questo volume, è anche interessante sapere se il capo di Stato maggiore della Difesa pensa ci possano essere "cambiamenti sostanziali nel tipo o nella quantità delle forze armate". Di nuovo, ecco la risposta: "L'unico cambiamento sostanziale che può essere considerato è l'acquisizione di forze addizionali". Peccato che manchino le risorse, perché "ciascuna forza armata è stata austera ('each service has been frugal'); non c'è stato alcuno spreco".

5. Qualche alternativa

Pur sapendo di non avere il capo di Stato maggiore della Difesa dalla nostra parte, noi pensiamo che siano possibili ridimensionamenti, anche unilaterali, del potenziale militare italiano. Faremo qui di seguito qualche esempio, essenzialmente allo scopo di indicarne la ragionevolezza e la possibilità teorica. Ma rendendoci perfettamente conto che la traduzione in pratica richiederebbe la soluzione di una quantità di problemi importanti.

La prima possibilità è legata ai numeri puri e semplici: in Italia ci sono troppi militari, sia rispetto alla missione di difesa della soglia di Gorizia, sia a paragone con gli altri paesi della NATO (65). Molti di loro non hanno che mansioni d'ufficio, come si deduce dal fatto che nel Lazio c'erano nel 1982 64.000 militari, contro i 57.000 del Friuli e i 44.000 del Veneto (66). Il che forse spiega perché "Molto inferiore rispetto agli altri paesi europei è l'entità del personale civile della Difesa: 57.000 in Italia, rispetto ai 142.000 della Francia, ai 189.000 della Germania e ai 199.000 della Gran Bretagna" (67).

Quanto al lato operativo del problema, dovrebbe anche essere possibile ridurre il numero delle grandi unità dell'esercito, vista la configurazione della minaccia sul confine nord-orientale. Per continuare con i confronti internazionali, le 8 divisioni (cioè l'equivalente di 24 brigate) italiane sembrano troppe a paragone con le 10 francesi e le 12 tedesche: come abbiamo visto nel secondo paragrafo di questo capitolo, la soglia di Gorizia non può accomodarne più di tante. E infatti ben 5 brigate sono schierate in zone della penisola fortemente decentrate rispetto a quello che viene considerato il teatro d'operazioni terrestri più probabile (68).

Meglio ancora, forse, sarebbe guardare al problema senza il tabù dell'intoccabilità dell'esercito di leva: quarant'anni di democrazia dovrebbero avere irrobustito abbastanza la repubblica; al punto da permetterle delle forze armate di mestiere (69). Si potrebbe considerare, in tal caso, l'ipotesi di un esercito all'inglese: un numero ridotto (una decina) di brigate di professionisti, equipaggiate al meglio, più unità quadro di forze territoriali da "riempire" con riservisti solo all'occorrenza.

Una simile soluzione raccoglierebbe il consenso di larghi strati della popolazione (soprattutto giovani) e degli stessi militari. Verrebbe anche ben recepita all'interno dell'Alleanza, dal momento che non ha certo uno spirito da smobilitazione. Non è detto, inoltre, che verrebbe a costare di più, poiché dovrebbe venir effettuata in parallelo a una sostanziosa riduzione delle grandi unità e allo sfoltimento di quei quadri di carriera (ufficiali e sottufficiali) che oggi vengono impiegati negli uffici (70). Non va dimenticato, infine, che già ora circa il 50% degli effettivi militari italiani è composto da professionisti.

Sinora abbiamo parlato del solo esercito. Tuttavia ridimensionamenti sono perfettamente concepibili anche per l'aeronautica e la marina. In questo caso non si tratterebbe più tanto di uomini, quanto di mezzi. Alcuni programmi messi in cantiere da queste due forze armate hanno un sapore talmente velleitario che andrebbero cancellati comunque e al più presto: gli aerei a decollo verticale e la costruzione di ulteriori portaeromobili per la marina; gli aerei per il rifornimento in volo e quelli per l' 'early warning' nel caso dell'aeronautica.

Grossi risparmi (cioè riduzioni non più di mezzi ed uomini, ma di bilancio) potrebbero aver luogo se solo si abbandonassero delle brutte abitudini, come quella di disarmare le navi da guerra dopo vent'anni di servizio. Gli scafi delle navi - ma il discorso può essere trasferito di peso ai carri armati, e sino a un certo punto anche agli aerei - non invecchiano: sono i sistemi da combattimento che diventano obsoleti. Basta aggiornare periodicamente questi ultimi per mantenere una ragionevole operatività ai maggiori sistemi d'arma.

Ridurre la macchina bellica italiana (e la spesa militare), in modo compatibile ai nostri impegni nella NATO e senza grandi cambiamenti strategico-dottrinali è insomma possibile. E' indicativo in questo senso che, malgrado non trasudino entusiasmo, ipotesi simili vengano fatte anche da militari di professione. Ha scritto il gen. Jean: "Ad esempio, l'esercito potrebbe far maggiore ricorso alla mobilitazione e nella sua struttura avrebbero maggiore peso le componenti leggere rispetto a quelle più sofisticate. Nel settore della difesa aerea si potrebbe rinunciare in particolare a qualche componente, come ad esempio alla sostituzione dei 'Nike'. Molto verosimilmente si potrebbe dover anche rinunciare all'acquisizione di una capacità nazionale di 'early warning', al rifornimento in volo e al miglioramento delle capacità di trasporto. La marina non sarebbe più in grado di effettuare azioni di 'sea-control' e di supporto alla Sesta Flotta nel Mediterraneo centro-orientale, e dovrebbe limitarsi al Mediterraneo centr

o-occidentale e alla difesa costiera" (71).

In tutto questo capitolo abbiamo discusso dei problemi difensivi italiani, considerando le sole capacità convenzionali. Ma non si può sorvolare sul fatto che nella penisola sono schierate alcune centinaia di testate nucleari cosiddette tattiche - in aggiunta ai 112 missili da crociera di Comiso, che dovrebbero essere smantellati nei prossimi tre anni a seguito dell'accordo Usa-Urss dell'8 dicembre 1987 sui missili a raggio intermedio e più corto.

La situazione nel 1983 era la seguente: 200 bombe nucleari in dotazione agli aerei statunitensi; 50 bombe in dotazione agli aerei italiani; 50 testate per missili 'Lance' in dotazione all'esercito italiano; 70 testate per i missili 'Nike Hercules' superficie-aria in dotazione all'aeronautica italiana; 22 mine atomiche in dotazione all'esercito Usa; 40 proiettili nucleari da 203 mm per cannoni in dotazione all'esercito italiano; 15 proiettili nucleari da 155 mm; 43 bombe nucleari antisommergibili per gli aerei (e probabilmente anche per gli elicotteri) della marina Usa; 20 bombe nucleari antisommergibili per gli aerei della marina italiana; 50 testate nucleari per i missili antisommergibili della marina Usa (72). Si tratta in totale di ben 560 ogive (73).

La questione del loro ritiro dovrebbe essere posta con forza, anche a prescindere da possibili accordi Usa-Urss nel settore delle armi nucleari da campo di battaglia che facciano seguito alla doppia opzione zero. In particolare con la situazione difensiva italiana, infatti, tali ordigni non hanno senso, visto che non ci sono squilibri convenzionali che debbano essere "compensati" nuclearmente (74). Inoltre, e non è cosa da poco conto, le armi nucleari tattiche non piacciono molto nemmeno ai militari italiani: "Sulla funzione dell'armamento nucleare tattico - ha scritto il capo di Stato maggiore della Difesa, gen. Bisogniero - quello del campo di battaglia per intenderci, personalmente nutro qualche perplessità: il suo impiego dovrebbe infatti avvenire o in aree nazionali o sul territorio di paesi neutrali. Ciò lo rende inattendibile" (75).

Nel medio-lungo periodo, infine, si può pensare a più profonde ristrutturazioni della macchina militare italiana e alleata, secondo le linee della "difesa non provocatoria" illustrate in questo volume dal saggio di Albrecht von Mueller (76). Malgrado se ne parli assai meno, i princìpi della "difesa non provocatoria" possono essere applicati anche alla guerra navale (77), un settore di particolare importanza per un paese come l'Italia.

Difatti la vulnerabilità alle armi cosiddette intelligenti (soprattutto i missili) è addirittura più accentuata nel caso delle grandi navi di superficie che in quello, tipicamente terrestre, del carro armato. In linea teorica avrebbe perfettamente senso limitare alla corvetta la grandezza massima delle unità di superficie della marina italiana, acquistando un buon numero di vedette veloci e aliscafi armati con i più moderni missili antinave (78), in luogo delle navi di elevato dislocamento. Batterie di missili antinave possono anche essere basate a terra, su piattaforme semoventi lungo le coste, con ulteriori, considerevoli risparmi. Ancora: la lotta antisommergibile, che ha nei velivoli il suo principale strumento 'non sommerso', può essere condotta con aerei ed elicotteri basati anch'essi principalmente a terra (79). Infine, il minamento difensivo dei passaggi obbligati marittimi - ve ne sono alcuni nel Mediterraneo che riguardano le missioni navali italiane - potrebbe essere riconsiderato. Sono tutte misu

re meno rivoluzionarie di quanto può sembrare, se si considera che vengono caldeggiate persino per la marina statunitense (80).

E' forse inutile aggiungere a questo punto, che se è lecito pensare a riduzioni unilaterali degli impegni militari italiani, a maggior ragione il nostro paese dovrebbe trovarsi in una situazione ideale per eventuali riduzioni negoziate. In altre parole: se si delineasse un accordo, in qualunque sede, tra NATO e Patto di Varsavia per la riduzione reciproca dei propri apprestamenti bellici, l'Italia non dovrebbe avere alcunché da obiettare sul piano della propria sicurezza. Secondo lo stesso ragionamento, non mancano dunque le condizioni necessarie perché il governo italiano si impegni in quella direzione.

6. Qualche cautela

Riassumendo, dunque, se la situazione italiana ha una qualche peculiarità, questa è dovuta allo iato nella politica del paese tra gli impegni (e le ambizioni) militari, che sono in crescita, e le minacce militari alla sua sicurezza, che appaiono invece stabili o in via di riduzione. Se l'analisi delle minacce fosse realmente il metro sul quale viene commensurata la politica di sicurezza, l'Italia potrebbe prendere subito molte delle misure di disarmo unilaterale e multilaterale di cui si parla in questo volume. Ma non è così. Vale allora la pena, dopo aver considerato in astratto tali misure, fermarsi a guardare l'altro termine del problema, cioè le cause della crescita delle ambizioni militari italiane. Cosa che qui verrà fatta senza alcuna pretesa di sistematicità.

C'è in primo luogo un motivo di fondo legato alla politica estera italiana. Dall'unità in poi questo paese ha fatto di tutto per entrare nel club delle nazioni che contano. Comunque lo si voglia giudicare, questo obiettivo è stato condiviso da tutti i governi. Ora, uno degli indicatori più immediati dello 'standing' internazionale di una nazione sono le sue forze armate. E' certo una disgrazia che sia immensamente più semplice acquisire prestigio comprando qualche carro armato in più, piuttosto che attraverso l'aumento del benessere dei propri cittadini. Ma è così. Più tempo passa dalla fine della guerra (persa) e più il personale politico comincia a riscoprire la dimensione militare dell'immagine estera del paese (81). Non è un caso, forse, che un fenomeno del genere cominci a interessare anche il Giappone.

Secondo, il processo politico dell'Alleanza atlantica - che è in primo luogo un'alleanza militare - è congegnato in modo tale da aumentare ulteriormente il premio d'immagine estera costituito dalle scelte militari. Facciamo solo un paio d'esempi relativi ad anni non lontani: l'impegno all' aumento dei bilanci della Difesa dei paesi membri del 3% annuo in termini reali, preso dalla NATO nel 1978, che è servito spesso a distinguere tra alleati "responsabili" e 'free riders'; la decisione di spiegare gli euromissili, che è stata presa dal governo italiano soprattutto, se non esclusivamente, per accreditarsi, e non solo all'interno della NATO (82). A parere di chi scrive, tuttavia, sarebbe sbagliato concludere che è l'Alleanza la causa della crescita dei nostri impegni militari. Come abbiamo visto, la Difesa italiana ha ambizioni, o velleità, che travalicano le missioni che sarebbe ragionevole assumersi all'interno della divisione del lavoro alleata. Talvolta la NATO sta stretta ai nostri alti gradi. Talaltra pu

ò invece presentare delle opportunità sia ai politici che ai militari, come spiegato sopra.

Terzo, il governo del paese guida dell'occidente, gli Stati Uniti, ha costantemente insistito - dal 1981 - sull'importanza della forza militare nelle relazioni internazionali. Il tema del 'riequilibrio' dei rapporti di forza tra NATO e Patto di Varsavia è stato, in questi anni, una sorta di ossessione dell'amministrazione Reagan. Non deve meravigliare che sia riuscito a far breccia da questa parte dell'Atlantico.

In quarto luogo, vanno considerate le vicende politiche interne di questi ultimi anni, diciamo dal 1980 in poi. La Difesa è la terza poltrona governativa in ordine di importanza, dopo la presidenza del Consiglio e gli Esteri. Ceduta la presidenza ai laici, i democristiani si sono - nelle ultime due legislature - costantemente riservati gli Esteri. Quando a guidare il governo c'era un repubblicano (Spadolini), alla Difesa c'era un socialista (Lagorio), e viceversa (Craxi presidente e Spadolini alla Difesa). Il risultato, comunque, è stato che a via XX Settembre è andato regolarmente un rappresentante, personalmente ambizioso, di una forza politica altrettanto ambiziosa di accrescere la propria influenza. Entrambi ritenevano di avere molto da guadagnare da un più alto profilo militare del paese. C'è da stupirsi se hanno perseguito questo obiettivo con tutte le loro forze?

Una quinta considerazione riguarda il ruolo economico della spesa militare. E' un pregiudizio diffuso che gli investimenti nel settore bellico debbano avere la precedenza sugli altri, non tanto sulla base di considerazioni di sicurezza, quanto piuttosto perché alla produzione militare si attribuiscono grandi capacità propulsive dal lato tecnologico. Non è questo il luogo per contestare quello che è appunto in gran parte un pregiudizio. Il fatto è che i suoi effetti sono chiaramente visibili nel caso italiano, dove realmente esistono ben poche ragioni militari per giustificare la crescita dei bilanci della Difesa e l'espansione dell'industria bellica. Un esempio illuminante in questo senso è il caso già ricordato della sostituzione dei carri M-47 con nuovi blindati pesanti nelle brigate dell'esercito sparse nella penisola. Chi scrive non riesce a trovare altra ragione che la volontà di sussidiare la Fiat e l'Oto-Melara - produttrici del blindato.

Da ultimo c'è la dinamica delle grandi organizzazioni burocratiche nelle società moderne. Dinamica alla quale non possono sfuggire le forze armate (83). In altre parole tali organizzazioni lottano costantemente per mantenere e, se possibile, incrementare: la loro autonomia, le loro missioni, le risorse finanziarie loro assegnate. In questa logica, la riduzione delle minacce militari alla sicurezza del paese, è vissuta dalle forze armate come un drammatico aumento della minaccia: alla loro stessa sopravvivenza come grande organizzazione burocratica. Pertanto, se le minacce militari non si trovano, si inventano, anche a rischio di sostenere dei paradossi: se non è la flotta sovietica, sarà la guerra del merluzzo. Spesso è una forzatura tentare di trovare chissà quali piani strategici dietro le scelte delle forze armate. La marina, ad esempio, vuole le sue portaerei e le sue navi anfibie non tanto perché gli ammiragli pensino seriamente di sbarcare da qualche parte, quanto piuttosto perché una flotta di vedette

e aliscafi lanciamissili ne ridurrebbe le risorse assegnate, le missioni e il prestigio.

Tutti questi fattori possono variare di segno e d'intensità nel corso del tempo. Ma continueranno ad agire. E' bene che qualunque piano di disarmo, unilaterale o negoziato che sia, li tenga nel debito conto.

NOTE

1. In Ministero della Difesa, 'La Difesa. Libro Bianco 1985', stampato in proprio, Roma, novembre 1984, vengono definite ben cinque missioni interforze: la prima di difesa a nord-est; la seconda di difesa a sud e alle linee di comunicazione; la terza di difesa aerea; la quarta di difesa operativa del territorio, la quinta di azioni di pace, sicurezza e protezione civile. Commenta opportunamente Paolo Miggiano: "E' difficile farsi una ragione del perché di queste cinque missioni quando, da tutto il quadro delineato (nello stesso libro bianco. ndr), emergono chiaramente due sole minacce". "La politica di sicurezza italiana", in M. De Andreis e P. Miggiano (a cura di), 'L'Italia e la corsa al riarmo', Franco Angeli, Milano, 1987, p. 154.

2. Questo paragrafo è basato sulla trattazione dello stesso argomento contenuta in M. De Andreis, "The nuclear debate in Italy", 'Survival', maggio/giugno 1986. I dati sulle forze militari sono stati aggiornati alla luce del più recente annuario dell'International Institute for Strategic Studies (IISS), 'The Military Balance 1987-1988', a meno che non sia indicato diversamente.

3. Problema che non esiste, perché non c'è nessuno che ne abbia la capacità, oltre che l'intenzione. Così ad esempio l'ex capo di Stato maggiore dell'esercito Umberto Cappuzzo, in un discorso tenuto il 21 maggio del 1982 al Centro Alti Studi Difesa (CASD) definiva "inimmaginabili" le ipotesi di sbarchi anfibi o di paracadustisti su larga scala nel cuore della penisola.

4. Traduciamo così il termine inglese 'Motor Rifle'.

5. Il 'Military Balance' distingue tre categorie di divisioni del Patto di Varsavia, secondo la loro prontezza operativa. Le divisioni di prima categoria sono completamente equipaggiate in uomini e mezzi e pronte al combattimento nel giro di 24 ore. Le divisioni di seconda categoria hanno tutti i mezzi da combattimento previsti, ma solo il 50-75% del personale - la pianificazione prevede che il 100% venga raggiunto in tre giorni, ma la piena operatività in un mese. Le divisioni di terza categoria sono quelle cosiddette quadro: equipaggiamento forse completo ma composto dei mezzi più vecchi, 20% del personale - la pianificazione prevede che il 100% venga raggiunto in otto, nove settimane.

6. Anche in questo caso predominano modelli non recentissimi, come i MiG-21 e i Su-17. Su 240 velivoli, poi, i cacciabombardieri sono 90.

7. Le cifre più basse provengono dall'edizione 1983-1984 del 'Military Balance', quelle più alte dall'edizione 1987-1988. Il livello di prontezza operativa è invece tratto da D.C. Isby, 'Weapons and Tactics of the Soviet Army', Jane's Publishing Co., New York and London, 1981, p. 27. Il fatto che in quattro anni le divisioni sovietiche in questo Distretto Militare addirittura raddoppino non può che generare scetticismo. In effetti l'annuario dell'IISS, che pure gode di grande reputazione, rivede spesso le proprie cifre da un anno all'altro e senza dare spiegazione alcuna. Quando si tratta del Patto di Varsavia, poi, tali revisioni sono quasi invariabilmente al rialzo.

8. Sulle organizzazioni difensive e la politica di sicurezza di questi due paesi, cfr. il IX capitolo di questo volume.

9. G. Donati, "The Defence of North-East Italy", 'NATO's Sixteen Nations', maggio-giugno 1983.

10. Cfr. 'Notizie NATO', febbraio 1987, p. 35. Per numero di uomini alle armi, nel 1985 l'Italia veniva superata, all'interno della NATO, solo da Francia (563.000), Turchia (814.000) e Stati Uniti (2,3 milioni). Non può non colpire il fatto che Gran Bretagna e, soprattutto, Germania federale abbiano meno effettivi di noi.

11. Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza. Tuttavia i primi, oltre ai compiti di sicurezza interna, hanno un ruolo militare abbastanza rilevante. Dispongono infatti di mezzi blindati e corazzati, di un buon numero di elicotteri, nonché schierano una brigata meccanizzata e un battaglione paracadutisti.

12. Prima della cosiddetta ristrutturazione, avviata nel 1975, l'esercito schierava sulla carta 36 brigate. Sulla carta, perché molte unità erano in condizioni simili, se non peggiori, delle divisioni sovietiche di terza categoria: erano cioè solo delle unità quadro.

13. Per una trattazione più estesa delle questioni economiche legate alla Difesa italiana cfr. M. De Andreis, A. Liberati, M. Maré, P. Miggiano, "La spesa militare in Italia", in De Andreis e Miggiano, 'op. cit.'.

14. L'M-47 è un carro americano, entrato in servizio negli anni '50. Gli eserciti occidentali lo considerano oggi poco più di un rottame e l'Italia sarà uno degli ultimi paesi a disfarsene. Allo scopo di sostituirlo (con abbondanza), l'esercito ha commissionato al consorzio Oto-Iveco 300 esemplari di un carro di "seconda generazione" (cioè più sofistificato del 'Leopard' 1) denominato C-1 'Ariete', e 450 esemplari di un blindato pesante (20 tonnellate, 8x8, cannone da 105 mm), denominato B-1 'Centauro'. Il consorzio ha già costruito i relativi prototipi. A titolo di paragone, comunque, si tenga presente che il corrispettivo orientale dell'M-47 - quanto a tecnologia e a periodo di entrata in servizio - sono proprio quei T-54/55 che, oltre ad essere praticamente tutto quello di cui dispone l'esercito ungherese, costituiscono la metà circa dei carri armati del Patto di Varsavia. Sul 'Centauro' e sull' 'Ariete' cfr. E. Po, "Etruria 87: l'esercito mostra i nuovi materiali", 'Rivista Italiana Difesa', ottobre 198

7. Un confronto finalmente non solo numerico tra i carri occidentali e quelli orientali si può invece trovare nel Rapporto Stokes, presentato il 2 novembre 1987, nel corso della 33esima sessione ordinaria, a nome della Commissione sulle questioni di difesa e degli armamenti dell'Assemblea dell'Unione dell'Europa Occidentale (UEO), col titolo 'Evaluation de la menace'.

15. Allo stesso risultato si arriva utilizzando come unità di misura l'ADE (Armored Division Equivalent), un concetto sviluppato al Pentagono e usato anche da analisti indipendenti. Paolo Farinella valuta in 3 ADE le forze italiane, contro 3-4 ADE per le unità sovietiche e ungheresi che potrebbero dirigersi verso Gorizia. Ciò si traduce in un rapporto di forze "simile a quello del fronte centrale, ossia non particolarmente allarmante. Questa conclusione - prosegue Farinella - è rafforzata se si tiene conto del fattore geografico e del rapporto forze-spazio". Cfr. "Difesa non nucleare e non offensiva sul fronte nord-est italiano", pre-print del Forum per i Problemi della Pace e della Guerra di Firenze. Moderatamente ottimista è anche il giudizio del generale di divisione dell'esercito Carlo Jean: "La scarsa ampiezza dello scacchiere nord-orientale italiano, l'intensissima urbanizzazione del corridoio friulano veneto, esteso in senso est-ovest per circa 120 km, la natura montana delle posizioni di confine, l'e

sistenza di una fascia fortificata su più linee scaglionate per 60 km di profondità e la presenza di Stati cuscinetto fra le frontiere italiane e le forze del Patto di Varsavia, consentono di formulare un giudizio più positivo sull'apporto italiano all'Alleanza, di quanto avverrebbe basandosi solo su indicatori percentualistici e finanziari". "I vincoli economici e di bilancio della Difesa italiana", relazione presentata al seminario 'Il modello di difesa italiano e il fianco sud della NATO', organizzato dal CASD e l'Istituto Affari Internazionali (IAI) in collaborazione con la Canby Luttwak Associates, Roma 19/20 marzo 1987.

16. Tra cui quella di Jonathan Dean in questo stesso volume. Da parte sua Maurizio Cremasco ha scritto: "In effetti un'analisi delle esercitazioni del Patto di Varsavia dal 1970 al 1976 potrebbe portare alla conferma dell'ipotesi di una pianificazione militare del Patto di Varsavia che escluda l'invasione dell'Italia". "Situazione internazionale nell'area mediterranea e problematica del modello di difesa italiano", in Istituto Studi e Ricerche sulla Difesa (a cura di), 'Gli indirizzi della difesa italiana', stampato in proprio, Roma, 1982, p. 113.

17. "L'Italia come 'media potenza'. La politica estera e il modello di difesa", in L. Caligaris e C.M. Santoro, 'Obiettivo difesa', Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 65-6.

18. "Il nuovo modello della difesa italiana: problemi di dottrina, opzioni e linee di tendenza", relazione presentata al seminario 'Il modello di difesa ...', cit.

19. "La politica militare italiana nel Mediterraneo. Un nuovo corso?", relazione presentata al seminario 'Il modello di difesa ...', cit.

20. Ma è una conclusione che chi scrive non crede che verrebbe condivisa esplicitamente dagli studiosi italiani citati.

21. Anche in questa sezione i dati provengono dal 'Military Balance 1987-1988', a meno di diversa indicazione.

22. Solo nel caso della marina statunitense, tra le unità principali di superficie rientrano anche le corazzate: quelle della classe 'Iowa', una delle quali è in media assegnata al teatro Atlantico/Mediterraneo.

23. La flotta sovietica del Mar Nero comprende invece 0 SSBN, 0 SSN, 32 sottomarini a propulsione convenzionale, 72 unità principali di superficie (4 corvette nel Mar Caspio), 95 unità minori di superficie (5 nel Mar Caspio), 90 unità per la guerra di mine (25 nel Mar Caspio), 28 navi anfibie (3 nel Mar Caspio), 77 navi ausiliarie (7 nel Mar Caspio). Secondo l'annuario dell'IISS, "la missione principale della flotta è probabilmente quella di sostenere le operazioni in Tracia insieme alla Squadra del Mediterraneo; ruolo secondario, il controllo del mare al largo della costa turca".

24. La Romania dispone di 1 caccia, 3 fregate, 3 corvette e 6 vedette missilistiche; la Bulgaria di 4 sommergibili, 3 fregate, 3 corvette e 6 vedette missilistiche.

25. Il passaggio per il Bosforo è regolato dalla convenzione di Montreaux del 1936. Secondo la convenzione, esso è vietato nel caso delle "capital ships", le corazzate di una volta, il cui equivalente moderno sono le portaerei. Il trattato limita altresì il transito dei sottomarini a quelle unità dirette ai porti per riparazioni - di fatto impedendo l'uscita dei sottomarini sovietici.

26. Per le ragioni ricordate nella nota precedente.

27. S. Silvestri, M. Cremasco, 'Il fianco sud della NATO', Feltrinelli, Milano, 1980, pp. 97-8.

28. IAI, 'L'Italia nella politica internazionale', anno primo: 1972-1973, Edizioni di Comunità, Milano, 1973, p. 209.

29. Oltre a quelle ricordate altrove nel testo, non vanno dimenticate quelle di Grecia e Turchia. Limitandoci alle maggiori unità: la prima dispone di 10 sottomarini, 14 caccia e 7 fregate; la seconda 17 sottomarini, 12 caccia, 4 fregate. Va anche tenuto nel debito conto che molte marine della NATO sono dotate di unità leggere veloci armate con missili antinave.

30. Ecco le maggiori unità della marina italiana: 9 sommergibili, 4 incrociatori, 4 caccia, 14 fregate, 11 corvette.

31. La marina spagnola è tutt'altro che trascurabile. Per limitarci alle sole unità maggiori, essa schiera 8 sommergibili, 2 portaerei, 9 caccia, 12 fregate, 4 corvette.

32. P. Miggiano, "La politica di sicurezza italiana", cit., p. 168. Si tratta di 2 SSN, 9 sottomarini a propulsione convenzionale, 2 portaerei, 14 unità principali di superficie, 5 cacciamine, 5 navi anfibie.

33. Alle manovre navali nel Mediterraneo prende parte abitualmente anche la Gran Bretagna.

34. "Le navi da guerra e i marinai statunitensi, che negli ultimi due decenni erano diventati una rarità nei porti francesi, sono di nuovo tornati dei frequentatori abituali di Marsiglia e di altri porti francesi nel Mediterraneo". J. Fitchett, "Marseille Welcomes Closer U.S. Navy Ties", 'International Herald Tribune' (d'ora in avanti 'IHT'), 25 novembre 1987. A dicembre dell'87, inoltre, il ministero della Difesa francese annunciava un accordo di cooperazione con l'Italia (da estendere successivamente anche alla Spagna) "per facilitare gli scambi di informazioni relative alla difesa aerea e ai sistemi di allarme radar nel Mediterraneo". F. Rampini, "Accordo militare Italia-Francia per sorvegliare il Mediterraneo", 'Il Sole-24 Ore', 10 dicembre 1987. A quanto pare i francesi hanno anche sottoscritto "Memorandum d'intesa con i comandi NATO per la cooperazione in tempo di guerra". G. Piccioni (capo di Stato maggiore della marina militare italiana), "Il ruolo delle forze navali italiane, europee e dell'Alleanza

nel Mediterraneo", 'Informazioni Parlamentari Difesa' (d'ora in avanti 'IPD'), n. 6-7-8, 1987.

35. Cfr. R.G. Weinland, "Soviet Strategy and the Objectives of Their Naval Presence in the Mediterranean", in G. Luciani (a cura di), 'The Mediterranean Region', Croom Helm, London Canberra, 1984, pp.284-5.

36. Uno di tali indicatori è il numero medio delle unità (da guerra e ausiliarie) componenti la Quinta Squadra: 45 nell'81, 38-39 nell'86 - il primo dei due dati è tratto da R.G. Weinland, cit., p. 287. Più recentemente, la trasformazione in portaelicotteri di quella che doveva essere la prima portaerei sovietica "...insieme a una riduzione dell'attività cantieristica e delle manovre navali sovietiche attorno al mondo, hanno confermato alla maggior parte degli esperti che il Cremlino ha significativamente ridimensionato i suoi piani per una marina d'altura ('blue water navy'), in grado di proiettare la potenza sovietica nel Terzo Mondo". R.C. Toth, "Moscow Downgrades New Aircraft Carrier", 'IHT', 23 ottobre 1987.

37. L'ultima volta in cui ciò è accaduto è il bombardamento alla Libia nell'aprile del 1986, al quale hanno preso parte appunto due gruppi navali centrati sulle portaerei.

38. Silvestri e Cremasco, 'op. cit.', p. 107.

39. Si tratta di 115 velivoli, tra cui forse una quarantina (2 reggimenti) di più moderni Tu-22M 'Backfire'. Non va dimenticato, comunque, che un maggior raggio d'azione compensa solo in parte la perdita di basi 'sul' teatro, poiché quanto più è lontano l'aeroporto di partenza, tanto più alta è la probabilità di un allarme tempestivo per la NATO.

40. Silvestri e Cremasco, 'op. cit', p. 116.

41. M. Cremasco, "La politica militare italiana nel Mediterraneo. Un nuovo corso?", cit. Sono praticamente le stesse tesi de 'Il fianco sud della NATO', cit., cfr. p. 117. La tesi che la NATO non possieda già il controllo del mare nel Mediterraneo è assai discutibile; almeno se per controllo del mare si intende, come comunemente si fa, la protezione delle linee di comunicazione marittime. La minaccia tipica verso queste ultime sono infatti i sottomarini d'attacco. Ora, la missione primaria di quelli sovietici del Mare del Nord è proteggere i propri SSBN e non attaccare le navi delle marine NATO. Di conseguenza sono pochi i sottomarini d'attacco sovietici che si avventurano nel Mediterraneo, la cui chiusura da parte della NATO è per giunta cosa fattibile. Sul concetto di 'sea-control' cfr. J.J. Mearsheimer, "A Strategic Misstep - The Maritime Strategy and Deterrence in Europe", 'International Security', autunno 1986. Quanto alla capacità di 'power projection' della Sesta Flotta, è forse degno di nota che il

comandante dei Marines, gen. Kelley, in un articolo "si è spinto così lontano da prospettare la possibilità di sbarchi di Marines lungo il Baltico orientale o 'le coste del Mar Nero'" (nostro corsivo). 'Ibidem', p. 24.

42. Anche gli inglesi chiamano il proprio paese 'The Unsinkable Aircraft Carrier' - incidentalmente la locuzione è anche il titolo di un volume di Duncan Campbell sulle basi americane in Gran Bretagna.

43. Secondo Maurizio Cremasco "la proiezione della penisola nel centro del Mediterraneo, la possibilità di totale controllo del canale di Sicilia, fondamentale punto di passaggio e di divisione tra i due bacini, la posizione privilegiata della Sardegna in termini di copertura aerea e navale del Mediterraneo occidentale, l'ulteriore profondità 'operativa' offerta dalle isole minori, Lampedusa e Pantelleria, sono tutti elementi strategicamente importanti che fanno dell'Italia un paese 'necessariamente' mediterraneo". "La politica militare italiana ...", cit. Considerazioni altrettanto autoevidenti possono essere applicate praticamente a qualsiasi paese del mondo, come mostra l'esempio seguente: "La Grecia, il membro più meridionale della Comunità Europea, che consiste di una quantità innumerevole di isole e di una porzione della penisola balcanica, rappresenta un legame geostrategico significativo tra l'Europa e il medioriente, una delle aree mondiali più importanti...La Grecia ha un ruolo importante da giocar

e nella sicurezza dei Balcani e del Mediterraneo. La sua collocazione ne ha fatto il ponte naturale tra l'Europa, l'Asia e l'Africa, e la sua unica combinazione di geografia montana e marittima ne ha fatto il centro per il controllo del Mediterraneo orientale". M. Sadlowski, "Publisher's Foreword" di "Defence and Economics in Greece", numero speciale 1987 della rivista 'NATO's Sixteen Nations'.

44. E' una tesi rintracciabile nel 'Libro Bianco' della Difesa, cit., ma esposta forse con maggiore chiarezza sia in L. Lagorio, 'Indirizzi di politica militare', Ministero della Difesa, Roma, giugno-luglio 1980, sia in G. Spadolini, "Indirizzi di politica militare" (presentati alla Camera nel novembre del 1983), 'IPD', n. 19-20 del 1983.

45. L'art. 5 del Trattato recita: "Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell'America settentrionale sarà considerato quale attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se tale attacco dovesse verificarsi ognuna di esse...assisterà la parte o le parti così attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altri parti, l'azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l'impiego della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell'Atlantico settentrionale". L'art. 6 specifica che quanto sopra vale non solo per gli attacchi al territorio di una delle parti, ma anche contro "le forze, le navi, o gli aeromobili" che si trovino tra l'altro "nel Mare Mediterraneo".

46. Anche in questa sezione i dati provengono dal 'Military Balance 1987-1988', salvo diversa indicazione.

47. Usando, ovviamente, un pò di grano di sale. Pare lecito, ad esempio, escludere gli alleati della NATO e i paesi saldamente filo-occidentali, come il Marocco, l'Egitto e Israele. Gli ultimi due dispongono di forze militari ragguardevoli. In particolare Israele, col raid aereo su Tunisi del settembre del 1985, ha dimostrato di poter colpire anche a grande distanza dal proprio territorio. Che Israele possa essere una minaccia alla sicurezza italiana è una tesi difficile da sostenere, comunque. La Tunisia, a parte ogni considerazione sulle sue scelte di politica internazionale, è infine un paese assai poco agguerrito: l'aeronautica consta in tutto di 12 cacciabombardieri (F-5) e la marina di 5 vedette veloci missilistiche.

48. Non è un caso, forse, che in Algeria si trovino circa 1000 consiglieri militari sovietici.

49. Primo tra tutti il metanodotto Algeria-Italia attraverso il quale passa parte delle esportazioni del gas algerino.

50. E. Shumacher, "As Bombs Fell and Sky Blazed, Traffic Moved, Lights Were On", 'IHT', 16 aprile 1986.

51. R. Halloran, "Libya's Military Is Weak By Mideast Standards, Analysts, Officers Say", 'IHT', 27 marzo 1986.

52. Cfr. J. Brooke, "Chad's Desert Weapon: Fast Pickup Truck", 'IHT', 15-16 agosto 1987.

53. Cfr. S. Greenhouse, "Chad Says It Killed 1730 Libyans And Destroyed 22 Planes at Air Base", 'IHT', 9 settembre 1987.

54. J. Brooke, "Chad and Libya Calmly Rearm", 'IHT', 10-11 ottobre 1987.

55. R. Halloran, "Libya's Military etc.", cit.

56. E. Sciolino, "U.S. No Longer Considers Libya a Threat", 'IHT', 11 gennaio 1988.

57. "Reagan's Raiders", 'Newsweek', 28 aprile 1986. L'articolo così prosegue: "Il che può spiegare perché motovedette libiche il giorno dopo lanciavano un inutile attacco contro l'isola". Si noti che in questa ricostruzione, e in tutte quelle apparse sulla stampa americana in quei giorni, si parla di motovedette ('patrol boats') e non dei missili di fabbricazione sovietica 'Scud', nominati dal governo e dalla stampa italiani. Il governo in particolare non ha mai portato elementi certi per dar credito alla tesi dell'attacco con gli 'Scud', che gli sarebbe stato segnalato, in modo per giunta del tutto casuale (Cfr. V. Nigro, "La lezione di questa guerra", 'La Repubblica', 25 aprile 1986), dall' 'intelligence' americana. Tuttavia: a) è dubbio che i satelliti da 'early warning' americani riescano a scorgere il lancio di un missile relativamente piccolo come lo 'Scud' (la traccia per i sensori all'infrarosso è cioè debole); b) la Libia è ai confini della zona d'ombra della copertura di quei satelliti (cfr. la fig

ura 21-1, "Approximate DSP Satellite Earth Coverage" in A.B. Carter, J.D. Steinbruner, C.A. Zracket (a cura di), 'Managing Nuclear Operations', The Brookings Institution, Washington DC, 1987, p. 684); c) dal punto di vista militare è presumibile che gli 'Scud' vengano abitualmente schierati in prossimità dei confini con l'Egitto, da dove non possono certo raggiungere Lampedusa; d) se è così, allora non è possibile far compiere in poche ore alle batterie di quei missili, per quanto siano mobili, il migliaio di chilometri che le divide dal confine con la Tunisia, l'unico punto sulla costa dal quale, al massimo della gittata, gli 'Scud' possono teoricamente colpire Lampedusa. L'interesse del nostro governo nell'escludere l'impiego libico di missili navali è evidente: molti di quei missili sono gli 'Otomat', di fabbricazione italiana.

58. Tuttavia "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali", art. 11 della Costituzione.

59. Anche se viene scortato qualche mercantile e si tenta di sminare la zona, quella di mostrare la bandiera è essenzialmente la missione svolta dalle navi italiane - e da quelle delle altre marine occidentali - nel Golfo Persico a partire dal settembre dell'87.

60. "Il ruolo delle forze navali italiane, europee e dell'Alleanza nel Mediterraneo", cit.

61. Ministero della Difesa, 'Nota aggiuntiva allo stato di previsione per la Difesa 1988', Presentata al Parlamento dal ministro della Difesa On. Valerio Zanone il 7 ottobre 1987, Roma, p.9.

62. 'Ibidem', p. 8. Vero è che più avanti (p.9) si precisa che "Le forze aeronavali nazionali opereranno normalmente nel più vasto contesto delle operazioni alleate"; subito dopo tuttavia segue un 'caveat' in cui ci si affretta a ristabilire le distanze dalla NATO: "Esse dovranno, tuttavia, essere in grado di svolgere anche solo in proprio parte delle operazioni necessarie per ricercare e mantenere il controllo del mare". Talvolta sembra davvero che in Italia i peggiori nemici dell'Alleanza atlantica siano al ministero della Difesa.

63. IAI, 'L'Italia nella politica internazionale', anno quattordicesimo 1985-1986, Franco Angeli, Milano, p. 177.

64. "Italian defence - evolving to meet a rapidly changing world situation", 'NATO Review', ottobre 1987, dal quale sono tratte tutte le citazioni seguenti del gen. Bisogniero. Citiamo, traducendolo, dall'inglese perché nel testo pubblicato dall'edizione italiana della stessa rivista, 'Notizie NATO', molte affermazioni sono state "addolcite", oppure eliminate.

65. Per alcune cifre al riguardo cfr. la nota 10. Diversi i dati forniti dal gen. Jean, secondo il quale gli effettivi italiani erano nel 1986 "di 490.000 unità (100.000 Carabinieri), rispetto alle 107.000 (16.000 Gendarmerie) in Belgio, 557.000 in Francia (85.000 Gendarmerie), 495.000 in Germania, 107.000 nei Paesi Bassi e 331.000 in Gran Bretagna". Cfr. "I vicoli economici ...", cit.

66. Cfr. IRDISP, 'Quello che i russi già sanno e gli italiani non devono sapere', stampato in proprio, Roma, 1983, la cartina allegata. Nel libro (p. 15) si legge pure che "Ancora oggi oltre un terzo dei circa 316 mila uomini dell'esercito è assorbito dalle attività di ufficio, presidiarie, amministrative di vario genere".

67. C. Jean, "I vincoli economici ...", cit.

68. Si tratta della brigata motorizzata Friuli (Toscana), della brigata meccanizzata Granatieri di Sardegna (Lazio), della brigata motorizzata Acqui (Abruzzi), della brigata meccanizzata Pinerolo (Puglia), della brigata motorizzata Aosta (Sicilia). La tendenza prevalente è tutto l'opposto di uno sfoltimento: nel quadro della riorganizzazione dell'esercito avviata nel 1986, queste cinque brigate verranno tutte equipaggiate con il blindato pesante C-1 'Ariete' (cfr. nota 14), per difendersi da chi - visto dove sono schierate - non è dato sapere. Sull'argomento cfr. P. Valpolini, "La nuova struttura dell'esercito", 'Panorama Difesa', gennaio-febbraio 1988.

69. Va anche detto che, a giudicare da quanto è successo in varie parti del mondo in questo dopoguerra, non pare che la leva garantisca granché contro un ruolo pretoriano dei militari.

70. Si può obiettare che una volta tolto del personale militare dagli uffici, sarebbe necessario rimpiazzarlo con altro civile - e ciò produrrebbe un risparmio solo se le retribuzioni medie dei civili fossero inferiori, a parità di mansioni, a quelle dei militari. Tuttavia la chiave è sempre nella parte operativa dell'intera struttura della Difesa. Riducendo tale parte dovrebbe contrarsi anche quella burocratico-amministrativa, qualunque sia la sua composizione militare/civile.

71. C. Jean, "I vincoli economici ...", cit.

72. Cfr. W.M. Arkin e R. Fieldhouse, "Le forze americane in Italia", in IRDISP, 'Quello che i russi già sanno e gli italiani non devono sapere', II ed., stampato in proprio, Roma, 1984.

73. La situazione non dovrebbe essere cambiata granché dal 1983. Sono state forse ritirate le mine atomiche, a seguito di una decisione presa dal Gruppo di pianificazione nucleare della NATO nell'ottobre di quell'anno a Montebello, in Canada. La scelta italiana di acquistare i missili antiaerei 'Patriot', annunciata dal ministro della Difesa Zanone nel corso di un viaggio a Washington nel novembre del 1987, dovrebbe portare al ritiro, nei prossimi anni, delle 70 testate per i missili 'Nike Hercules'.

74. Considerazioni simili possono essere fatte per le armi nucleari navali: la minaccia dei sottomarini sovietici nel Mediterraneo è abbastanza contenuta da consentire un loro ritiro.

75. "Evoluzione del quadro strategico in Europa e nel Mediterraneo. Riflessi sulla politica di sicurezza dell'Italia e sullo strumento difensivo nazionale", 'IPD', n. 6-7-8, 1987.

76. Una prima applicazione di queste nuove concezioni difensive al teatro nordorientale italiano, ispirata però più al modello di Horst Afheldt che a quello di von Mueller, si può trovare nel lavoro di Paolo Farinella citato alla nota 15.

77. Per i primi tentativi in questo senso cfr. B. Moller, "A Non-Offensive Maritime Strategy for the Nordic Area", 'Working Paper', n. 3/1987 del Centre for Peace and Conflict Research at the University of Copenhagen; A. Boserup "Two Papers on Maritime Defence", 'Ibidem', n. 1/1987; Commodor E. Schmaehling, "The Survivability of Static and Large Weapon Systems against Modern Stand-off Weapons" e "Thoughts on the Future of Surface Forces", papers presentati al 'Fifth Workshop of the Pugwash Study Group on Conventional Forces in Europe', Castiglioncello, Italia, 9-12 ottobre 1986.

78. Un esempio a portata di mano sono i 7 aliscafi tipo 'Sparviero', armati di missili 'Otomat', in linea con la marina militare italiana. Col costo di una fregata se ne possono acquistare 6, con quello dell'incrociatore portaelicotteri 11.

79. Per "terra" si intendono anche le isole, naturalmente. Missili antinave e mezzi antisommerigibili schierati, ad esempio, a Pantelleria e sulla costa siciliana potrebbero praticamente chiudere il canale di Sicilia.

80. "Mentre i limiti finanziari si sono frapposti al riarmo navale dell'amministrazione (Reagan), le forze di scorta, gli aerei e gli elicotteri antisommergibili, i sensori fissi, e le mine difensive hanno ricevuto risorse insufficienti. Dal punto di vista del controllo dell'escalation, ciò è un vero peccato". B.R. Posen, "U.S. maritime strategy: a dangerous game", 'Bulletin of the Atomic Scientists', settembre 1987.

81. Il ministro della Difesa ha scritto di recente, riferendosi evidentemente all'Italia: "La quinta economia libera del mondo non può rinunciare ad un sistema difensivo adeguato al ruolo che le compete nella cooperazione occidentale". V. Zanone, "Ora l'Europa deve imparare a difendersi", 'Il Sole-24 Ore', 9 dicembre 1987.

82. Ecco come l'Italia è entrata nel club dei sette maggiori paesi industrializzati. "A causa dell'esclusione italiana dal vertice della Guadalupa, migliorare il ruolo dell'Italia nell'Alleanza divenne la prima preoccupazione. A quanto pare, Cossiga (che era primo ministro nel 1979. ndr) aveva detto ai suoi collaboratori che se l'Italia avesse cooperato sugli euromissili, egli si aspettava che non si sarebbe più ripetuta nessuna Guadalupa. Per scelta o per coincidenza, sta di fatto che il vertice economico del giugno dell'80 ebbe luogo a Venezia". D. N. Schwartz, 'NATO's Nuclear Dilemmas', The Brookings Institution, Washington DC, 1983, p. 230.

83. La questione è splendidamente trattata da M.H. Halperin in "Why Bureaucrats Play Games", 'Foreign Policy', n. 2, 1971.

 
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