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Losoncsy anne - 14 agosto 1989
Intervista a Anne Losoncsy
di Enrico Rufi - Radio Radicale

SOMMARIO: Anne Losoncsy è una ungherese che ha vissuto direttamente la tragedia di Budapest nel 1956 poiché suo padre Geza era un Ministro di Nagy. Nel 1988 ha deciso d'iscriversi al Pr transnazionale. Il suo potrebbe essere definito "un amore a prima vista": a giudicare dal suo intervento all'ultimo congresso di Budapest, la scoperta del Pr, della sua politica, dei suoi valori e dei suoi metodi deve avere rappresentato qualcosa di piuttosto importante nella sua vita. Anne Losonczy non vive più in Ungheria dal 72, è naturalizzata belga, dal momento che abita e lavora a Bruxelles (dove si occupa di etnologia, che insegna tra l'altro all'università di Parigi-Nanterre), si è sposata con un catalano (ex-comunista, particolare interessante), si trova in questi giorni a Roma ed è insieme a suo marito, Javier Ruiz y Portella.

(Notizie Radicali n.175 del 14 agosto 1989)

Prima di parlare della sua avventura col Pr transnazionale, vorrei che Anne racconti i fatti che l'hanno costretta, bambina, all'esilio. Sarà inevitabilmente una rievocazione dolorosa, poiché si tratta di ricordare una deportazione di due anni in Romania, per lei e i suoi familiari, ma sopratutto della morte di suo padre Geza che doveva essere impiccato con Nagy e gli altri quattro ministri del suo gabinetto, ma che mori qualche tempo prima, in seguito ad uno sciopero della fame.

E' bene fare una distinzione tra due esperienze che possono a prima vista sembrare tutte e due esperienze di esilio: la deportazione, l'internamento a cui siamo stati costretti, noi, le famiglie del gabinetto di Imre Nagy nel 56, che io ho vissuto, bambina, tra i 7 e i 9 anni; la deportazione in Romania e poi la decisione, frutto di matura riflessione, che presi all'età di 22 anni, di lasciare l'Ungheria e andare a vivere in un'altro Paese, una decisione legata in parte al mio matrimonio, ma che credo avrei comunque presa. Si tratta quindi di due esperienze emotivamente e per quello che hanno significato diverse.

Mio padre era comunista, ricordo perfettamente quegli anni, avevo otto anni quando morì. Era iscritto al Partito comunista ungherese dal '39. Ha fatto la guerra in Ungheria fra i partigiani, dopo la liberazione fu eletto deputato, ricoprì diverse cariche pubbliche in rappresentanza del Partito comunista. Arrivata l'epoca dei processi, nel '49, il processo Rajk in Ungheria, e il processo Lansk in Cecoslovachia, fu arrestato nel secondo processo contro i cosiddetti "titisti" in Ungheria, il processo Kadar; venne condannato e liberato alla fine del '53 - avevo circa 5 anni - e quindi riabilitato.

E' allora che l'ho conosciuto, me lo presentarono come un estraneo; poi, dopo quel giorno, che ho impresso perfettamente nella memoria, passammo due anni insieme, due anni di una intensità straordinaria, intensità del resto riscontrabile anche al di fuori, nella vita del Paese, nell'eccezionale fermento di scontento, di voglia di cambiamento, di voglia di democrazia che si era diffusa nel Paese, un'intensità emotiva che ricordo anche fra noi due. I fatti del '56 sono già noti, non ho la pretesa di riassumerli in due parole. Quel che è forse meno conosciuto, è che noi - i membri del governo e le loro famiglie - ci rifugiammo, per ragioni che sarebbero troppo lunghe da raccontare, all'ambasciata jugoslava, dove Tito ci aveva personalmente invitato. Passammo tre settimane chiusi in quell'ambasciata, assediati dall'esercito sovietico e dalle loro mitragliatrici, dopo fummo costretti a uscire, un po' perché presi per fame, un po' perché il nuovo governo Kadar che salì al potere grazie all'esercito sovietico, prom

ise che i membri del governo Imre Nagy avrebbero potuto rispondere del loro comportamento durante i 15 giorni della rivoluzione del '56 liberamente, in stato cioè di libertà, e che sarebbero quindi potuti tornare nelle loro case. Ci ritrovammo in una caserma dell'esercito sovietico e poi in Romania dove, a sentire la versione ufficiale che il governo Kadar fornì all'opinione pubblica mondiale, noi avremmo chiesto asilo politico: cosa del tutto assurda tanto più che i due anni in Romania li passammo in internamento, circondati da guardie armate. Nell'aprile del '57 gli uomini furono riportati a Budapest, bendati e sottoposti ad un processo infame, come tutti i processi che si svolsero per un pezzo in quella parte del mondo; alcuni furono giustiziati, i loro nomi sono ormai conosciuti. Per quel che riguarda mio padre fece - sembra che fece - uno sciopero della fame, prima ancora del processo, che lo portò alla morte perché fu sottoposto all'alimentazione forzata e il tubo, la sonda, gli perforò i polmoni: ques

ta è la versione ufficiosa, ma è la versione più diffusa sulla sua morte, non è la sola, ce ne sono altre...

...che è comunque plausibile. secondo te...

Si, è plausibile. Quel che è certo comunque, assolutamente certo, è che è morto di morte violenta, in un modo o nell'altro l'hanno ammazzato.

...e in ogni caso sarebbe stato fucilato...

Certo, comunque fossero andate le cose sarebbe stato condannato a morte e fucilato o impiccato, dato che gli altri furono impiccati. Il solo ad essere stato fucilato fu il generale Maleter, il Ministro della difesa. Questo, in sintesi, il riassunto di quell'esperienza.

L'8 settembre del '58 ci riportarono a Budapest, dove cercammo di riprendere una vita "normale", con mio nonno sempre in galera (usci poi con l'amnistia del '60), mia nonna, mia madre ed io, quindi sempre tre donne sole.

Poi vennero gli anni del liceo, quelli dell'università, facoltà di Lettere, mi laureai in psicologia e filologia romanica, e quindi decisi di andare all'estero, presi liberamente questa decisione senza troppe difficoltà perché nel frattempo mi ero sposata, con uno straniero, che era all'epoca comunista, giovane comunista catalano ...

...cosa che ha facilitato le cose...

Sicuramente.

...e che non lo è più, comunista...

Javier Ruiz y Portella: No, non più da allora. Io venivo dalla resistenza antifranchista in Spagna, dove tra l'altro ero stato condannato. Mi sono bastati pochi mesi in Ungheria e in Romania, dove ho lavorato per una radio del partito comunista spagnolo che trasmetteva clandestinamente in Spagna, per rendermi conto che non c'era niente da fare, che bisognava rompere con l'ideologia e la prassi comunista, e che la nostra sola possibilità era raggiungere al più presto l'Occidente.

Ti sei iscritto anche tu al Partito Radicale ?

Javier Ruiz y Portella: Si, ci siamo iscritti insieme un anno fa.

Sarebbe interessante parlare anche degli anni '60 in Ungheria ... Tu, Anne, hai frequentato e sei rimasta in contatto con dissidenti, oppositori ungheresi; con loro non so a che livello, magari intellettuale, universitario, già all'epoca pensavate al futuro dell'Ungheria ?

Per forza, come si faceva a non pensare al futuro dell'Ungheria... e al nostro avvenire.

Ecco, Laszlo Rajk, per fare un nome significativo... tu ci sei rimasta a lungo in contatto con lui...

Certo, ma è in altri termini, però, che va definito il mio rapporto con Laszlo Rajk. Laszlo lo conosco da 35 anni, abbiamo passato insieme anche i due anni di internamento in Romania.

Ecco, è bene ricordare agli ascoltatori che Laszlo Rajk è l'architetto che ha curato la scenografia del congresso di Budapest del Pr ...

... e che ha anche curato la scenografia della cerimonia funebre a Parigi, così come quella alla Piazza degli Eroi, quest'anno a Budapest.

Il vostro primo contatto col Pr. Lo conoscevate già, avevate già sentito parlare di Pannella... negli anni '70 se ne cominciava a parlare in Europa...

Avevamo una vaga conoscenza del Pr, attraverso l'immagine diffusa dai mass-media... qualcosa di folcloristico e quindi non lo conoscevamo bene. E' stato necessario andarci a leggere la documentazione del Pr per superare il luogo comune ed entusiasmarci, non solo e non tanto alle idee del Partito, quanto - ed è questo che personalmente mi ha colpito di più - i modi, il linguaggio, il fatto di aver trovato un altro modo di fare politica, agli antipodi di quello che accomuna tutti o quasi tutti gli altri partiti.

... e forse anche il metodo nonviolento del Pr, visto che non ce ne sono tanti di partiti che hanno scelto la nonviolenza come strumento di lotta politica.

Sicuramente. La nostra conoscenza del Pr risale al 16 giugno 88, in ricorrenza dell'esecuzione di Imre Nagy nel '58, la lega ungherese per i diritti dell'uomo ha scelto proprio quel giorno, a Parigi, per inaugurare il monumento al Père Lachaise, alle memorie di quei martiri che non avevano una tomba in Ungheria. Il Père Lachaise è il principale cimitero di Parigi. Lì c'era un rappresentante del Pr, Olivier Dupuis, che mi ha contattato dopo la cerimonia, chiedendomi se ero disponibile a rilasciare una intervista a Notizie Radicali. Dissi di sì, l'intervista a dire il vero non si fece mai, ma in compenso mi fece avere la documentazione sul Pr in francese. Ce la siamo attentamente letta, trovandola estremamente vicina alle nostre idee, alle nostre inquietudini, tanto al livello del metodo che dei fini, degli obiettivi, e dato che veniva fatto un quadro drammatico della situazione finanziaria del partito, e pressanti inviti all'iscrizione, ci siamo detti iscriviamoci... mi pare che fosse lo scorso novembre. Poi

è spuntata fuori l'idea del congresso a Budapest (che era per me, in particolare, estremamente interessante) e al quale credo di avere, nel mio piccolo, contribuito, almeno lo spero, poi fu eletta al Consiglio federale; così, senza quasi rendermene conto, mi sono trovata ad essere una militante.

Javier Ruiz y Portella: il congresso del Pr a Budapest si è tenuto nella stessa sala dove ero andato nel '71, per il Congresso della Federazione Internazionale della Gioventù Comunista, e dove conobbi Anne, che faceva l'interprete.

Se ho ben capito, insomma, senza saperlo, voi avete fatto un percorso parallelo a quello del Pr. Nel momento in cui avete incontrato il Pr avete scoperto che c'erano altre persone, organizzate in un partito politico, che avevano fatto un percorso a livello di ideali e di metodo abbastanza simile al vostro.

Difficile dirlo, sopratutto per me, nel senso che il mio, di percorso, è un po' diverso da quello di Javier. Io non ho mai voluto, neppure quando cercavo di darmi un po' da fare vent'anni fa in Ungheria prima di partire, entrare in nessuna organizzazione che avesse come obiettivo la presa del potere politico. Per me è una questione di principio, non ho mai voluto militare in organizzazioni di questo tipo, e se pure fossi stata d'accordo con gli obiettivi era magari sui mezzi che non mi trovavo d'accordo. La prima volta che ho trovato una organizzazione che conciliasse gli obiettivi e i mezzi, gli strumenti, è stato un anno fa, quando ho conosciuto da vicino il Partito radicale.

Ho qui sotto gli occhi il tuo intervento al Congresso. Hai detto ad un certo punto:

"Ciò che collega coloro che sono vicini a questo partito è molto più il "come" che il "che cosa", e si tratta cioè del rispetto degli strumenti, dei mezzi che determinano anche gli obiettivi e comportano gli obiettivi."

Mi pare proprio che sia quanto noi radicali andiamo dicendo da sempre, e cioè che i mezzi qualificano il fine, non che lo giustificano, ma che lo prefigurano.

Proprio così. Se c'è un'idea che detesto da sempre e che mi ripugna profondamente è per l'appunto quest'idea fondamentale nell'ideologia bolscevica e non soltanto dell'ideologia bolscevica, ma che in questa ideologia tuttavia trova la sua realizzazione più sinistra, così come nell'ideologia nazista del resto, idea secondo la quale il fine giustifica i mezzi. Un'idea che non solo non ho mai accettato, ma che ho veramente odiato, proprio a livello emotivo, perché sono sempre stata convinta che i mezzi possono pregiudicare, distruggere o al contrario alimentare gli obiettivi, e che i mezzi sono altrettanto importanti, se non di più, dei fini, degli obiettivi. Di quest'idea non ho mai trovato la minima eco politica. Conseguentemente a questa presa di coscienza ho deciso di non diventare mai una militante, se non di organizzazioni umanitarie tipo "Surviver", che è una branca di Amnesty International per le minoranze religiose ed etniche, e sulla quale, anche a causa della mia professione d'etnologa, sono impegnat

a da anni. Si tratta comunque di qualcosa di abbastanza diverso da una militanza politica.

Questo significa, credo, che tu debba sentire il Pr transnazionale come qualcosa di molto diverso da un qualunque partito, altrimenti non ti sarebbe stato possibile iscriverti ad un'organizzazione politica che si definisce "partito" ma che del partito classico non ha certo le forme tradizionali, è "altro".

Ho aderito emotivamente e politicamente al Pr il giorno in cui Javier mi ha spiegato, perché io non sono un animale politico...

E' stato quindi l'ex-comunista che ...

Ah sì, in famiglia è lui che ha senza dubbio la comprensione più chiara, più lucida e più tecnica al tempo stesso della politica. Il giorno in cui mi ha tradotto, ha tradotto nel mio linguaggio, nel linguaggio che sono in grado di capire, il rapporto che il Pr instaurava nella sua pratica e nella sua teoria anche tra mezzi e obiettivi; il modo in cui il Pr era capace di tornare sulle proprie idee, sulla propria prassi, con un senso critico per me assolutamente inaudito e il modo in cui questo partito era capace di rimettere radicalmente in questione - è proprio il caso di dirlo - la sua esistenza, nel momento in cui un iato sembra crearsi tra i mezzi e i fini per via, in particolare dei problemi finanziari, il problema delle iscrizioni.

Questa capacità di rifiutare la tentazione del potere, di rifiutare la tentazione di un certo tipo di lavoro istituzionale, è questo che mi fa stare a mio agio nel Pr

Da questo punto di vista la storia del Pr è eloquente. Javier ha qualcosa da aggiungere...

Javier Ruiz y Portella: volevo dire a questo proposito che quello che ci ha letteralmente affascinato quando abbiamo preso visione dei documenti del partito, è stato l'annuncio pubblico e clamoroso, veramente inaudito, dell'autoscioglimento. Questa è una cosa dell'altro mondo, i partiti possono morire, sciogliersi, sparire, ma non per loro libera scelta. Il fatto, per l'appunto, di aderire ad un partito che ha il coraggio di proclamare il proprio autoscioglimento - ringraziando il cielo - finora rinviato, è qualcosa di assolutamente incoraggiante.

Voi pensate di lavorare con i radicali, con i militanti e i membri del Pr che si trovano in Belgio o con quelli piuttosto che vivono in Ungheria ?

Proprio in questi giorni abbiamo buttato giù le grande linee d'un progetto con il segretario generale, o il primo segretario, ma non so bene come chiamarlo, Sergio, e il Tesoriere, progetto che riguarda il modo in cui il partito, rispettando il principio della transpartiticità, e attraverso l'idea del transnazionale, può inserirsi attivamente nei processi di democratizzazione che si stanno avendo in Ungheria, in Jugoslavia e in Polonia. Questo progetto, questo abbozzo di progetto si basa, perlomeno in parte, su un certo impegno da parte mia, intanto a livello esplorativo, e poi si vedrà. Partendo dai 200 iscritti, che dallo scorso aprile esistono in Ungheria, ma anche in Polonia e in Jugoslavia, e da tutto quanto abbiamo da dire, fare, pensare, proporre in questi processi di democratizzazione, attraverso l'idea della nonviolenza, degli Stati Uniti d'Europa, cercare di lavorare con i futuri candidati alle prime elezioni libere che avranno luogo il prossimo anno - se tutto andrà bene - affinché ci siano deputa

ti legati sia ad organizzazioni che sono per ora alternative, ma che saranno un giorno semplicemente di opposizione, sia portatori, al tempo stesso, di ideali e valori del Pr.

Con i tre deputati non comunisti da poco eletti al Parlamento ungherese voi avete dei contatti, vi sentite vicini a loro? Penso tra gli altri al pastore protestante, che mi pare sia stato eletto, sbaragliando il candidato comunista.

I deputati appena eletti, non comunisti, fanno parte del Forum Democratico, che è la più potente forza d'opposizione per numero d'iscritti. Io ho aderito di recente ad un'altra organizzazione, quella dei Democratici Liberi; le mie simpatie vanno quindi sopratutto alle idee portate avanti da questa organizzazione. Detto questo, conosco personalmente molti membri del Forum Democratico e di altre organizzazioni d'opposizione, con loro, con molti di loro sono in contatto da quando sono nata, è gente che fa parte da sempre del mio universo, e viceversa; questo può aiutare a fare in modo che a livello pragmatico la presenza del Pr e delle idee radicali sia qualcosa che realizzi quella cosa così difficile nel contesto di quei Paesi, che è il confronto sereno tra le diverse organizzazioni di opposizione da una parte e i riformisti del Partito dall'altra.

La rifondazione democratica, a maggior ragione per un Paese come il vostro, è possibile tenendo da parte il rancore?

Io penso che il rancore, le amarezze, le ferite sono sempre là, non sono finite, non sono rimarginate, ma sono tutte cose sulle quali non è possibile costruire una politica. Che io provi questi sentimenti nei confronti di persone che sono opportuniste, se non addirittura staliniste, che abbia una sorta di antipatia ragionata e assoluta nei confronti dei metodi di governo che sono stati quelli di questo Partito comunista per 40 anni, è una cosa che non nascondo. Ma che su queste basi non sia possibile costruire nulla per il futuro di questo Paese, è per me una cosa altrettanto forte. Non si tratta di dimenticare niente, non si possono dimenticare i morti, perché una memoria storica intatta è la condizione perché un popolo possa avere un avvenire decente. Non dimenticare, quindi, ma lavorare. Essere democratici - direbbe un nostro amico radicale - tra i democratici non è poi così difficile, ma essere democratici fra i non democratici o gli ex non democratici è duro, è umanamente, emotivamente e praticamente du

ro, ma è il prezzo che occorre pagare perché il sangue non torni di nuovo a scorrere e perché si possa costruire una società vivibile.

Javier, come catalano, è in qualche modo in contatto con altre persone che in Catalogna, in Spagna, hanno con lui scelto di dare vita al Pr

Javier Ruiz y Portella: i miei contatti con la Spagna e la Catalogna sono costanti e frequenti, ma devo confessare di non essere riuscito a instaurare rapporti con altri iscritti del Pr in Spagna. Non nascondo che vi sono stati dei problemi, per cui il lavoro fatto aldilà dei Pirenei non ha dato i frutti sperati; ma credo che ci sia un problema più specifico che si presenta in Catalogna, dove la questione nazionale catalana gioca un ruolo di primo piano, questo può rendere più difficile accettare una politica così apertamente cosmopolita, così apertamente transnazionale, come quella del nostro partito. Quali che siano comunque, le difficoltà di ordine pratico e politico, credo che ci sia moltissimo da fare anche in Catalogna, ed è bene che il partito ce la metta tutta anche laggiù.

grazie Anne, grazie Javier, alla prossima volta e buon lavoro in questo partito transnazionale che è il vostro, che è il nostro.

 
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