Sergio StanzaniX.
LA PROPOSTA RADICALE PER UN'ADESIONE DELLA JUGOSLAVIA ALLA COMUNITA' EUROPEA. LE INIZIATIVE NEL PARLAMENTO EUROPEO PER SUSCITARE UNA RISPOSTA COMUNITARIA ALLA CRISI DELLA REPUBBLICA JUGOSLAVA. LA RICHIESTA DI POTER TENERE IL CONGRESSO RADICALE A ZAGABRIA. IL DIFFICILE DIALOGO CON LE AUTORITA' POLITICHE E STATALI. IL CONSIGLIO FEDERALE A BOHINJ. L'INTERESSE DELL'OPINIONE PUBBLICA E DELLA STAMPA.
SOMMARIO: Nel decimo capitolo della relazione presentata dal Primo segretario del Partito radicale al Congresso di Budapest, Sergio Stanzani illustra l'iniziativa radicale per l'entrata della Jugoslavia nella Comunità europea e il significato della richiesta di tenere il congresso radicale a Zagabria.
(35· Congresso del Partito Radicale, Budapest 22-26 aprile 1989)
Ragioni non diverse ci hanno spinto, non da oggi, a sostenere proposte analoghe per la Jugoslavia.
Già nel '78, con Pannella, sostenemmo che le conquiste di autonomia ed anche di democrazia, come di convivenza, fra una pluralità davvero straordinaria di numerose nazionalità, etnie, culture, che la costituzione jugoslava aveva assicurato ai propri cittadini, si sarebbero alla lunga rivelate insufficienti. I miti dell'autogestione e del "non allineamento" fra i blocchi, che erano stati i capisaldi dell'autonomia e delle singolari scelte jugoslave ed erano stati così importanti per l'equilibrio internazionale, rischiavano di rappresentare dei fattori di isolamento e di crisi. Per ragioni economiche, certo: perché lo sviluppo di uno Stato industriale come la Jugoslavia, che potrebbe aspirare ad un decollo analogo a quello dell'Italia negli anni '60 o della Spagna negli anni '80, è impensabile in una situazione di isolamento nazionale, al di fuori di un grande mercato di dimensioni semi-continentali.
E' assolutamente ipocrita l'esaltazione dell'opportunità dell'"indipendenza nazionale" e del "non allineamento" della Jugoslavia da parte dei Governi di paesi come la Francia, la Germania, l'Inghilterra e l'Italia, che hanno per sè ritenuto insufficiente l'indipendenza nazionale ed hanno ritenuto necessario integrarsi in una Comunità economica.
Ma non solo per ragioni economiche. Non si può indefinitamente praticare la liberalizzazione interna con il partito unico, rimanendo sospesi a metà fra dittatura del proletariato e democrazia, senza rischiare di essere risospinti all'indietro. Nè si poteva sperare di salvaguardare, in una sorta di immobilismo, il delicato equilibrio federale assicurato da Tito fra le diverse nazionalità che compongono la Jugoslavia, senza realizzare un più alto livello di sviluppo economico e di sviluppo della democrazia. Abbiamo seguito con preoccupazione i segni di crisi dei rapporti tra le diverse nazionalità e culture, esplosi recentemente nella negazione dell'autonomia del Kossovo ed abbiamo sempre ritenuto che i problemi della Jugoslavia fossero anche i nostri problemi. Ci siamo battuti e ci battiamo perché la Comunità europea consideri come un proprio problema quello della Jugoslavia.
Queste stesse posizioni ed idee sostenevamo, già a Trieste e nel Parlamento italiano, quando, oltre dieci anni fa, ci battevamo contro la zona industriale mista italo-jugoslava, prevista sul Carso dal Trattato di Osimo, che oltre a costituire un misfatto ecologico sarebbe stato un grave errore economico e politico. Non ci siamo stancati di riproporlo rispetto ai governanti jugoslavi, nelle istituzioni italiane, nel Parlamento europeo, rispetto al Consiglio dei Ministri ed alla Commissione della Comunità.
Non abbiamo trovato consensi, per ora, e neppure incoraggiamenti e progressi, nè nelle istituzioni jugoslave nè in quelle comunitarie. Il Consiglio dei Ministri comunitari ci ha risposto che l'idea di un'adesione della Jugoslavia "non è attuale". La Commissione, più ipocritamente, che la "la Jugoslavia è un paese non allineato ed è bene che lo resti".
Ma nel Parlamento, ancorché sconfitte, le nostre tesi non sono più isolate. Le proposte su questo argomento sono ormai condivise e sottoscritte da un largo numero di parlamentari di diversi paesi e di diversi schieramenti. A Bruxelles e a Strasburgo siamo riusciti anche su questo a costituire un gruppo consistente di parlamentari amici della Jugoslavia. Il fatto è importante perché i nostri eurodeputati non si sono accontentati di prospettare idee e proposte non immediatamente praticabili, ma hanno aumentato la pressione presso la Comunità per un urgente e consistente aiuto economico alla Jugoslavia.
La scelta transnazionale del partito ci ha poi consentito di essere direttamente presenti in Jugoslavia. Voglio qui rivolgere un saluto agli oltre trecento iscritti al partito radicale nelle diverse Repubbliche della Federazione. Ricordo i proficui rapporti che si sono stabiliti sia con alcune componenti dell'Alleanza Socialista Jugoslava sia con libere associazioni che si battono apertamente per uno sviluppo democratico e che hanno ampiamente attinto dallo statuto e dagli obiettivi del partito radicale, primo fra tutti l'ingresso della Jugoslavia nella CEE. Tra queste vorrei ricordare: la Lega della Gioventù Socialista Slovena, il Gruppo '88, l'Associazione Democratica Jugoslava, l'Associazione per l'Europa Unita, di Spalato, l'Associazione per gli Stati Uniti d'Europa, di Zagabria.
Una petizione per l'adesione della Jugoslavia alla CEE, rivolta alle autorità jugoslave ed alla Comunità, è stata sottoscritta da migliaia di cittadini, sostenuta e firmata da centinaia di intellettuali, fra i quali voglio ricordare e salutare Milovan Gilas.
Con la richiesta di poter svolgere il Congresso all'inizio dell'anno a Zagabria, le nostre proposte, la nostra iniziativa politica e la nostra presenza hanno ricevuto commenti positivi, oltre che un'attenzione corretta e puntuale della stampa. Da parte della stampa jugoslava abbiamo avuto un esempio di libertà d'informazione che purtroppo raramente ci è stato possibile riscontrare in quella italiana e degli altri paesi democratici.
Non ripercorro le tappe del faticoso dialogo con il Governo di Belgrado, che si è concluso con l'impossibilità di celebrare il Congresso in una città della Federazione, ma anche con lo straordinario dialogo che si è aperto con la Gioventù Socialista di Slovenia - che ha offerto a Marco Pannella la tessera dell'organizzazione - e con la Lega della Gioventù Socialista Jugoslava, che hanno consentito lo svolgimento del nostro Consiglio Federale a Bohinj.
Ed oggi che, con gioia, stiamo svolgendo il nostro Congresso a Budapest, abbiamo solo un rammarico: che la stessa risposta che abbiamo avuto dalle autorità di Budapest non sia prima venuta da quelle di Belgrado. Ma voglio esprimere l'auspicio che quel dialogo possa al più presto essere ripreso. Noi ribadiamo qui la nostra amicizia per i popoli e per le istituzioni della Repubblica Federale jugoslava.
Abbiamo messo nella nostra bandiera europea quattordici stelle anziché dodici. Noi speriamo che le stelle dell'Ungheria e della Jugoslavia possano essere le prime due stelle di nuovi Stati che si aggiungono agli attuali paesi membri della Comunità.
A questa nostra proposta di allargamento della Comunità si risponde con un argomento che giudico pretestuoso. L'adesione di nuovi paesi diluirebbe il carattere di integrazione sovranazionale e comunitaria della CEE e rischierebbe di ridurla ad una semplice area di libero scambio, a semplice mercato europeo. Ma questo è ciò che sta esattamente avvenendo per responsabilità di paesi membri che appartengono alla Comunità: la Gran Bretagna, la Danimarca, ma anche la Francia e la Germania. Non è questo il motivo dell'opposizione all'allargamento. Noi riteniamo che dietro questa chiusura ci sia, al contrario, la difesa di una situazione privilegiata e la volontà di mantenere una situazione d'indifferenza e di irresponsabilità rispetto alle situazioni di crisi che abbiamo elencato. L'indifferenza e la freddezza dimostrata nei confronti della Jugoslavia in questi mesi è un grave segno di irresponsabilità.
La costruzione di un'Europa politica e democratica se è urgente per i paesi dell'Europa occidentale, è letteralmente vitale per i paesi dell'est europeo.
E' infatti una necessità vitale per l'Est che non vi sia solo un'Europa economica ricca e protezionista, che concepisca i suoi rapporti con i paesi più poveri dell'Est solo in termini di sfruttamento della loro manodopera e di conquista dei loro promettenti mercati. Solo un'Europa integrata politicamente, con istituzioni democratiche sovranazionali, dove le istanze sociali ed economiche dei settori e delle regioni più deboli possano farsi valere a livello parlamentare e legislativo, può garantire un futuro dove si affermi la dialettica e la tolleranza fra i contrapposti interessi. Non certo l'Europa della CEE, che concentra nel solo Consiglio dei Ministri, nel chiuso e nel segreto delle sue riunioni, il potere legislativo e quello d'indirizzo complessivo, con sconfinamenti persino nel potere esecutivo. Non certo l'Europa antidemocratica della CEE, che prevede, con il completamento del mercato unico, di gestire l'80% delle decisioni economiche, finanziarie e fiscali della Comunità senza il naturale contraddit
torio con un vero potere legislativo rappresentativo dei diversi interessi sociali delle regioni europee.