Sergio StanzaniXI.
LE NUOVE "PRIMAVERE" IN URSS, IN POLONIA, IN UNGHERIA.
LE SPERANZE DI DEMOCRAZIA ATTRAVERSO UN PROCESSO RIFORMATORE.
L'EVOLUZIONE DELLA "PERESTROJKA" VERSO LA COSTRUZIONE DI UNA SOCIETA' E DI UNO STATO DI DIRITTO.
POSSIBILITA' DI PROCESSI ANALOGHI ANCHE IN ALCUNE SOCIETA' AFRICANE.
SOMMARIO: Nell'undicesimo capitolo della relazione presentata dal Primo segretario del Partito radicale al Congresso di Budapest, Sergio Stanzani esprime un giudizio fortemente positivo sui processi di superamento del "socialismo reale" in atto nei paesi dell'est. Il rischio che le nuove "primavere" di democrazia falliscano sotto le spinte nazionalistiche e a causa di un pluripartitismo esasperato.
(35· Congresso del Partito Radicale, Budapest 22-26 aprile 1989)
Oggi assistiamo a questo esplodere di "primavere", alternate da evoluzioni, a volte felici, a volte drammatiche, in quello che è stato l'impero sovietico. Ovunque esplodono, con caratteristiche loro proprie: a Mosca come a Budapest, a Varsavia come nei paesi baltici ed in particolare in Lettonia, in Armenia e in Georgia come - all'esterno dell'impero - in Jugoslavia.
L'accelerazione sembra essere stata imposta, almeno in apparenza, dal "nuovo corso" di Gorbaciov. Questo, che comunque ne ha creato le condizioni, può essere stato esso stesso la risultante della presa di coscienza, interna alla classe dirigente sovietica, della rigidità e dei pericoli di un Governo univoco, centralistico, verticistico, non democratico e dell'opportunità di forme di Governo più flessibili, scorporate ed articolate secondo le caratteristiche storiche, sociali e culturali dei diversi paesi sottoposti.
Al nostro partito, che è stato il più intransigente oppositore del totalitarismo sovietico e sostenitore dei diritti umani dei cittadini dei paesi del socialismo reale, "glasnost" e "perestrojka" - dopo un periodo di prudente attesa e di sospensione del giudizio - sono apparse come elementi potenziali di contraddizione positiva all'interno del sistema sovietico. Occorre sfidare questa politica e trarre tutte le conseguenze dalle sue premesse e promesse, con gradualità e prudenza, ma anche con radicale intransigenza. Occorre cioè verificarle ed approfondirle alla prova dei fatti. Abbiamo visto che gli spazi di liberalizzazione e di democratizzazione, per quanto minimi, che si sono aperti, sono stati occupati da forze di dissenso e da forze riformatrici, anche interne al mondo comunista ed ai partiti unici, che prima venivano compresse e represse, anche se - come accade in ogni vero processo storico che comporti delle rotture rispetto al passato- in esso si sono rovesciate rivolte di tipo etnico e nazionalist
ico, che hanno già avuto conseguenze tragiche in Armenia e Azerbajdzan. Anche queste crisi, che a volte possono apparire pericolose o di difficile controllabilità, hanno tuttavia il merito di far affiorare e conoscere una realtà prima sconosciuta e compressa, che deve essere invece governata e deve trovare giuste, anche se difficili, soluzioni.
Importante ci appare lo sviluppo più recente della "perestrojka", che ci sembra evolvere verso la ricostruzione di una società e di uno Stato di diritto nei paesi del socialismo reale e nella stessa Unione Sovietica. Questo avviene in forme diverse: in Ungheria il processo riformatore sembra evolversi verso l'apertura di una fase costituente, in direzione di una democrazia pluralistica, anche se, sui tempi e le modalità, manca un accordo nella società ungherese; in Polonia il salto in avanti è costituito dal compromesso istituzionale raggiunto fra il Partito Unificato Polacco e Solidarnosc, che prefigura una forma - sia pure squilibrata ed imperfetta - di bipartitismo; in Unione Sovietica sembra approdare, per ora, a forme di democratizzazione interna alle strutture dello Stato e del partito sovietico, che possono avere anch'esse, se non subiranno brusche interruzioni, risultati ed evoluzioni positivi verso una società di diritto.
Io devo dar conto del dibattito interno al nostro partito su questi processi.
Ci siamo a lungo interrogati se fosse possibile uscire dal totalitarismo sovietico attraverso processi riformatori interni allo stesso sistema sovietico. Come forza politica nonviolenta siamo stati molto interessati alle risposte a questo interrogativo. Come nonviolenti diffidiamo dall'uso della violenza sempre, anche come contro-violenza, anche come violenza rivoluzionaria dispiegata contro la violenza del potere. Non è vero che i fini giustificano i mezzi. I mezzi devono essere coerenti con i fini. I mezzi prefigurano i fini. La violenza esercitata in nome della giustizia ha prodotto in questo secolo risultati atroci. Ma una delle obiezioni che i teorici fanno ai nonviolenti, ai rivoluzionari che si affidano a questa forma superiore di rivoluzione che è la nonviolenza, è proprio che essa richiede di avere come interlocutore e come antagonista un potere che sia in qualche modo legato a qualche forma di legalità e che sia in qualche misura democratico. Secondo questi studiosi la nonviolenza è stata possibile
a Gandhi perché aveva come interlocutore e come antagonista il potere coloniale inglese, con la Common Law ed i Tribunali di Sua Maestà britannica, oltre che l'informazione e la stampa anglosassone.
La Spagna, e in notevole misura anche il Portogallo, hanno dimostrato negli anni '70 che è possibile il passaggio da una dittatura a una democrazia attraverso un processo riformatore, attraverso il dialogo fra le forze di opposizione e le forze interne al regime, attraverso la conversione alla democrazia di una parte della classe dirigente del precedente regime. In Spagna la sopravvivenza delle leggi, delle strutture e della stessa classe dirigente franchista, dopo la riconquista della democrazia, è assai inferiore a quella che si è registrata in Italia dopo il fascismo, dove il passaggio alla democrazia è stato contrassegnato dagli eventi violenti e traumatici della sconfitta nella guerra mondiale e di una guerra civile. In Spagna, anche se traumatiche, il cambiamento è stato più rapido e profondo, proprio perché è avvenuto per trasformazioni proprie e non è stato indotto da eventi esterni.
Gli esempi di Spagna e Portogallo - che consentono di superare anche quelle obiezioni teoriche - ci dicono che l'evoluzione verso forme di legalità e verso la ricostruzione di uno Stato di diritto può avvenire in forma pacifica ed essere perseguita attraverso forme di dialogo e di opposizione nonviolenta.
Non c'è contraddizione fra opposizione e dialogo. Il nonviolento non è un inerte. Il nonviolento rompe, quando è necessario, con una legge ed un comportamento ingiusto, ponendo in causa la propria vita e la propria libertà e non quella del suo interlocutore e di colui che è il suo momentaneo antagonista.
Ma quanto più si oppone, quanto più rompe con una legge od un comportamento ingiusto, tanto più il nonviolento dialoga con il proprio interlocutore ed il proprio antagonista. Il suo scopo è con-vincere e non vincere.
Che esista la base di una nuova legalità a cui fare riferimento, che esistano programmi di riforma dei partiti comunisti, questo è assai importante. Questa è la base del dialogo, anche intransigente, con il potere: il nonviolento non chiede che sia attuata la propria futura idea di legalità, non chiede l'attuazione dei suoi programmi, ma chiede fino in fondo il rispetto e l'attuazione dei principi di legalità su cui si fonda la legittimità del potere o dei programmi che il potere ha assicurato di voler attuare.
Entriamo quindi nel vivo dei problemi che si sono posti a Sacharov o ai dissidenti esterni al PCUS e a quelli interni - gli estremisti della "perestrojka", come sono stati chiamati Eltsin o Afanasiev; alle scelte che hanno dovuto affrontare i dirigenti di Solidarnosc; alle scelte che si porranno in queste settimane sia ai riformisti del partito socialista operaio ungherese sia alle nuove forze che esprimono il pluralismo politico, sociale e culturale della società ungherese.
Tutti i politologi sostengono che il possibile punto di crisi di questo processo e di questi movimenti sono in una possibile sconfitta di Gorbaciov e del gruppo riformista sovietico. Questo è ovvio. Ma noi, con molta franchezza, dobbiamo indicare un altro possibile punto di crisi di queste "primavere".
Esso può venire dalla mancanza di risposte mature, forti, adeguate alle necessità del nuovo, cioè alle necessità di Riforma.
C'è il rischio che queste "primavere" di democrazia esplodano in mille schegge di pluralismo impazzito ed ingovernabile, che sarebbe l'opposto dell'alternativa e dell'alternanza; c'è il rischio che lo scongelamento dell'impero, anziché evolversi in direzione di una federazione democratica della Repubbliche Sovietiche esploda, com'è accaduto all'impero austro-ungarico nel 1918, in una frammentazione di rivolte e di chiusure nazionali ed etniche, ognuna diffidente rispetto all'altra e tutte insieme votate al fallimento.
Di fronte a questi pericoli, noi che siamo stati - nel rapporto con i Governi ed i partiti unici dell'impero sovietico - per tanti anni il partito del diritto e dei diritti umani, il partito nonviolento del rispetto del Trattato di Helsinky e della Convenzione delle Nazioni Unite, potremmo forse essere la forza politica in grado di contribuire a fornire una risposta teorica e pratica, capace di costituire una reale alternativa democratica, forte, a questa possibile evoluzione e a questi due pericoli. E la risposta è proprio nelle due scelte che abbiamo compiuto da almeno due anni e che abbiamo iscritto nella mozione di Bologna dello scorso anno: bipartitismo e transnazionalità.
Se, infatti, si passasse dai regimi dittatoriali, di partito unico, a partiti che ripropongono automaticamente divisioni ideologiche antiche e a carattere nazionale od anche nazionalistico, si passerebbe dal fallimento ormai riconosciuto del modello efficientistico ed antidemocratico - che obbliga all'immutabilità e non solo all'instabilità dei Governi - al fallimento sicuro e rapido del modello pluripartitico e proporzionalistico che ha segnato il fallimento della democrazia in tanta parte dell'Europa occidentale tra le due guerre e che puntualmente ripropone, in questi anni, la tendenza all'instabilità, ma soprattutto alla sterilità dei Governi e del governo della crisi della società mondiale e di ciascuna società "nazionale".
Come abbiamo il dovere di guardare indietro alla crisi della democrazia negli anni '20 e '30 davanti ai fascismi, così abbiamo il dovere di avere presenti le tragedie dei paesi dell'Europa orientale in questo dopoguerra. Chi non si accontenta di essere oggetto della storia e dei movimenti, ma vuole essere soggetto e protagonista, non può ignorare che questi pericoli possono rappresentare una prospettiva tragica e addirittura probabile e deve proporsi di confrontarsi con essi e, se è possibile, batterli ed impedirli.
Senza presunzioni e senza velleitarismi, con umiltà, ma anche con convinzione, io dico che, se se ne creassero le condizioni, forse la risposta più efficace potrebbe essere proprio rappresentata dall'incardinarsi in questi paesi del partito radicale con la sua radicalità laica, tollerante, nonviolenta, transnazionale e quindi capace di animare una prospettiva istituzionale sovra e multinazionale, con la formazione di un primo nucleo di classe dirigente, di un primo, piccolo, ma forte esercito di militanti nonviolenti per il diritto alla vita e per la vita del diritto, in attesa e al fine di prefigurare e realizzare, sul piano istituzionale, statuale, la nuova società di diritto e i nuovi Stati federali, regionali o interregionali, che sono l'unica, possibile risposta democratica alla crisi del disordine internazionale e nazionale.
Se dall'Europa orientale si volge lo sguardo agli Stati mediterranei dell'Africa, ed in particolare all'Algeria, alla Tunisia e forse anche al Marocco, mi sembra di non poter escludere un esito della crisi della stessa natura, mentre in tutta l'Africa francofona, così come in quella anglofona è, sia pure faticosamente, in atto l'evoluzione verso una società ed uno Stato di diritto (nettamente adottato con la Carta Africana dei Diritti dell'Uomo).