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Dentamaro Gaetano - 1 settembre 1989
La "relazione di minoranza" di Gaetano Dentamaro al Consiglio federale del Pr di Roma (1-5 settembre 1989)

SOMMARIO: Nella "relazione di minoranza" di Gaetano Dentamaro al Consiglio federale del Partito radicale di Roma l'analisi della crisi radicale e le proposte per superarla. La relazione è articolata in 6 capitoli:

1. Lo Stato del partito;

2. Una campagna radicale d'iniziativa: l'appello per la nomina di Marco Pannella a Commissario della CEE;

3. Lo stato del partito: soggetti autonomi d'iniziativa politica e potere - partito;

4. Le elezioni europee: soggetti autonomi d'iniziativa politica, potere - partito, trans/partito;

5. Informazione e comunicazione radicale: radio radicale, notizie radicali, lettera radicale;

6. Lo stato del partito;

1. Lo stato del partito

Caro Bruno, caro Marco, cari Sergio e Paolo, care compagne e cari compagni,

Voglio innanzi tutto, come militante e ancor più come consigliere federale del Partito, ringraziare in modo formale il Presidente di quest'assemblea per aver colto al balzo la "palla" della crisi di Governo in Italia e della presentazione alle Camere del sesto dicastero Andreotti, contemporanea allo svolgimento previsto in agosto della nostra riunione, per indicare quali e quanti altri motivi sussistessero, di ragione e di opportunità politica, per rinviare questa seconda seduta del Consiglio Federale del Partito radicale del 1989.

Non so, oggi che scrivo, se la seduta si terrà effettivamente alla data annunciata, nè se potremo abbracciare i nostri compagni dell'Unione Sovietica. L'una e l'altra cosa sono al tempo stesso, causa ed effetto, nel bene -poco- e nel male -molto di più- dello "stato del partito".

Il rinvio ha consentito, come spero, a ciascuno di noi, di riflettere, e di esaminare con più attenzione i documenti di lavoro per questa seduta: quelli di base indicatici dal Presidente, non meno che il complesso delle relazioni predisposte dal Segretario e dal Tesoriere. Personalmente, ho deciso di ordinare, per quanto possibile, in forma scritta, quel che sento di comunicare a questo Consiglio, e a quanti, iscritti al Partito, partecipano dei nostri lavori in questo momento, essendo qui presenti o attraverso Radio radicale; e a quanti, negli stessi modi, seguono o assistono a quel che siamo e diciamo, non essendo, loro, iscritti a questo partito: essendo, cioè, i tanti che affollano la schiacciante maggioranza che, per sciatteria o indifferenza ostentata, condanna a morte non questo partito, ma le ragioni e le speranze di e per un Partito altro, altro oltre quello che può essere il loro e il primo, un valore aggiunto alla politica, un partito. Radicale.

Perché, dunque, da parte mia, una relazione di minoranza a questo Consiglio? Vorrei esporlo facendo ricorso, come anche più avanti, a delle citazioni.

"Io non credo -scriveva Georges Bernanos nel 1937, nella prefazione al suo "I grandi cimiteri sotto la luna"- che a quel che mi costa. In questo mondo, non ho fatto niente di passabile che non mi sia apparso, all'inizio, inutile, inutile fino al ridicolo, inutile fino al disgusto. Il demone nel mio cuore si appella - a cosa di buono? (...) Esito a compiere il primo passo verso di voi, poiché, fatto il primo, so che non mi arresterò più, che andrò, valga quel che valga, fino alla fine del mio compito, attraverso giorni e giorni, così uguali tra loro che non li conto più, che sono come tranciati dalla mia vita. E in effetti lo sono. (...) Sopporto ancora umilmente il ridicolo di non aver ancora scarabocchiato d'inchiostro il volto dell'ingiustizia, il cui oltraggio è il solo della mia vita. (...) Compagni sconosciuti, vecchi fratelli, (...) la mia infanzia non apparteneva che a voi. Eravate -allora- i miei maestri? E oggi, lo siete ancora? Oh, so bene quanto di vano c'è in questo ritorno verso il passato. Ce

rto, la mia vita è di già piena di morti. Ma il più morto di tutti i morti è il bambino piccolo che io fui. (...) Dopo tutto, avrei il diritto di parlare a suo nome. Ma giustamente non si parla a nome dell'infanzia, bisognerebbe parlare il suo linguaggio. Ed è questo linguaggio dimenticato, che cerco di libro in libro, imbecille!, come se questo linguaggio potesse essere scritto. Non importa. A volte mi succede di ritrovarne degli accenti...ed è questo che vi fa prestare l'orecchio, compagni dispersi attraverso il mondo. (...) la mia certezza profonda è che la parte del mondo ancora suscettibile di redenzione non appartiene che ai bambini, agli eroi, e ai martiri".

Io intendo qui parlare del mio vissuto, della mia infanzia radicale. Per ciò, allora, una relazione di minoranza: non solo perché sono, in questo Consiglio, rappresentante di una minoranza, ed eletto in una lista di minoranza, e non solo perché insoddisfatto dalle relazioni del Segretario e del Tesoriere; ma perché, anche perché, intendo con questo parlare di noi, del nostro vissuto radicale e del nostro essere una minoranza che non ha avuto la paura di divenire maggioranza; perché intendo parlare della nostra infanzia radicale, e della nostra parte piccola, che ha paura di crescere.

Così come, credo, non si parla e non si dialoga, e non si costruisce nulla con il proprio genitore se si è dominati dal desiderio di ucciderlo e di possederlo, giacché genitori e figli lo si è sempre per la prima volta; così, credo, possiamo rivolgerci a Sergio Stanzani e ad Adele Faccio, a Bruno o a Maria Teresa, ad Eugenia e a Marco, come a ciascuno di noi, con la voce e gli accenti della nostra infanzia libera e radicale che insieme abbiamo vissuto, chi per più, e chi per meno anni. Perché oggi siamo cresciuti, e apriamo gli occhi per scoprire di non essere più bambini. E a volte, quando siamo cresciuti, dimentichiamo -come ha scritto Antoine de St.Exupery- che "tutti i grandi sono stati bambini".

2. Una campagna radicale d'iniziativa: l'appello per la nomina di Marco Pannella a Commissario della CEE.

Per parlare di vissuto, parlerò di una vicenda cui ho direttamente partecipato, anche se in extremis, avendo così la possibilità di leggerla dall'interno. Parlerò della candidatura di Marco Pannella a Commissario Cee. E' una vicenda e una storia "di frontiera": la frontiera di un'Europa politica, di un pianeta civile e nonviolento. E' stata, per l'Italia e per l'Europa, una vicenda sintomatica: da quando è nata, per come è cresciuta, e per il fatto stesso di non essere stata accolta. Sintomo di una malattia della nostra epoca, annuncio del metodo di una possibile guarigione.

La malattia della nostra epoca può essere definita con un'espressione sopra ogni altra, che noi ben conosciamo nello sviluppo del pensiero intuitivo da parte di Marco Pannella: la malattia della nostra epoca è il "divorzio tra scienza e potere". Esso crea, da un lato, l'impazzimento della scienza, dall'altro l'impazzimento del potere. L'esito del primo fenomeno è la distruzione dell'ambiente che si traduce in vere e proprie malattie della biosfera, dal "buco" nella fascia di ozono, alla desertificazione, all'inquinamento dei mari. L'esito del secondo fenomeno è nelle più o meno gravi patologie sociali della nostra epoca: dai guasti psicologici indotti dal trionfante nazionalismo statuale-assistenziale, alla guerra, allo sterminio per fame. E' un processo databile nel nostro secolo attraverso una vera e propria cesura, rappresentata dai campi di sterminio nazisti rivolti all'annientamento "scientifico" -in primis- degli ebrei; fino allo scoppio della prima bomba atomica. Tralascio qui per sintesi un filone di

studi ancora sotterraneo, che può legare l'antropologia all'epistemologia, la sociologia all'economia; un filo che può collegare Orwell, Silone e, appunto, Bernanos, ad Ernesto Rossi e Altiero Spinelli (o a Luigi Einaudi!) ed Elias Canetti a P.P.Pasolini; Russell e Wittgenstein a Freud, a Reich, fino a Piaget, a Lévi-Strauss, e a Gregory Bateson; e Piero Gobetti, i fratelli Rosselli, e, guarda un po', Gramsci, a Vittorini - che fu, negli anni '60, Presidente del Partito radicale - a Gandhi, a Martin Luther King, e, se il Presidente del Consiglio Federale me lo consente, a Marco Pannella.

E' un'evidenza che l'irresponsabilità nel comportamento tecnico-pratico-scientifico, così come in quello etico-politico-sociale, diviene causa cogente della sua irrazionalità: i mezzi tecnico-pratico scientifici non sono adeguati ai fini, il fine dell'azione politica pretende invece di giustificare i mezzi. Questa tirannia dei mezzi sui fini si traduce dunque, nell' "autonomia dal politico",nel primo caso; nel secondo, nell' "autonomia del politico": entrambe situazioni scellerate e disastrose del nostro tempo.

"La malattia di un'epoca guarisce cambiando il modo di vita degli uomini" (L.Wittgenstein). La crisi dell'umanità è la crisi dell'evoluzione sociale, culturale e politica -non solo materiale, tecnica, pratica, scientifica- degli individui che la compongono. Per questo leggo nell'appello per la nomina di Marco Pannella a Commissario Cee, e nella campagna che ne è scaturita, una vicenda da analizzare con attenzione, nei suoi meccanismi di nascita e di sviluppo, di attuazione. Perché quella vicenda ha contribuito a delineare, nel vivo dell'azione politica, il campo nuovo, il perimetro nuovo dell'iniziativa trasversale e federalista europea; ma anche perché in quella vicenda è inscritta la contraddittorietà anche del rapporto tra un "soggetto autonomo d'iniziativa politica" e il potere-partito: nella fattispecie, il nome degli esempi è ingombrante, giacché si tratta, da un lato di Marco Pannella, dall'altro del Partito radicale - inteso qui innanzi tutto come la struttura organica del suo gruppo dirigente.

Intendo parlare dell'appello per Marco Pannella Commissario Cee non tanto e non solo per assumere qui la responsabilità di affermare una verità -la mia-, su quella vicenda, scomoda fino all'oltraggio; cioè che dietro l'apparente compattezza e unità d'intenti della classe dirigente italiana -e non solo del "gruppo dirigente radicale"- circa quella candidatura, hanno allignato comportamenti neghittosi fino all'ostruzionismo. Ed è questo che ha spianato la strada alle nomine avvenute con il rituale di un'estrazione dentaria che ha visto soli in sala d'attesa, come in una storiella di Achille Campanile, i diarchi Bettino Craxi e Ciriaco De Mita. Ma intendo qui parlarne perché nel simbolismo dell'episodio si trovano ridotti a mero fatto e susseguirsi di fatti, meccanismi e percorsi del "divorzio tra scienza e potere" e se ne ritrovano anche i suoi effetti perversi. L'esclusione - a priori! - di Marco Pannella dalla possibilità di nomina è il simbolo, il sintomo emblematico della crisi della possibilità di rap

presentanza, crisi delle istituzioni politiche e democratiche che ha il nome di partitocrazia in Italia, e con sfumature diverse in alcuni altri paesi europei e no, e altri nomi - partito unico, per esempio, in altre parti del mondo. Soluzioni globali per i problemi globali sono state pensate, studiate, indicate: si trovano scritte nei rapporti, da venti anni a questa parte, del Club di Roma, o nel primo e misconosciuto "rapporto Sacharov", del 1968, dove il fisico sovietico scrive tra l'altro:

"L'umanità rischia l'annientamento a causa delle sue divisioni. (...) Di fronte a questo pericolo, ogni atto che le accentui, ogni propaganda che sostenga l'incompatibilità di ideologie tra loro e l'antagonismo delle nazioni è un delitto. Soltanto la cooperazione internazionale, in un clima di libertà internazionale volto all'ideale morale socialista del lavoro, l'abolizione del dogmatismo e della pressione degli interessi reconditi delle classi dirigenti possono salvaguardare la civiltà. (...) La società umana ha bisogno di libertà d'informazione, di discussione, di libertà di fronte al potere e ai pregiudizi. (...) La politica internazionale deve essere impregnata di metodologia scientifica e di spirito democratico: tutti i fatti, le opinioni, le teorie devono essere prese in considerazione; gli obiettivi devono essere divulgati al massimo, i principi logicamente stabiliti".

La vicenda delle nomine dei commissari Cee ha dunque mostrato come e perché, nel villaggio globale, è così difficile instaurare leggi giuste e semplici, trovare un onesto capo e un saggio consiglio. La paura ha ucciso le menti: in quell'occasione tutti noi corremmo il rischio di accettare la sconfitta come l'attesa liberazione da un rischio incombente: lo scoppio di una rivoluzione, e di operare perciò per liberarcene al più presto piuttosto che per correrlo, ragionevolmente, e per vincerlo. Questo produceva angoscia, come sempre quando le assunzioni di responsabilità non sono consapevoli e desiderate. Perché la nomina di Marco Pannella avrebbe innescato una vera rivoluzione, e la rivoluzione è uno strumento che ci consente di agganciare la nostra intima responsabilità di persone, di cittadini, di militanti. La rivoluzione è uno strumento di evoluzione e di adattamento della cultura, della società, dell'istituzione politica. La rivoluzione può diventare materia di scambio, è "il fatto" politico, è matrice di

rapporti sociali. Perciò la rivoluzione deve essere responsabile: la responsabilità ci terrorizza.

Leggerò quanto, sull'argomento, ha scritto una nostra compagna, Licia Ghersina, che, da Trieste, ha inviato e raccolto decine di telegrammi al Presidente del Consiglio a sostegno dell'appello per la nomina di Pannella - appello che, è bene ora ricordarlo, raccolse oltre 650 adesioni da ogni parte della società, circa la metà, giunte a valanga, nell'ultima settimana.

Ha scritto Licia: "Ho partecipato a questa campagna per la nomina di Marco Pannella sperando fino all'ultimo di farcela, perché era giusto farlo. Ed era lecito pensare di farcela. Sia chiaro, io credo che Pannella, nell'istituzione europea, dovendosi dimettere da ogni incarico, con tutto l'apporto che ad essa avrebbe garantito, pure avrebbe lasciato un vuoto più grande ancora, nella società e nel Partito radicale. Ma Pannella mi ha insegnato, a tutti i radicali, e penso che anche la classe politica dovrebbe averlo imparato, che ciascuno di noi può essere, pensare, agire, come "uomo di governo": governo dei problemi, delle situazioni, governo dei sentimenti. (...) La candidatura Pannella apparteneva più al resto della classe politica che ai radicali. Tutti, radicali e non, se ne sono accorti, e di questo qualcuno alla fine ha avuto paura. Col dialogo, con la tenacia della nonviolenza, cercheremo ora di supplire ai danni che la paura, sempre, quando non la si affronta e non la si domina, crea a se stessi e per

gli altri, affinché ciò sia d'aiuto anche a quel qualcuno che, pur comprendendo, paura ha avuto".

La paura è stata ed è il principale ostacolo in e di questo partito. Paura che può essere sintetizzata in due convinzioni profonde, ancorché raramente espresse, tra loro alternative, inerenti allo stato del partito. Secondo la prima, "il partito radicale ha non solo bisogno di Marco Pannella; anzi uno non gli basta, così come Marco Pannella non solo ha bisogno del Partito radicale, ma uno non gli basta"; l'altra afferma che "il Partito radicale ha bisogno di Pannella, ma Pannella non ha bisogno del Partito radicale; perciò vuol chiuderlo, perché gli é d'impaccio". Ma per andare avanti nell'esposizione del mio pensiero, devo fare qualche precisazione e dare alcune definizioni.

3. Lo stato del partito: soggetti autonomi d'iniziativa politica e potere - partito.

Rammento quindi che intendo riferirmi al rapporto generico tra "soggetti autonomi d'iniziativa politica" e "potere-partito", prendendo a esempio e simbolo quello tra Pannella e il Partito radicale. Ma non si tratta qui di riferire la supposta dicotomia tra partito "radical-democratico" e partito "radical-nonviolento": il piccolo è contenuto dal grande e non viceversa. La questione, oggi come ieri, è più semplice e più profonda, più profondamente radicata in ciascuno di noi: nei nostri atteggiamenti caratteriali, per dirla con W. Reich, essenziali come somma funzionale di tutte le nostre esperienze passate. La questione cui intendo riferirmi è stata enunciata dallo stesso Marco Pannella, dopoché M.T. Di Lascia l'ebbe appalesata un po' con la stessa meravigliosa consapevolezza che ebbe il bimbo della fiaba nell'indicare i vestiti nuovi ed inesistenti dell'Imperatore. Ha detto Marco - e qui cito testualmente dal suo intervento al Convegno "I radicali e la nonviolenza: un metodo, una speranza", tenuto a Roma nel

marzo 1988 -: "Io ho preferito, in questi anni, e non perché sostengo che così sia bene, ogni volta che questo l'ho sentito dire mi sono opposto, l'ho criticato, nei comportamenti, nelle scelte che ho fatto, avere torto con il partito piuttosto che ragione da solo".

E', questa, un'affermazione grave e deludente; privata dell'inciso -"ogni volta che questo l'ho sentito dire, mi sono opposto, l'ho criticato"- potrebbe apparire nella luce di un demenziale stalinismo. Ma come, Pannella, il grande leader nonviolento, il guru col maglione nero e il simbolo antimilitarista al collo, il capo carismatico con la sfera di cristallo, come può affermare una cosa del genere?

Chi, o qual è, Marco Pannella? Lo definirò attraverso un aneddoto riportato, durante l'Assemblea federale del luglio 1986, da Piero Craveri. Ricordo solo brevemente che in quel tempo, gli organi federali del Partito avevano incarico formale di un progetto di chiusura del Partito radicale; che gli iscritti al Partito erano 2.347; che Radio Radicale, "già chiusa", trasmetteva solo parolacce. Racconta Piero Craveri: "Era il 1967. Andai a trovare Un giorno Marco Pannella nella vecchia sede del Pr in Via IV novembre a Roma. Lì, seduto in mezzo a pacchi di volantini e manifesti, in un disordine indescrivibile, Marco Pannella mi disse che entro dieci anni pensava che il Partito radicale avrebbe fatto approvare la legge sul divorzio, sull'obiezione di coscienza, sull'aborto, e portato venti deputati in Parlamento. Lo ascoltai incredulo, poi andai via molto triste, pensando che il mio vecchio amico Marco Pannella era uscito di senno".

Così Marco Pannella. Del Partito radicale vorrei dare qui una definizione, e una ricostruzione, attraverso uno scritto di Angiolo Bandinelli, del lontano, vicinissimo 1981, pubblicato nei "Quaderni radicali", con il titolo, significativo e attuale "Il partito radicale è morto, viva il Partito radicale". Un saggio che citerò ampiamente, nella sua parta finale.

Scriveva Bandinelli: "Il Partito radicale ha già conosciuto, nella sua vita, due cicli distinti (...). Il primo è quello che va dalla sua fondazione (1956) all'avvio del centro sinistra in nome del quale esso venne liquidato. Cosa lo caratterizzò? Diciamo una presunzione: quella di esprimere l'intera razionalità e il positivo della storia solo provvisoriamente accantonati da un incidente di percorso, l'anomala e improvvisa comparsa sulla scena di partiti "estranei", la Dc e il Pci. Tutti in quel partito hanno la convinzione profonda e mai discussa che il problema sia quello di far uscire il paese dalla sua arretratezza morale, civile, culturale e quindi politica; appena al di là delle Alpi c'è l'Europa, ci sono le grandi democrazie alle quali la classe dirigente del Partito -formata di tutti professionisti »liberal - guarda con fiduciosa attesa. Il resto verrà da sé. La storia -pensa questa classe dirigente- alla fin fine trionferà con i suoi valori e le sue ragioni, la sua Ragione anzi, anche in quest'Ita

lia alle vongole, come scriveva »Il Mondo . La seconda fase del partito è quella in cui si prende atto che quanto appariva essere transeunte e incomprensibile superfetazione è invece la realtà della storia in atto: è il "regime". Dal quale non si può prescindere, col quale occorre confrontarsi, in un cimento che sarà duro, lungo e non necessariamente vittorioso".

"Anche questo partito -prosegue Bandinelli- è convinto che la Ragione è stata scacciata dal proscenio, dove si accalcano mostri orrendi ed inediti. Le forme nuove del »regime , appunto, il demone del Potere, con una dignità intrinseca, però, di cui si prende atto. L'alternativa è possibile solo se si riuscirà a individuare i frammenti di verità e di ragione che pure devono da qualche parte esistere. La verità e la ragione assumono ora il volto e la voce, la coscienza degli emarginati, dei »diversi di cui il regime ha paura. Questo accade con i referendum."

C'è, a questo punto, da fare una precisazione ulteriore. Il Partito degli anni '80 è anche quello dove a lungo si è dibattuto su altre due questioni; la prima: c'era una strategia referendaria radicale? così rispondeva Marco Pannella, intervenendo al 25* Congresso straordinario del Pr. Fu il Congresso che passò alle cronache come il Congresso-Barnum, perché si svolse a Villa Borghese, a Roma, sotto un tendone da circo, in mancanza di altri spazi; gli interventi di Marco Pannella sono raccolti nel volume "Dai diritti civili alla fame nel mondo", ancora a cura di Quaderni radicali.

Diceva Pannella: "Chiedo a ciascuno di dire in quale documento noi abbiamo detto che la strategia radicale era la strategia referendaria. Noi abbiamo sempre detto che avevamo una strategia, una linea referendaria, ma anche una linea d'iniziativa nonviolenta di base, quella che dà corpo ad una cultura di alternativa (...) che ci ha caratterizzato fino alla satira (...) fino all'individuazione del radicale come il digiunante, vero o falso, come il carcerato indegno, il drogogeno, l'abortogeno e via dicendo. E poi l'altra: la strategia del diritto, la strategia legislativa, della proposta, della rivendicazione, per dei libertari, del diritto come momento massimo della crescita sociale possibile; battendo quella vecchia, fradicia, cultura pseudo-anarchica che sembra rivendicare allo stato di natura non già le leggi della jungla, ma leggi bucoliche, la cultura di quanti ritengono che la corruzione della natura e della storia vengano a partire dalla nascita dello Stato, affermando invece (...) che la peggiore dell

e leggi è meglio della nessuna legge nella legge della jungla, che è appunto legge di violenza; e che l'attività morale di una politica radicale libertaria non può che essere costantemente volta a prefigurare e rispettare - magari socraticamente - il diritto come momento fondamentale della convivenza nella libertà e nella responsabilità di ciascuno".

La seconda questione che fu a lungo oggetto di dibattito negli anni '80: la nozione di regime e il suo uso per definire la situazione politica italiana. Si era o no in presenza di un "regime"? Esistevano o meno spazi d'intervento democratico all'interno del regime partitocratico?

Su questo si è avuto niente meno che il voto a maggioranza di un Congresso, quello di Firenze nel 1985, che approvò la risoluzione Pannella sullo scioglimento del Partito radicale. Cosa affermava quella risoluzione? Credo valga la pena di rileggerla, perché quelle considerazioni sono drammaticamente attuali.

"Il 31* Congresso del Partito radicale, nel trentennale della propria fondazione, constato il venir meno, per sé ma anche per il comune cittadino della Repubblica:

a) di elementari garanzie costituzionali; b) di ogni certezza del diritto; c) dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; d) dei diritti di cui agli artt. 21 e 49 della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, relativi alla libertà di opinione, di manifestazione del pensiero, e di organizzazione politica; e) del rispetto e dell'applicazione delle norme che regolano il gioco democratico e la dialettica delle istituzioni, e che garantiscono un corretto processo democratico formativo delle scelte attribuite al suffragio popolare; f) della difesa dalla violenza di chi ha realizzato e realizza dall'interno e dai massimi livelli dell'organizzazione e della comunicazione la sovversione dell'ordinamento repubblicano, attraverso gravissimi reati associativi a tutti noti; e questo con il rifiuto sistematico dell'esercizio dell'attività giurisprudenziale; g) del diritto alla propria immagine e alla propria identità, aspetti essenziali alla vita stessa, diritto praticamente vanificato dal

l'ordine giudiziario che viola la legge per praticare un rito illegittimo in luogo di quello per direttissima, ritenuto dalla dottrina e dalle norme dei nostri codici assolutamente necessari per la verità e la giustizia; constata, denuncia e proclama la conseguente impossibilità di esercizio dei diritti democratici e della prosecuzione stessa della propria attività in questo contesto, se non accettando di far apparire democraticamente minoritari o marginali, sconfitti, i valori, gli ideali, gli obiettivi del Partito, e nel contempo legittimando il gioco antidemocratico e i suoi esiti, a cui si partecipa; affida quindi agli organi statutari il mandato di proporre al prossimo Congresso federale un progetto di cessazione delle attività di partito. Il 31* Congresso individua quindi in un anno il limite oltre il quale si passerebbe da una risposta atta a colpire la violenza che si subisce ad una fallimentare connivenza con il regime e i portatori dei »valori di ingiustizia, di antidemocrazia. Anche per questo ch

e sia un anno di straordinario impegno per tutti."

Quella risoluzione rappresenta l'inizio della fine del secondo partito radicale: l'inizio di una cesura, di una soluzione di continuità da allora annunciata, non ancora perseguita, e che non potremo perseguire -noi, radicali, iscritti del Partito radicale in un momento dato, parte e partito degli uomini e delle donne di governo dei problemi, delle situazioni e dei sentimenti, governo della nostra vita in questo villaggio globale "alle vongole"- se non con il bagaglio della nostra storia e dell'intelligenza di noi stessi e delle cose che abbiamo in questi anni avuto; essendo per anni, "collettivo intellettuale", o "intellettuale collettivo", come ama definirlo Marco Pannella.

L'attività radicale del 1986 seguì le tre linee "classiche" dell'iniziativa radicale, attraverso la proposta dei referendum sulla giustizia e poi sul nucleare; con il sostegno all'iniziativa nonviolenta di base di Olivier Dupuis e degli obiettori per l'affermazione di coscienza; e l'attività di attiva difesa del diritto e della legge con le iniziative sul processo Tortora e la prassi nonviolenta, socratica, di Enzo stesso. La sfida "diecimila iscritti entro dicembre 1986, 5000 entro gennaio 1987" - come già precedentemente, nel 1971-72, quando il secondo partito radicale passò dalla fase pioneristica della sua rifondazione all'assetto formale-organizzativo che lo caratterizzò poi per tutti gli anni '70 - puntava alla conquista di una "forza soggettiva" necessaria, ma che di per sé non era e non è stata sufficiente a ribaltare il regime stesso. E se il Partito radicale - inteso di nuovo qui innanzi tutto nella sua struttura di vertice, nel suo gruppo dirigente - è stato costretto a imbarcarsi nell'impegno tra

nsnazionale, lo ha fatto come extrema ratio di sopravvivenza: pure essendo avvertito che il partito transnazionale non può camminare senza la gamba del partito trasversale e trans - partitico. Della qual cosa però rischiamo di essere avvertiti ma non pienamente consapevoli, istante dopo istante. Da ciò inadeguatezze e ambiguità, comportamenti talvolta schizofrenici. Il secondo ciclo del Partito radicale deve chiudersi e sta per chiudersi: perché? Qual è stato il suo percorso? Voglio a questo punto riprendere l'analisi di Angiolo Bandinelli: ricordando la data, il gennaio 1981; e il titolo: "Il partito radicale è morto, viva il partito radicale".

Scrive Bandinelli: "La diversità radicale si è appannata, ha ceduto il posto all'uniformità. Per la prima volta il partito , come struttura »chiusa , anche se anomala, non fa aggio sulla società civile. La classe dirigente del Partito non è più quella mobile, dispersa, inafferrabile, soggetta a continui »turn-over degli anni trascorsi, ma è un blocco articolato secondo sezionature e persino gerarchizzazioni verticali, diviso in compartimenti, con notevoli meccanismi di autoconservazione, preoccupato di »gestire , attraverso un fitto scambio di segni ridotti al rango subalterno di segnali. Nel ciclo che si è concluso, la "parola" radicale era immediata, narrativa e affabulante, comprensibile e trasmissibile nel rapporto »a due , e in questa sua forma è stata strumento di comunicazione e di rottura ineguagliabile e insostituibile (mentre nel periodo precedente era stata privilegiata la parola scritta, in questa forma mediata e riflessa). Adesso, quella parola si è inserita nel microfono, nella pista magnetic

a, è divenuta fungibile e traducibile per tutte le occasioni: basta cambiare la cassetta."

Era il 1981: la rete nazionale di Radio radicale esisteva allora due due anni. Nel 1980, il Partito radicale aveva scelto di non presentare liste di Partito alle elezioni amministrative, mentre la sua rappresentanza parlamentare era del 3.5%, al suo massimo storico. Rifiutammo di portare alcune migliaia di compagni, di voti e di energie umane al macello partitocratico , d'ingessarci nei Comuni e nell'apparato assistenziale. Ma pagammo un prezzo: quello dell'ingessatura della classe dirigente. Il Partito radicale divenne organizzazione verticistica, leninista, centralizzata e mano mano sempre più "romana". Si dice che questo era il Partito voluto da Marco Pannella. Io credo che quella scelta non ha impedito il disastro, ma se non avessimo imboccato quella strada, oggi non saremmo qui a parlarne. La presenza istituzionale del Pr data dal 1976: sulla buona, ragionevole speranza di poter difendere il referendum sull'aborto andammo per la prima volta in Parlamento. Nel 1979, la presenza radicale alle elezioni fu

la presenza proto-transpartitica dell' "autobus": eletti furono non radicali come Marco Boato, Mimmo Pinto, Gigi Melega. Ma la scelta dell'obiezione di coscienza al voto non democratico, della scheda bianca, nulla - pensioni! fame nel mondo! - a partire da quelle elezioni amministrative, fu una scelta giusta. E allora sappiamo da dove vengono i pieni poteri affidati oggi al Primo Segretario, e come e perché dalla "monarchia costituzionale" siamo oggi passati alla "dittatura romana".

L'oggi prelude all'apertura di un terzo ciclo del Partito radicale? Su quali basi? Riprendo ancora lo scritto di Bandinelli:

"Qual è il problema essenziale per un partito come quello radicale? Non certo la forma partito, né gli strumenti. Altra è la domanda politica che ha unito e unisce profondamente il percorso radicale: fare crescere la società civile, e contemporaneamente fare deperire l'autonomia del politico. In questi termini (...) si pone la questione dell'alternativa. Si tratta no di ritagliare un cosmo sociologicamente identificato che si ponga come »contropotere (...); ma di attivare una politica alternativa, farla vivere insieme con altri e gestita da altri. Altri soggetti autonomi di politica e d'iniziativa. Allora, dove sono oggi i contorni della nuova forza "alternativa" (della parola alternativa) possibile? (...) Per molti aspetti il potere e il regime [hanno] imposto alcuni loro modelli e comportamenti anche all'interno dell'area radicale. Un partito, se fa politica e non utopia, non può non accettare la sfida di assumere responsabilità proprie di una classe dirigente. Anche dentro il Pr, così, la cultura del »po

litico , del sistema, si confronta con la cultura della »politica , del dialogo, e in una certa misura, la prevarica. Ma sbaglierebbe chi pensasse che si tratta di una situazione inedita, lo stesso problema si è posto in ogni momento della nostra vita, per questo ci siamo definiti sempre partito, mai movimento. La »parola del terzo tempo radicale dovrà quindi essere complessa, filtrata e mediata da strumenti e strutture. (...) Anche perché, del resto, le responsabilità dell'alternativa si fanno molto più serie. Se un dato appare politicamente certo, è che uno dei modi con cui l'emergere della »società radicale è stato bloccato, va visto proprio nel consolidarsi dello »Stato assistenziale a livelli parossistici (...). Lo Stato nazionale è oggi più forte e virulento che mai, (...), vi è un »nazionalsocialismo galoppante, dappertutto (...). Dunque la cruna obbligata è un nuovo, diverso internazionalismo. Ma qui..."

...e l'articolo di Bandinelli termina con i tre puntini di sospensione. Io credo che qui sia necessario fare attenzione alle buone intenzioni di cui sono lastricate le strade più pericolose. Il Partito radicale è un gioiello prezioso, una miniatura: in esso, come in certe scatole magiche dei pittori fiamminghi, si possono vedere nobiltà e bassezze, vizi e virtù dell'organizzazione politica (finora) ritenuta possibile. Il Partito radicale, quale esso è, è unico e primo al mondo, e dovrebbe essere studiato proprio sotto il profilo della scienza dell'organizzazione. Che questo acume, che quest'intuito e questa curiosità manchi pressoché del tutto nel ceto intellettuale al quale siamo, noi, purtroppo, abituati a fare riferimento, non deve e non può esimerci dal fare, noi, con strumenti logici magari inadeguati, questo sforzo.

Quando, all'interno del rapporto tra soggetto dell'iniziativa politica e suo oggetto (il potere: il bisogno e la necessità, cioè, di non solo rappresentare, ma fattualizzare le proprie aspettative, desideri, volontà), ci troviamo di fronte ad affermazioni come quella di Marco Pannella ("Ho preferito -e non perché credo sia giusto,... ecc."), credo che non si tratti di stabilire se Marco "preferisce" questa situazione perché ritiene di non potere comunque da solo affermare e realizzare la sua volontà politica senza o al di fuori del potere-partito; se questa sia la sola scelta possibile ("ho preferito": quest'espressione non ci dice nulla sulle alternative possibili); e tantomeno credo si tratti di fare apologia agiografica, sostenendo che è il suo modo di conservare una posizione maieutica.

Se la politica è innanzi tutto prefigurare il possibile; esprimere il mondo come volontà e rappresentazione, l'opera di uomini come, in Italia, Riccardo Lombardi e Umberto Terracini ha trasmesso anche alla mia generazione la coscienza di ideali non monolitici, contraddittori: se oggi i loro partiti sono vivi, e non cadaveri della storia, all'opposizione morale e ai "panni del cittadino" di Lombardi e di Terracini, in gran parte, credo, lo si deve, lo devono i compagni socialisti e comunisti.

E rispetto al Partito radicale e a Marco Pannella, credo si possa fare lo stesso discorso. Se oggi, malgrado tutto, il "gruppo dirigente" è ancora in grado -attenzione: io dico, qui, che lo è, secondo me, in minima parte- di esprimere responsabilità di classe dirigente, lo si deve alla prefigurazione e rappresentazione che Marco Pannella ha dato dell' "essere partito". Rappresentando un soggetto autonomo d'iniziativa politica altro dal funzionario ingessato di partito, ma anche altro dallo stereotipo del leader (ancorché carismatico) di un partito (ancorché laico, libertario e nonviolento). Un essere partito che si ribella al vitalismo, al nichilismo, all'indifferenza che è il cancro spirituale dell'epoca moderna, imbevuta di pseudoscienza immorale e di pseudoetica irresponsabile. Concluderò questa parte leggendo quel che Ignazio Silone scrisse nel 1956, pubblicato in "Uscita di sicurezza". Il titolo del capitolo è "La scelta dei compagni":

"Nel suo aspetto morale più comune, nichilismo è l'identificazione del bene, del giusto, del vero col proprio interesse. Nichilista è la diffusa, intima convinzione che dietro tutte le fedi e le dottrine non ci sia nulla di reale e pertanto in definitiva, solo importi e conti il successo. Nichilista è il sacrificarsi per una causa alla quale non si crede, facendo finta di crederci. (...) I regimi passano, il malcostume resta. Il nichilismo non è un'ideologia, (...), esso è una condizione dello spirito che viene giudicata morbosa solo da chi ne è immune o da chi ne guarisce, di cui i più neppure si rendono conto, nella persuasione anzi che essa corrisponda ad un modo di essere del tutto naturale. »E' stato sempre così si dice »e sempre così sarà .(...) In che stato sono ridotte le coscienze? Basta guardarsi attorno. Vi sono molte persone per bene capaci di privarsi di cibo per smagrire, ma non per nutrire un affamato. Dalle classi alte il nichilismo si è propagato su tutta la superficie sociale. L'epidemia n

on ha risparmiato i quartieri popolari, Universale è oggi il culto nichilista della forza e del successo.(...) Alla generale insicurezza personale, corrisponde la ricerca affannosa da parte dei singoli di una qualche protezione in uno dei partiti di massa, il che non esclude affatto il doppio gioco con il partito avversario, possibile vincitore di domani. Se le critiche ideologiche e le campagne morali non scuotono la compattezza dei partiti di massa e lasciano indifferenti la maggior parte degli iscritti, ciò accade per il motivo che sono ben rari quelli che vi aderiscono per un'intima convinzione ideologica. A questa disposizione opportunistica dei singoli, ossessionati dalla propria sicurezza e da quella della propria famiglia, corrisponde la tendenza usurpatrice degli enti collettivi. A dir vero, non saprei quale collettività oggi, possa considerarsi immune dalle lebbra del nichilismo. (...) Il meccanismo mortifero è sempre lo stesso: ogni gruppo o istituzione sorge in difesa di un ideale, ma strada face

ndo si identifica con esso e poi vi si sostituisce, ponendo al vertice di tutti i valori i propri interessi. »Chi nuoce al Partito è contro la Storia . I soci (...) non ne sono affatto incomodati; vi trovano anzi un tornaconto. I vantaggi non sono trascurabili poiché l'abdicazione da ogni responsabilità personale è completa. Se per dannata ipotesi a qualcuno sorge un dubbio, egli non ha che da rivolgersi all'ufficio propaganda. Quanti si avvedono che la tirannia dei mezzi sui fini è la morte naturale dei fini più nobili?"

4. Le elezioni europee: soggetti autonomi d'iniziativa politica, potere - partito, trans/partito.

Voglio ancora, brevemente, parlare di vissuto: della campagna per le elezioni europee, la prima che ho vissuto direttamente impegnato come candidato nella "Lista antiproibizionista sulla droga - contro la criminalità politica e comune". Mi sembra doveroso, in quest'assemblea, dare la mia testimonianza su questo a voi, compagni radicali.

Io credo che le elezioni europee siano andate bene; bene non solo per il Partito radicale, per le sue ragioni e speranze che hanno connotato questa tornata elettorale, in Italia, di presenza trasversale, trans - partitica. Bene nel complesso in Europa, perché hanno evidenziato il pericolo che la mancanza di spirito e d'iniziativa autenticamente, praticamente federalista produce: cioè l'aumento delle tensioni fondamentaliste ed estremiste - di destra come di sinistra, non importa. Bene: e la cartina di tornasole, entro certi limiti, è il voto della Gran Bretagna, che dimostra che l'Europa della Signora Tatcher non interessa proprio a nessuno, nemmeno ai suoi elettori.

Perché la politica deve conquistare l'attenzione, l'interesse la fiducia della gente: con onestà (anche intellettuale!), sincerità, impegno civile.

Per quanto riguarda l'Italia, vorrei dire che le elezioni non potevano andare meglio: e spiegherò il perché, - si parva licet -dal mio punto di vista di radicale candidato antiproibizionista, come Marco Pannella lo ha fatto dal suo punto di vista di candidato federalista nell'Alleanza repubblicana e liberale.

La presenza elettorale transpartitica dei radicali alle elezioni europee ha messo in pratica la decisione del 34* Congresso di Bologna, che affermava la volontà del Partito radicale di non partecipare più, in quanto tale, alle competizioni elettorali "nazionali". Nulla quaestio che anche queste elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo siano state elezioni "nazionali". La risoluzione approvata - su impulso degli eletti radicali - l'anno scorso dal PE, che invitava gli Stati membri a rendere possibile a cittadini della Comunità di essere candidati non solo nel proprio paese, ma anche negli altri, è stata attuata solo in Italia, perché solo in Italia esistono eletti radicali, e un Gruppo federalista europeo nelle istituzioni parlamentari: e non sono mancati i ricorsi alla Corte Costituzionale per impedire la presenza di cittadini europei nelle liste "italiane". Ma voglio ricordare anche il seguito di quella parte della mozione del 34* Congresso: "Il Partito radicale ha in questi anni animato e svolto un r

uolo determinante nello scontro aperto in Italia fra partitocrazia e democrazia, diritto ed illegalità, certezza delle regole e logica di occupazione e spartizione del potere. La continuazione di questa lotta in forme diverse, da concepire e organizzare, è affidata ai radicali italiani e alle loro associazioni, e troverà (...) negli organi del partito il necessario punto di riferimento ed un punto di confronto. Il Partito radicale, nel momento in cui decide di rinunciare anche e in primo luogo in Italia alle competizioni elettorali, consegna ai radicali la responsabilità di perseguire con il massimo di iniziativa la promozione di nuovi soggetti politici riformatori e di aggregazioni politiche ed elettorali capaci di prefigurare una forza laica di alternativa che possa governare la trasformazione democratica delle istituzioni".

Le luci e le ombre di cui ci parla il Primo Segretario - quanto al successo elettorale della strategia trans - partitica radicale -derivano, a mio avviso, dalle contraddizioni insite già in quella mozione. Quella mozione fu il punto di arrivo dell'esperienza dei primi sei mesi della Xa Legislatura italiana, cominciata nel 1987. L'esperienza innovativa di un Gruppo Federalista Europeo: che però oggi conta meno iscritti, nella Camera dei deputati, di quanti ne avesse all'inizio della legislatura. E bene fa il Primo Segretario a mettere in evidenza che la transpartiticità è data non solo e non tanto dalla presenza di radicali nella promozione di "soggetti politici riformatori", ma all'opposto, dalla concreta assunzione di responsabilità dell'essere "anche" radicali da parte di altri. Assunzione di responsabilità che noi radicali dobbiamo essere in grado di stimolare più e meglio di quanto siamo riusciti a fare finora. Possiamo riuscire se faremo fiducia alla nostra parte migliore, quella rimasta libera da vinco

li, remore ed interessi, che è la sola in grado di essere ascoltata dalla parte migliore dei nostri avversari.

Ha scritto il Primo Segretario che l'iniziativa dei radicali ha portato al Parlamento europeo "(...) un solo eletto della Lista antiproibizionista". Questa espressione (un solo eletto) mi ha sorpreso: se ne aspettavano forse due? Finora, quanti, nel "gruppo dirigente" si sono espressi, prima o dopo le elezioni, per prevedere o interpretare il risultato della Lista antiproibizionista, avevano dato per scontato che sarebbe stato un miracolo eleggere un deputato: raccogliere cioè almeno lo 0.7%, circa 280.000 voti: questo con la sola eccezione, a quanto mi consta, di Massimo Teodori. Personalmente, avevo espresso invece la convinzione che fosse necessario puntare ai due eletti: ero, e sono convinto che ne esistano le possibilità. Ma l'impostazione di fondo è stata altra, e ha finito con il costituire una profezia autoavverantesi. L'analisi del voto antiproibizionista deve partire, a mio avviso, da una domanda: come e perché sono mancati gli appena centodiecimila voti necessari all'elezione del secondo deputato

europeo? Faccio notare, intanto, che Marco Taradash è stato eletto, com'era prevedibile, nella circoscrizione Nord-ovest, la più grossa e la più importante, ma che proprio in quella circoscrizione si è avuta la percentuale più bassa, inferiore alla media nazionale: l'uno per cento, a fronte dell'1,3%.

Io credo - e penso che questa mia opinione potrà essere suffragata dall'analisi estesa dei risultati elettorali del 18 giugno - che l'impostazione politica della campagna elettorale sia stata errata: non so quanto funzionalmente e intenzionalmente rispetto all'obiettivo, dichiaratamente posto come massimo, del conseguimento di un seggio, e solo di un seggio, nel Parlamento di Strasburgo. Era sbagliato quello che, nel linguaggio della comunicazione politica, è detto "posizionamento". Vorrei leggere qui un brano, citato in "Come vendere un partito", di Diego Masi. Chi parla è Enrico Finzi, Presidente dell'Intermatrix Italia: "Contrariamente a quel che pensano in molti, il problema fondamentale della politica italiana non è la comunicazione, ma il »prodotto . Non tanto investire più e meglio (...) quanto aver qualcosa da offrire. Un partito deve fare le cose che reputa giuste, ma non può trascurare l'aspetto di marketing politico: Deve vendersi: perché non importa essere bravi, occorre che gli elettori ti compr

ino. E' un mercato, in senso positivo. Nel quale ti devi muovere verso i tuoi clienti. Non verso gli altri. E' inutile essere apprezzati dall'elettore di un partito concorrente, che può farti l'onore delle armi ma non ti vota. (...) Diventa fondamentale il posizionamento, cioè come ci si pone rispetto agli altri, ai concorrenti. (...) Un esempio: il Pci ha fatto suoi molti temi ecologisti, ma in termini di posizionamento, sul terreno dell'ecologia, un elettore che vota per motivazioni ecologiche non vota i comunisti, vota i verdi. Agli occhi di quest'elettore solo quello dei verdi è un posizionamento Doc, quello comunista è tardivo. (...) I partiti minori dovrebbero concentrare i loro sforzi su pochi elementi di distinzione, non guardare all'intera proposta politica".

Qual è, quale poteva essere, il posizionamento relativo di una Lista antiproibizionista, quello che gli consentiva di accedere in modo più completo al serbatoio della sua rendita di posizione? E nelle elezioni che, in Italia, hanno fatto riscontrare il più alto astensionismo, a quante "vittime del proibizionismo", magari anche sieropositive e tossicodipendenti, non è stato possibile far giungere qual messaggio? Si è rivolto altrove il messaggio, con l'idea di fare da "controcanto" alle idiozie craxiane; ma nessuna possibilità reale di rappresentanza è stata istituzionalmente consentita all'interno del posizionamento effettivo della Lista. In quella lista, che più di ogni altra ha trovato negli organi del partito radicale il suo "necessario punto di riferimento e un luogo di confronto", si sono confrontati modi d'essere, alternativi fino alla contrapposizione; e ha vinto probabilmente il timore di non "danneggiare" altri, a discapito della democrazia interna, e dello "stato del partito".

Si è discusso a lungo, nei mesi scorsi, di antiproibizionismo radicale, e si è detto che esso sarebbe costituito da due anime: quella anti-droga, e quella pro-droga. Credo che questa semplificazione manchi il centro del problema. Si può ben dire, com'era scritto nei manifesti elettorali della Lista, che "il proibizionismo ha fallito": ma è questa una semplificazione, uno slogan elettorale. Se invece intendiamo discutere ontologicamente del proibizionismo, allora non ne constatiamo il fallimento, ma il successo: finora. Lo testimoniava ancora recentemente Peter Cohen, tra i segretari della Lega Internazionale Antiproibizionista, che aveva partecipato nel suo paese, l'Olanda, ad una conferenza con il responsabile della campagna antidroga nell'amministrazione Bush. Non conduciamo una campagna antidroga per sostenere delle ragioni etiche o morali - disse costui - ma per riaffermare, puramente e semplicemente, il principio d'autorità. Né più né meno che ai tempi del proibizionismo sull'alcol: voluto e realizzato

dalla maggioranza protestante americana in odio e contro la minoranza cattolica, come è provato da studi realizzati in America sulle iniziative a sostegno del proibizionismo promosse negli anni Venti e Trenta dall'Esercito della Salvezza. La campagna antidroga di Craxi, oggi in Italia, è al servizio dell'idea dell'uomo forte, dell'idea presidenzialista più o meno sudamericana: non dice, Craxi, che drogarsi è sbagliato, moralmente ingiusto: bisogna affermare con forza, dice, che drogarsi "non è lecito". Viene in mente la cosiddetta "age of consent" della puritana Inghilterra: che non punisce l'omosessualità come reato, ...al di sopra dei 21 anni ("the age of consent", appunto).

Mi sembra sterile - a parte ogni altra considerazione - la campagna antiproibizionista svolta come campagna "d'ordine": antiproibizionisti contro gli scippi, antiproibizionisti contro i soldi della mafia, antiproibizionisti perché si possa avere l'eroina pulita, buona, farmaceutica. Tutto giusto e necessario, ma non sufficiente. Tutto questo è acqua sulla plastica della morale ben pensante, e il discorso va portato molto più nel profondo: sul principio d'autorità, sul modello di società, sul diritto - per esempio - a nascere fuori dall'ospedale, a morire nel proprio letto, a non avere la vita medicalizzata, controllata, nelle scuole e negli ospedali, come nelle carceri e nelle caserme. Ma questo è un discorso che richiede molto cuore, talvolta un vero e proprio raisonnable dereglèment des tous les sens: non si può parlare solo alla parte razionale dell'avversario, perché il potere è, esso stesso, una droga, e l'abuso di potere non modifica solo la sua parte razionale. Una società più libera, di individui più

liberi, maggiormente in grado di vivere le proprie endorfine piuttosto che ricorrere a quelle sintetiche, non comincerà se non troveremo il modo per rivolgerci agli altri con la forza e la tenerezza - la nonviolenza - degli accenti della nostra infanzia libera.

Ho fatto campagna elettorale nella circoscrizione nord-orientale, con Dora Pezzilli - che qui voglio pubblicamente ringraziare, anche per la sua decisione di iscriversi al Partito comunista italiano. Abbiamo cominciato la nostra campagna esponendo al Procuratore della Repubblica di Udine quanto a Dora era stato raccontato da persone del mondo della prostituzione in città: che la criminalità organizzava il traffico di droga attraverso il controllo della prostituzione, con la connivenza di ambienti della Questura di Udine: segreto di Pulcinella, vox populi sussurrata e imbarazzante, di cui nessuno intendeva assumere la responsabilità. L'abbiamo proseguita girando di città in paese, distribuendo volantini, fermando la gente per strada, stringendo mani, con l'emozione di scoprire nel volto di sconosciuti quello dei nostri amici, dei nostri fratelli. Come i "Blues Brothers", in una macchina con il pieno di benzina e "undici Chesterfield nel pacchetto", con un paio di trombe e un amplificatore prestatici dalla Fe

derazione comunista di Pordenone, abbiamo tenuto decine di "comizi volanti", quelli per i quali non è necessaria l'autorizzazione delle questure. Senza palchi: abbiamo parlato dalle strade e dai marciapiedi, e la gente era con noi. Ci venivano ad abbracciare, e ci dicevano: "Ora abbiamo capito chi siete, voi siete i radicali. Dove eravate finiti? Eravate irriconoscibili...".

Abbiamo fatto, tra l'altro, un comizio a San Patrignano, proprio davanti all'ingresso della Comunità-miliardo del Beato Vincenzo Muccioli. Di fronte a dieci compagni e venti o trenta tra poliziotti e carabinieri, di fronte ai giovani della comunità, assediati dai trattori che Muccioli - assente - aveva voluto ci rombassero intorno, "sfrizionando", perché non fossimo uditi. Trattori che ci sembravano il simbolo della tragedia della Tien An Men, e dell'infelicità e dei massacri che sempre, le terapie e le politiche "con i baffi" finiscono per creare. Un comizio che guadagnò sette colonne diffamanti su "Il Giorno" di Milano; ma non l'onore della cronaca su Radio radicale. Chiedemmo a Marco Taradash, come capolista, e al Primo Segretario Stanzani un investimento, minimo rispetto al complesso del denaro anticipato per la campagna nazionale della Lista, per consentire la diffusione della videocassetta del comizio nelle tv locali. Ci fu risposto di no; eravamo "pericolosi", per la campagna e per la Lista. Abbiamo c

ontinuato: senza fidare nel potere, radicali scalzi, sempre più convinti di dover allora rappresentare nient'altro che noi stessi e la nostra radicalità, la nostra partigianeria, di essere, nella Lista antiproibizionista, il "fronte interno", antipartitocratico, nella "lista radicale".

Sì: abbiamo ingessato una classe dirigente, abbiamo, in tutti gli anni '80, reso irriconoscibile il Partito radicale. Eravamo sulle montagne, o intenti ad attraversare deserti di amore e di speranze, a colpi di digiuni, di arresti, con la fame contro la fame, contro lo sterminio per fame. Gli altri, i molti, i tanti del divorzio e dell'aborto, dei referendum e delle lotte civili, ci avevano dato per dispersi, o sconfitti, o omologati. Sciolte le nevi, in montagna non si può stare; occorre scendere a valle, nelle città, come ci disse, a Budapest, Marco Pannella. La vita, e la lotta, continuano: perché se no, si muore.

5. Informazione e comunicazione radicale: radio radicale, notizie radicali, lettera radicale.

La diversità radicale si è appannata; la "parola" radicale non basta più. Può ancora bastare la parola, senza il corpo? La nostra informazione, quella radiofonica soprattutto, rischia sempre di più di essere "controinformazione". Non comunichiamo più: la comunicazione è il suo effetto, può dirsi conclusa solo quando, dall'altra parte, ci rispondono ricevuto. Ed è, questo messaggio, quel che più manca, come ritorno dall'altra parte dell'etere.

Radio radicale."Bisogna essere sempre molto attenti, quando si parla per radio, perché la radio fa ascoltare non solo quello che dite, ma anche quel che pensate".

Notizie radicali. Non so quanti, come me, si sono ribellati al titolo del penultimo numero del giornale: "E ora, subito, le iscrizioni". Perché, prima si poteva aspettare?

Lettera radicale. Dalla relazione del Tesoriere Paolo Vigevano: "Ci troviamo di fronte ad un organismo che (...) non riesce ad assicurare la redazione di un testo di 10/12 cartelle ogni 15 giorni a tre quattromila persone in Europa attraverso la Lettera radicale". Dalla relazione al Consiglio Federale di Madrid, aprile 1988: "Il partito (...) non è predisposto a »riflettere, a predisporre, a pianificare . (...). Anni e anni di attività intensa, continua, stressante, tra difficoltà spesso vissute »come insuperabili , anche se poi superate e risolte, senza mai pervenire ad un minimo di stabilità e di sicurezza (se non acquisite nell'ambito di una propria » specificità ) hanno prodotto un inevitabile »logoramento , che - per di più in assenza di un ricambio sufficiente e adeguato - ha indotto stanchezza e un profondo bisogno di soste, se non di interruzioni". Da "La fantasia come necessità" - prefazione a "Underground: a pugno chiuso!" di Andrea Valcarenghi (1973) -: "L'etica del sacrificio, della lotta eroica,

della catarsi violenta mi ha semplicemente rotto le balle; come al »buon padre di famiglia , al compagno chiedo una cosa prima d'ogni altra: di vivere e di essere felice".

"Assicurare la propria felicità è un dovere (per lo meno indiretto), perché il fatto di non essere contenti del proprio stato potrebbe facilmente diventare una grande tentazione di mancare ai propri doveri" (Kant, Fondazione della metafisica dei costumi). Nessun commento ulteriore.

6. Lo stato del partito.

Care compagne, cari compagni,

io credo che noi oggi dobbiamo confrontarci con una realtà che forse ci indispettisce, ma a dispetto del nostro dispetto, non per questo diviene meno reale. Quando un essere umano in coma entra in un ospedale, il compito della sala rianimazione consiste in poche parole nel seguire il "protocollo". L'esame di realtà di questo partito ci dice che siamo di fronte ad uno stato di coma, l'esame di realtà del mondo esterno ci dice che le speranze di rianimazione sono utopia. Dobbiamo oggi scegliere tra protocollo ed eutanasia, o scegliere di essere partito: non possiamo sottrarci a questo schema triangolare. Il Partito radicale è morto? Viva il partito radicale. Chiudere il Partito radicale? Io sono per la fondazione (del) Partito radicale.

Dobbiamo "sgessare" il Partito radicale: dobbiamo "sgessarne" il gruppo dirigente: restituire a tutti e a ciascuno la libertà e la dignità di essere "anche" radicali. Dobbiamo scrostare le incrostazioni partitocratiche: zavorra, che non ci serve più, ci impedisce di volare. Scriveva Ernesto Rossi, in "Abolire la miseria" (1945): "L'esperienza dimostra che, anche nei paesi ad ordinamento economico più individualistico, coloro che hanno il governo della cosa pubblica tendono sempre ad eliminare l'opposizione, ed a consolidarsi al potere come oligarchie, valendosi dell'appoggio degli impiegati militari e civili, che più hanno da temere, se non ubbidiscono agli ordini, e più hanno da guadagnare, se si meritano la loro riconoscenza. Contro questo pericolo sono state studiate cautele e garanzie sempre più perfette, stabilendo incompatibilità elettorali, inamovibilità di magistrati, concorsi e leggi organiche per le carriere burocratiche (...). Ma cosa avverrebbe se tutti i cittadini diventassero impiegati dello St

ato? E' facile immaginarlo. (...) E' vero che nessun regime economico, comunque individualistico, può garantire contro la tirannide: l'unica garanzia contro di essa sta nelle coscienze e nella volontà dei cittadini".

Nella relazione di Sergio Stanzani, ho segnato un grosso punto interrogativo, a margine delle considerazioni che cito: "Ritengo (...) di dover insistere sui limiti da attribuire al parametro economico finanziario come espressione quantitativa di una realtà politico-organizzativa molto più ampia e complessa, costituita e rivolta a considerare il partito e la sua dimensione come »complesso operativo adeguato , dotato quindi di efficacia e di efficienza, in grado di rispondere qualitativamente e quantitativamente alle proprie finalità (...). Si tratta di considerazioni e valutazioni sul partito come mezzo, come strumento d'iniziativa e di lotta politica, che hanno posto in evidenza notevoli contraddizioni nell'interpretazione della corrispondenza dei metodi e dei modelli organizzativi da impiegare con le finalità da perseguire. Problematica questa non solo mai affrontata finora nei nostri dibattiti, ma neppure considerata, perché estranea e distraente rispetto alla »qualità della politica ".

Trasecolo. Ho sempre creduto che nel nostro partito questo fosse punto di partenza, e non di arrivo delle nostre riflessioni: se è vero che per un nonviolento, "i mezzi in fin dei conti sono tutto". Mi trovo a distanza siderale dalle considerazioni che seguono di Sergio Stanzani ("Nel nostro caso, quando si tratta di passare da una realtà »storicamente definita ad una nuova e diversa realtà »del tutto indeterminata , la continuità, la durata è una condizione che s'impone"). I miei anni mi hanno insegnato che quando si cambia, non si cambia che per amore: e questo, in genere, accade all'improvviso, anche se il processo meditativo è stato lungo, penoso. Lo "stato del partito" è un modo di essere.

Ho inteso, con questa relazione, cercare di definire come e in quale direzione io stesso, compagno tra i compagni, posso mutare il mio stato, il mio modo di essere partito. Non posso condividere il tono - e dico soprattutto il "tono", per quanto nel momento in cui scrivo queste righe, io abbia potuto apprezzarlo solo dalla carta stampata - usato da Sergio Stanzani nel porre sullo stesso piano le due ipotesi da lui prospettate. Il fatto che - come iscritto - egli propenda per la prima ipotesi deve far supporre che - in quanto Primo Segretario - egli sia più disponibile a caldeggiare la seconda?

Marco Pannella ci ha raccontato di un suo dialogo con Thomas Sankara, il Presidente del Burkina Faso ("la terra degli uomini giusti") ucciso in un colpo di stato. Nessuna terra è, oggi, ancora, la terra degli uomini giusti; e il nostro partito, primo e unico al mondo, non è, ancora, il partito che noi vogliamo, in grado di prefigurare quella terra. Certo, il conto economico e politico delle nostre attività è positivo; quello finanziario, disastroso.

Il Partito radicale è, oggi, molto, molto più che il nostro, il partito di quelli che non sono ancora radicali. E' a loro, e forse alla generazione dei nostri bambini, che oggi dobbiamo saper passare lo scettro. Questo comporterà per ciascuno di noi la responsabilità di cambiare: di mutare gli accenti del nostro linguaggio, il tono della nostra parola, la disposizione del nostro corpo: in tre parole, "lo stato del partito".

 
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