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Colombo Giuseppe - 14 febbraio 1989
Droga: La parola al tossicodipendente.
Giuseppe Colombo

Comunità di Via Gaggio, Lecco

SOMMARIO: La proposta di legge governativa sulla droga deresponsabilizza il tossicodipendente facendone un soggetto passivo nei confronti del "recupero coatto". Le responsabilità delle comunità.

(Atti del Convegno "No alla legge governativa sulla droga, repressiva, illiberale, ingiusta", Roma 14 febbraio 1989)

Voglio dare alcuni spaccati a partire dalla mia esperienza, quella cioè di un operatore che lavora in una comunità e che si imbatte in problemi molto concreti e che ha a che fare con un discorso di legge che gli si cala sopra e a volte riesce difficile da coniugare.

Vorrei dire alcune di queste cose a partire forse un po' da lontano, in termini più generali: primo, qual è secondo me la centralità del problema, poi qualcosa sulla legge, sulla situazione politica come noi l'abbiamo letta all'interno della nostra regione Lombardia - e questa credo che sia emblematica, perché la Lombardia viene valutata come il laboratorio delle politiche - e infine qualcosa sul lavoro terapeutico.

Credo che un primo elemento che mi sembra significativo dover prendere in considerazione è che quando c'è stata questa campagna d'autunno, a qualcuno forse è sembrato che contrapporsi a Craxi fosse già un modo per dire di essere terapeutici nei confronti della tossicodipendenza.

Vorrei dare almeno il suggerimento di non fermarsi a questa pura contrapposizione senza pensare di declinare forse in altri termini, in profondo anche quelli che sono i problemi della tossicodipendenza.

Il dibattito si è molto puntualizzato sul dubbio amletico di punire o non punire, invece credo che si debba avere anche il coraggio di indicare come il soggetto che è primo in causa possa o abbia qualche possibilità di misurarsi con la sua stessa situazione.

Nessuno, in pratica, si è chiesto chi fosse questo soggetto che veniva ad accaparrarsi il diritto di lasciar vivere o morire gli altri soggetti; chi fosse, ma soprattutto da quale posizione e in nome di chi parlasse degli altri e in nome di altri.

Detto in altri termini, chi è che lascia vivere o morire. E un'ottica che postula l'esistenza di una cura, di una necessità della cura del tossicodipendente scissa dalla sua posizione di soggetto di fronte al suo disagio; allora, da dove viene questa necessità della cura? Chi sorregge lo statuto di questa domanda? Lo Stato? L'opinione pubblica? I familiari dei tossicomani?

Autoritarismo e permissivismo mi sembra che si coniughino dentro

a queste due facce della stessa medaglia, a partire dalla posizione che chi detiene la possibilità di poter essere autoritario o permissivo nei confronti di un altro, gioca nei confronti di quest'altro medesimo.

Mi pare che il problema non sia allora tanto, come recentemente ha affermato un leader politico, salvare le vite e i destini umani: in questo c'è una demagogia, tanto fallimentare e inoperante sul piano concreto, quanto roboante nel dominio dell'immaginario collettivo; chi non è d'accordo? Chi può mettere in discussione le buone intenzioni che guidano la crociata?

Da parte mia, invece, credo che la questione vada letteralmente capovolta; l'accento mi pare vada messo sulle forze che altri devono mobilitare nell'interesse - supposto in verità - di chi buca, quanto sull'opportunità di rendere possibili delle condizioni perché qualcosa dell'ordine della soggettività di questo individuo tossicodipendente possa porsi.

Non si tratta, allora, di un generico e improbabile "noi" che fa qualcosa per gli altri, sugli altri, su di loro, perché questa credo che sia l'esperienza del soggetto tossicodipendente fin dalla sua infanzia e fin da quando ha maturato questo sintomo. Piuttosto si tratta di quanto una legge, un'istituzione renda possibile qualche cosa del situarsi soggettivo di ciascun individuo tossicomane.

In questo senso forse - e dico forse, perché non è la posizione del coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza a cui aderisco - la liberalizzazione, pur nella sua - a nostro dire - impraticabilità, forse, continuo a dirlo, è meno ipocrita di quanto non imponga una legge che pretende in qualche modo di scavalcare, di scartare, di togliere di mezzo questo soggetto di fronte al suo problema.

La cosa che mi ha sconvolto credo che sia stata la modalità volgarmente terroristica di portare le morti in piazza, per dire che il problema era emergente, quando sapevamo benissimo che il problema esisteva ancor prima che questo venisse detto; allora bucarsi può certamente voler dire morire, e ciò non significa che chi cerca la morte sia contento di farlo, ma anche il non riconoscimento dell'altro nella sua morte è semplicemente il modo di regalargli un'altra morte.

Questa seconda morte, forse, è quella che spiega e dice la prima.

L'errore sta nel pensare ad un soggetto che esiste come effetto di una cura, e non come condizione della medesima; al momento, allora, a me pare che stiamo parlando molto sul nostro fare, ma poco sulla possibilità di dare spazio alla parola di questo soggetto tossicodipendente.

Se è giusto sostenere che non può esistere una terapia quale diretta emanazione di una posizione punitiva dello Stato - e mi pare che qui lo abbiano affermato in molti - non si può chiedere allo Stato e al legislatore di fare una legge, di fare di una legge un'interpretazione terapeutica: la confusione è inestricabile e aumenta l'onnipotenza immaginaria, reale della società sana e curante, priva di confini tra il magistrato e l'operatore, un fronte unico - ma contro chi non si sa - che ha probabilmente l'unico effetto di ricompattare narcisisticamente i supposti curanti e passivizzare oltre misura il curato entro una dialettica duale, prima di una realistica via di uscita.

Sulla legge: su questa problematica della legge credo occorra interrogarsi in relazione alla valenza complessiva di un istituto umano alquanto significativo e indicativo sul piano simbolico, qual è quello della legge.

Dire che la legge opera soltanto in termini di punizione nei riguardi dell'insieme sociale di ciascun individuo, comporta il mistificare la valenza della legge, non accorgendosi tra l'altro che il ridurre un'istituzione simbolica al suo valore meramente operativo e fattuale, significa parallelamente ridurre lo spessore medesimo del soggetto umano sottoposto a questa legge.

Le leggi esistono e possono essere anche cambiate, però un conto è cambiare le leggi e un conto è penalizzare il concetto di legge in sé, e mi pare che dentro questa indicazione che non è riferita solamente alla legge sulla tossicodipendenza, ma anche a molte altre leggi che si stanno attivando, ci sia questo rischio.

Venendo alla tossicomania: il problema della legge è importantissimo e va colto in relazione anche al suo significato e al suo senso, e non a quello che fa o non fa: il problema è quotidiano, per il semplice fatto che il soggetto che non ha interiorizzato la legge simbolica al suo interno - quella edipica, tanto per intenderci - non può fare altro che ritrovarsi costantemente una legge reale dall'esterno, dal di fuori dunque, e gli esiti di questo sono abbastanza visibili.

L'esteriorizzazione di ogni riferimento strutturale alla legge fa tutt'uno con la problematica intrapsichica di questi soggetti che incontriamo ogni giorno; la legge nel reale non è evidentemente la legge del simbolico, ma l'interiorizzazione della seconda è la capacità consequenziale di misurarsi con la prima, anche - perché no - in termini di trasgressione. Nella tossicomania non esiste trasgressione, la trasgressione è puramente oggettiva, non è soggettiva, perché è un fatto, il farsi è un atto.

Ciò che va regolamentato sono gli atti nella misura in cui creano delle problematiche per gli altri, per tutti, perciò dovrebbe essere la figura stessa del tossicomane a sparire, perché in quanto tale il tossicodipendente, tossicomane, non esprime un rapporto con gli altri, se non conseguentemente per i gesti, per i comportamenti che ne derivano nel trovare, nel cercare questa sua possibilità di realizzarsi.

La marginalizzazione del soggetto tossicomane avviene nella misura in cui la sua responsabilità fa la differenza nei confronti degli altri cittadini; allora, il fatto stesso di essere tossicomane è differente rispetto agli altri.

Questo è il rischio che oggi sta ponendo la legge in questione: ciò rinforza la deresponsabilizzazione del soggetto passivizzandolo, la legge divide lui dagli altri, in luogo di sostenere la sua identificazione e una contestualità simbolica di appartenenza che è umanizzante e adultizzante.

A rivedere l'atteggiamento di talune comunità, nel modo in cui conducono la cura dei soggetti tossicomani, o di taluni operatori dalla maniera in cui gestiscono un ricovero o il metadone, c'è semplicemente da rabbrividire, perché si pongono nei confronti di questa legge in una maniera che discrimina il tossicomane non riconoscendogli questa sua soggettività e questa sua cittadinanza indistinta con gli altri.

Allora, anziché interrogare, fa questione la scandalosa convergenza che unisce l'onnipotente e insulso sadismo degli operatori e quello dei parenti del tossicomane, fino al larvato ed insostenibile masochismo del soggetto medesimo; in luogo di analizzare una simile sintomatica convergenza, se ne fa nella maggior parte dei casi il segno che il trattamento sta riuscendo, se questa convergenza avviene.

In verità basterebbe poco per accorgersi che la maggior parte delle norme a questo livello sono inventate e non hanno altra funzione che quella di umiliare narcisisticamente, di rafforzare la sua dipendenza, di permettere che fantasie mortifere dei genitori trovino un adeguato sostegno nel reale.

"Allora era proprio vero che ci volevano le maniere forti": questo è quello che spesso sentiamo. E altrettanto desolante, in molti casi, è ascoltare il pentitismo di ex tossicodipendenti e riconoscere in questo solo la voce della punizione e della colpa, e il totale silenzio della verità. Si parla fino alla nausea di tossicomania, ma nessuno a mio avviso si sforza di dire che cosa è, che cosa significa nell'esperienza soggettiva di un individuo: è vero che la droga è stata ed è tuttora un pretesto per legittimare posizioni tra le più disparate, ma è paradossale non andare oltre simili affermazioni.

A mio avviso, su questo è la responsabilità delle comunità - e io mi ci metto in primo - e degli operatori che è enorme, perché l'ottica gestionalistica del problema non ha permesso che il discorso si disancorasse da una referenza di taglio moralistico e sociologico.

Si è detto di tutto della tossicodipendenza, così come si è fatto di tutto per il tossicomane, non rendendosi conto che questa disponibilità del tossicomane ad essere trattato in tutti i modi possibili, era il segno palese ed inequivocabile del limite stesso della sua posizione di soggetto.

In luogo di interrogare questo limite, lo si è tranquillamente sposato, non riuscendo a comprendere che l'istituzione della tossicomania, in quanto figura sociale, non era altro che l'invenzione sociale di operatori cui il tossicomane passivamente aderiva, sperando di trovare lì, nell'"io sono tossicomane", un'identità altrimenti difficile da porre.

Sono riflessioni non mie, in questo caso, però credo che rappresentino quello che nella nostra comunità ci stiamo ponendo come interrogativo: di fronte, cioè, ad una legge che ancora una volta destabilizza il rapporto tra il soggetto e il suo disagio, e lo priva della possibilità di rendersene consapevole e di farlo proprio, di fare della sua stessa esperienza un termine finalizzato per un cambiamento.

Volevo aggiungere qualche altro elemento rispetto alla proposta che anche nel CNCA è stata fatta, è stata lanciata anche ieri in questo forum, ed è stata raccolta da alcuni giornali come un "addirittura si propone di penalizzare o di punire coloro che non permettono la realizzazione della legge". Bene, per noi credo che questo sia un nodo fondamentale; secondo noi oggi il vero problema non è quello dei tossicomani, ma è quello della latitanza del mondo politico.

E' l'osservazione più sconcertante di tutti questi anni: fa pensare che la regione Lombardia, la più colpita dal fenomeno, dalla droga, ha solo da qualche mese emanato la legge applicativa regionale - so che nelle altre regioni non c'è ancora, ma la Lombardia su questo è molto emblematica -.

A distanza di oltre dieci anni dall'uscita della legge 685, quest'ultima, sottoposta all'usura del tempo, non è riuscita mai ad essere verificata e oggi se ne propone una revisione senza averla mai applicata fino in fondo, mentre abbiamo vissuto profonde trasformazioni a livello di questo fenomeno.

D'altra parte questa latitanza del mondo politico a me sembra chiaramente indicata nella sponsorizzazione che ogni politico, a livello locale, fa del salvatore di turno, e questo noi lo vediamo molto spesso nelle nostre realtà periferiche. In questo caso, allora, lo Stato non solo ha creato confusione, alimentando autolegittimazioni a qualsiasi esperienza, ma non ha mai chiarito la sua posizione, così ogni politico traccia la sua strada, cancella con un colpo di spugna storie costruite da anni di pazienza sul territorio, crea delle dipendenze assistite, anche laddove la base aveva prodotto interventi preventivi e innovativi.

Noi crediamo di esprimere, attraverso questa difficoltà, di vederci distanti ancora una volta da questo mondo politico che non sa leggere quelle che sono le nostre esperienze di volontariato, anche di pubblico, e che invece continua paradossalmente a inseguire delle soluzioni e delle alternative a questo problema, scavalcando completamente tutto quello che si è fatto e si sta facendo con gran fatica nel nostro territorio.

 
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