SOMMARIO: Scheda sul referendum contro la caccia, promosso da DP e Verdi. Sentenza della Corte costituzionale
(CAMERA DEI DEPUTATI - QUADERNI DI DOCUMENTAZIONE DEL SERVIZIO STUDI - IL REFERENDUM ABROGATIVO IN ITALIA: LE NORME, LE SENTENZE, LE PROPOSTE DI MODIFICA, Roma 1981 - Aggiornamenti successivi)
15 marzo 1989: annuncio della richiesta (G.U. 63/1989)
8 luglio 1989: presentazione della richiesta
19 dicembre 1989: Ordinanza Ufficio centrale per il referendum della Corte di cassazione che dichiara legittima la richiesta
18 gennaio 1990: Sentenza n. 63 della Corte costituzionale che dichiara la ammissibilità della richiesta
26 marzo 1990: D.P.R. di indizione del referendum
3 e 4 giugno 1990: Svolgimento del referendum
3 luglio 1990: Verbale dell'Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione che accerta, a norma dell'art. 36 della legge n. 352/1970, che alle votazioni per il referendum non ha partecipato la maggioranza degli aventi diritto, così come richiesto dall'art. 75 della Costituzione.
-------------------------
CORTE COSTITUZIONALE
SENTENZA 18 GENNAIO 1990 N. 63
(...)
"Considerato in diritto":
1. - Le due richieste di referendum, relative, l'una, all'abrogazione parziale della legge 27 dicembre 1977 n. 968 (Principi generali e disposizioni per la protezione della fauna e la disciplina della caccia) e l'altra all'abrogazione dell'art. 842, primo e secondo comma, codice civile (accesso nel fondo altrui per l'esercizio della caccia) presentano analogia di materia: i relativi giudizi vanno quindi riuniti per essere decisi con unica sentenza.
2. - In conseguenza del mancato intervento del governo e dell'inammissibilità di quello delle associazioni venatorie, pronunciata, seguendo la sua precedente sentenza n. 28 del 1987, con l'ordinanza del 16 gennaio 1990, la Corte ha il compito di accertare d'ufficio la sussistenza dei requisiti di ammissibilità delle due richieste in discussione. A tal fine deve stabilire se ricorra qualcuno dei limiti espressamente previsti dall'art. 75, secondo comma, Cost. o comunque impliciti nel sistema, relativi alle normative non suscettibili di consultazioni referendarie abrogative; limiti di ammissibilità, e perciò estranei a valutazioni di opportunità politica, ovvero di convenienza socio-economica.
La Corte deve poi accertare se la struttura dei quesiti proposti sia conforme alle esigenze connesse alla loro funzione.
3. - L'esame de compiere non si estende invece al controllo sul procedimento svoltosi avanti all'Ufficio centrale per il referendum presso la corte di cassazione, previsto dall'art. 32 cit. l. n. 352 del 1970. Tale procedimento, come più volte riconosciuto in precedenti decisioni (sentt. nn. 252/1975; 22/1981; 35/1985), ha una sua autonomia e si conclude definitivamente con l'ordinanza che decide sulla legittimità delle richieste referendarie, sicché spetta alla Corte di prendere soltanto atto della giuridica esistenza del provvedimento (positivo), escluso il potere di procedere al riesame di esso.
Com'è noto, il doppio procedimento di controllo, distribuito tra l'Ufficio centrale e la Corte, ha formato oggetto di varie critiche in dottrina, ritenendosi preferibile da taluno che esso venga concentrato in un unico organo, come avviene in diversi ordinamenti, e optandosi da altri per l'inversione dell'ordine delle due verifiche e per lo snellimento del suo concreto funzionamento.
E' chiaro però che trattasi di proposte "de jure condendo", non incidenti sulla vigente disciplina normativa, che definisce e circoscrive la funzione della Corte nel senso sopra indicato.
4. - Anche con la disposta riunione dei giudizi, che ha natura strettamente processuale, le richieste dei due referendum conservano sul paino sostanziale l'intrinseca autonomia, sicché la loro ammissibilità deve essere valutata separatamente e indipendentemente dalla circostanza della contemporanea presentazione e del contestuale provvedimento positivo dell'Ufficio centrale. In particolare, i requisiti di struttura dei quesiti referendari vanno considerati con riferimento a ciascuno di essi, e non già al loro complesso. Ciò è di tutta evidenza se i presentatori non siano i medesimi, come si verificò nel caso esaminato con la sent. n. 26 del 1981, la quale ammise richieste di referendum sulla medesima materia aventi finalità diverse, se non addirittura opposte.
Ma ciò non è men vero quando i presentatori siano gli stessi, giacché sarebbe arbitrario - come può desumersi dalla natura stessa del giudizio di ammissibilità - supporre un'artificiosa unità di quesiti che, avendo un differente oggetto, non possono non essere valutati nella loro individualità. Il che è in perfetta correlazione con le modalità della votazione, in quanto gli elettori sono chiamati ad esprimere la loro volontà separatamente e possono liberamente orientarsi in maniera diversa su ciascuna richiesta.
5. - L'autonomia delle richieste sussiste, per così dire, anche in senso verticale, essendo estranee al giudizio di ammissione le eventuali conseguenze del suo esito favorevole, le quali non sono rilevanti nello stesso giudizio, dalla cui regolamentazione legislativa non sono prese in considerazione né espressamente né implicitamente.
Da questa disciplina è evidente la difficoltà e l'incertezza di un rigoroso accertamento "a priori", che potrebbe portare ad un risultato sommario e provvisorio, suscettibile di essere smentito con più adeguato approfondimento dialettico: da ciò risulta chiaro come non possa negarsi un mezzo di democrazia diretta, quale la consultazione referendaria, sulla base di elementi labili ed incerti.
In tali sensi è la giurisprudenza della corte, la quale (sent. n. 26/1987) si pose appunto il problema se un favorevole esito del referendum potesse, senza un immediato intervento legislativo, risultate non aderente ai precetti costituzionali; tuttavia, in conformità ad un precedente orientamento, essa ritenne allora legittima la richiesta referendaria, avvertendo che la conseguente situazione normativa avrebbe potuto essere presa in considerazione soltanto successivamente, in un ordinario giudizio di costituzionalità.
6. - Ciò posto in linea generale, per quanto concerne la prima richiesta non potrebbe ritenersi, contrariamente a qualche tesi dottrinale discorde, che essa incontri il limite (implicito) delle "leggi a contenuto costituzionalmente vincolato": categoria, questa elaborata nella sent. n. 16 del 1978 (e in seguito costantemente accolta dalla Corte) la quale ha rilevato che, potendo incidere la consultazione popolare soltanto su leggi ordinarie con esclusione della Costituzione e delle altre fonti di rango costituzionale, il medesimo limite vale, per identità di "ratio", anche per quelle leggi ordinarie il cui nucleo normativo non può essere alterato o privato di efficacia senza violare disposizioni di livello costituzionale.
Ciò - si osserva appunto - avverrebbe nella fattispecie, in quanto la richiesta di referendum servirebbe sostanzialmente a modificare l'art. 117 Cost., sopprimendo la materia della "caccia" da quelle attribuite alle regioni.
In contrario va anzitutto rilevato che su alcune forme di caccia, intesa in senso tradizionale, la potestà legislativa regionale sopravviverebbe comunque (ad es. in materia di caccia detta "di selezione" e di quella ai c.d. "ungulati").
Ma occorre soprattutto notare che il termine "caccia", contenuto nella Carta fondamentale, non può essere inteso secondo un'accezione fissa e immutabile, bensì con criteri evolutivi, ciò che del resto vale per ogni disposizione costituzionale e particolarmente nella definizione delle materie attribuite alle competenze regionali. In proposito va in particolare ricordato come, secondo una moderna e sempre più ampia concezione, per "caccia" non possa intendersi soltanto l'attività concernente l'abbattimento di animali selvatici, bensì anche quella congiuntamente diretta alla protezione dell'ambiente naturale e di ogni altra forma di vita, a cui viene subordinata qualsiasi attività sportiva.
In tal senso sono orientate varie forze politiche, che hanno presentato alcune proposte di legge al fine di sostituire la normativa in discussione con altra più idonea alle suddette finalità e conforme alla Direttiva comunitaria n. 409/79, di cui si parlerà in prosieguo; e su ciò, sia pure in maniera variegata, concordando le associazioni venatorie, essendo ormai generale e profondamente sentito l'interesse alla protezione della fauna ed all'equilibrio dell'ambiente.
Inoltre, tale concezione trova conferma sul piano legislativo, in quanto l'art. 99, primo comma, D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 statuisce che nella materia "caccia" rientra anche la polizia venatoria, la difesa del patrimonio zootecnico e la protezione faunistica. Peraltro, la tutela della fauna appare nella stessa legge n. 968 del 1977 (Principi generali e disposizioni "per la protezione della fauna e la disciplina della caccia") accanto - anzi ancor prima - della disciplina dell'attività venatoria, anche se ciò non torva poi rigorosa corrispondenza nelle singole e concrete disposizioni. Ciò non è sfuggito alla Corte, la quale, cogliendo lo spirito della mutata coscienza sociale, ha avuto occasione di considerare quella in discussione come legge di grande "riforma economico-sociale" e di sottolineare l'importanza delle disposizioni con fine protezionistico della fauna e conseguentemente della tutela dell'ambiente (sent. n. 1002 del 1988).
Infine, anche la disciplina internazionale e quella comunitaria, che saranno meglio indicate in seguito, si muovono nello stesso senso e in particolare la norma comunitaria (direttiva 409/79 cit.) autorizza addirittura gli Stati membri ad una più rigorosa disciplina di quella da essa stessa stabilita (art. 14).
Deve quindi concludersi sul punto che la richiesta di referendum non è diretta ad incidere su una disposizione della Costituzione, ma tende soltanto a modificare la disciplina ordinaria vigente.
7. - Né, sotto altro aspetto, la norma costituzionale potrebbe considerarsi coinvolta in quanto l'abrogazione della legge- cornice farebbe venire meno la cooperazione dello Stato nelle materie regionali, e consistente nella definizione dei principi fondamentali della materia.
Al riguardo è stata enucleata in dottrina una categoria di leggi c.d. "necessarie", che sarebbero anch'esse insuscettibili di consultazione popolare. Ma, anche se si potesse prescindere dai notevoli ostacoli alla configurabilità di tale categoria quale limite all'ammissibilità del referendum (la sent. n. 29/1987, che viene invocata a sostegno, concerne un caso del tutto particolare, e tale da non consentire generalizzazioni), è sufficiente osservare come non sia affatto necessaria un'apposita ed esplicita normativa statale, che fissi i detti principi, affinché le regioni possano legiferare; ciò inequivocabilmente si deduce dall'art. 17, quarto comma, l. 16 maggio 1970 n. 281, modificativo dell'art. 9 della legge 10 febbraio 1953 n. 62, il quale invece richiedeva la preventiva ed apposita legislazione statale. Ove questa manchi, troveranno applicazione i principi che si ricavano da tutto il complesso normativo vigente; correlativamente, nel caso di mera abrogazione varranno, come è stato osservato in dottrina
, i principi ricavabili dalle altre norme statali rimaste in vigore, così che non è giammai configurabile un "vuoto di principi", potendo sempre sopperire il meccanismo di autointegrazione del sistema secondo l'art. 12 delle Preleggi.
Infine, è appena il caso di aggiungere che non possono essere qui prese in considerazione le conseguenze derivanti sulla normativa regionale dall'eventuale esito positivo dei referendum, non rilevando le medesime, come sopra è stato osservato in via di principio (n. 5), sull'ammissibilità della relativa richiesta.
8. - Ciò posto, e prendendo ora in considerazione i limiti espressamente previsti dall'art. 75, secondo comma, Cost., che potrebbero venire qui in discussione, osserva la Corte come sia da escludere che la richiesta di referendum si ponga contro la normativa internazionale e comunitaria.
Perché operi tale limite non è sufficiente che la richiesta referendaria si riferisca a materia la quale abbia formato oggetto di Convenzioni internazionali, ma è necessario che essa si ponga in posizione di contrasto con uno specifico obbligo derivante da dette Convenzioni, sicché, in caso di abrogazione, sia pure attraverso il mezzo di democrazia diretta, della norma di attuazione all'obbligo suddetto, possa sorgere una responsabilità dello Stato (sent. n. 25/1987).
Ora, nessuno degli atti internazionali di possibile riferimento prevede un obbligo suscettibile di violazione per effetto del referendum. Ciò vale per la Convenzione di Parigi del 18 ottobre 1950, resa esecutiva con l. 24 novembre 1978 n. 812, ma non è men vero rispetto alle Convenzioni di Washington (3 marzo 1973, resa esecutiva con l. 19 dicembre 1975 n. 874 e trasfusa nel regolamento del Consiglio CEE 3 dicembre 1982 n. 3626), di Berna (19 settembre 1979, resa esecutiva con l. 5 agosto 1981 n. 503), di Bonn (23 giugno 1979, negoziata anche dalla CEE e resa esecutiva con l. 25 gennaio 1983 n. 42) nonché alla direttiva CEE n. 79/409 del 2 aprile 1979, modificata dalla successiva n. 85/411.
Invero, sarebbe vano ogni sforzo di dedurre da tali atti un obbligo internazionale o comunitario avente per oggetto la libertà di caccia e tale da costituire limite all'ammissibilità di un referendum diretto ad una più rigorosa e responsabile disciplina di tale attività sportiva; la Corte di Lussemburgo anzi, ha ritenuto il nostro Stato inadempiente alla predetta direttiva in relazione alle disposizioni degli artt. 11, secondo comma, e 18, secondo comma, della legge in questione (sent. 8 luglio 1987 in causa n. 262/85) ed inoltre risulta in corso un altro giudizio promosso dalla Commissione, che ha dedotto ulteriori violazioni alla richiamata direttiva.
Si può quindi concludere che non soltanto nessun impedimento è riscontrabile in proposito, ma che anzi la richiesta referendaria si muove nella stessa direzione della normativa internazionale e comunitaria ora richiamata.
9. - Non è poi applicabile il limite relativo alle leggi tributarie, anche se la richiesta referendaria comprende l'abrogazione degli artt. 23, 24 e 25 l. n. 968 del 1977, che prevedono tasse statali e regionali per ottenere la licenza di porto d'armi ad uso di caccia e l'abilitazione all'esercizio venatorio, previste dai precedenti artt. 21 e 22.
Al riguardo va anzitutto precisato che il disposto dell'art. 75, secondo comma, Cost. relativo alle leggi tributarie, concerne non solo le imposte ma anche le tasse, concorrendo queste ultime, in quanto impositive di un sacrificio economico individuale e sia pure con differenti presupposti e natura giuridica, ad integrare la finanza pubblica. Sicché, stante la medesima "ratio", per l'esclusione della consultazione referendaria non sarebbe possibile porre alcuna distinzione tra le due categorie di tributi.
Va tuttavia osservato che le tasse suddette concernono gli atti amministrativi previsti dalle disposizioni comprese nel quesito referendario, sicché, eliminata ogni possibilità di emettere i provvedimenti a cui l'onere tributario è collegato, non può non discendere anche l'eliminazione dei relativi oneri, che verrebbero meno in ogni caso, ossia anche non espressamente compresi nella richiesta di referendum.
10. - Infine rileva la Corte che il quesito si presenta chiaro, univoco ed omogeneo, in quando diretto ad abrogare il vigente regime della caccia sportiva, come previsto e regolato dalla legge n. 968 del 1977.
Ciò non esclude del tutto la plausibilità di qualche rilievo critico, ma alcune imperfezioni risultano inevitabili "in subiecta materia" e sono comuni peraltro, com'è stato giustamente osservato, agli ordinari procedimenti di normazione. Decisiva è invece la possibilità, certamente sussistente, che l'elettore possa esprimere consapevolmente la propria volontà sul tema proposto: il che, a differenza di quanto ritenuto dalla Corte con le decisioni nn. 27 del 1981 e n. 28 del 1987, relative alle precedenti richieste vertenti sulla stessa materia ma diversamente formulate, consente di ritenere ammissibile quella attuale.
11. - Ad analoga conclusione occorre pervenire rispetto alla seconda richiesta di referendum, concernente la disposizione dell'art. 842, primo e secondo comma, codice civile, presentandosi il relativo quesito del pari chiaro, univoco ed omogeneo: tale quindi da consentire all'elettore di esprimere la sua volontà con piena consapevolezza. Esso manifesta inequivocabilmente l'intento di generalizzare il divieto di accedere nel fondo altrui per l'esercizio della caccia, anche se non ricorrano le due condizioni attualmente previste dalla disposizione in discussione (recinzione del fondo o esistenza di colture suscettibili di danno).
Del resto in precedenza la Corte aveva ritenuto il quesito inammissibile sol perché esso comprendeva anche il terzo comma dello stesso articolo, relativo ad una diversa materia, quale la pesca (sent. n. 28 del 1987).
Può aggiungersi che la norma in discussione, regolando i rapporti tra proprietario e cacciatore, appronta una regolamentazione mediatrice tra le due posizioni individuali (ciò è evidente per la recinzione, ma può estendersi anche all'altra ipotesi, che non sembra avere un collegamento con le esigenze sociali della produzione, ma è piuttosto diretta a tutelare esclusivamente l'interesse individuale del proprietario alla percezione dei frutti prodotti nel fondo, quale che siano). Conseguentemente risulta difficile riconoscere, come invece da qualcuno è stato affermato, che essa, anche in relazione alle sue origini, si ricolleghi alla funzione sociale della proprietà, intesa secondo la disposizione dell'art. 42 Cost. Tale funzione potrebbe trovare attuazione in una nuova disciplina della caccia, coerente in particolare alla normativa comunitaria, la quale predisponga limiti diretti ad un'utilizzazione ponderata delle risorse faunistiche ed ambientali sul territorio nazionale.
Aggiungendosi peraltro che - anche "medio-tempore" - l'eventuale esito positivo soltanto della seconda consultazione non si pone certamente in contrasto con l'art. 117 Cost. in quanto non sopprimerebbe dalla previsione di questo la materia "caccia", pur sempre esercitabile nell'ambito dei fondi pubblici, ove è consentita, e di quelli privati, con il consenso del proprietario.
Deve quindi concludersi che nessun ostacolo impedisce di riconoscere la legittimità costituzionale anche della seconda richiesta di referendum.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
"dichiara" ammissibili le richieste di "referendum" popolare per l'abrogazione:
- degli artt. 2 (nella parte indicata in epigrafe), 3, secondo comma, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, secondo e terzo comma, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, secondo e quarto comma, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26 (nella parte indicata in epigrafe), 27, 28, 29, dal secondo al settimo comma, 30, 31, 32, 33, 34, 36 e 37 della legge 27 dicembre 1977 n. 968, contente principi generali e disposizioni per la protezione e la tutela della fauna e la disciplina della caccia;
- dell'art. 842, primo e secondo comma, del codice civile;
richieste dichiarate legittime con ordinanze del 19 dicembre 1989, dall'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 gennaio 1990.
F.to Francesco SAJA, Presidente e Redattore
Doro MINELLI, Cancelliere
Depositata in cancelleria il 2 febbraio 1990.
Il cancelliere
F.to MINELLI