di Marco TaradashSOMMARIO: La nuova legge sulla droga si è messa in moto da sei mesi e subito ne affiora l'inefficienza, l'inefficacia e l'ingiustizia. "Una violenza allo Stato di diritto", come recita l'ordinanza del Tribunale di Roma di rinvio della legge davanti alla Corte Costituzionale.
(L'Unità del 9 gennaio 1991)
Boicottata - dicevano - dagli antiproibizionisti, la nuova legge sulla droga, tanto fortemente voluta dal Psi e dal ministro Rosa Russo Jervolino, si è messa in moto. E ne affiorano subito, persino sulla stampa indipendente, i vizi: ci sono le tare ereditate dalle norme preesistenti, e ci sono le innovazioni, un gruppo di emendamenti peggiorativi, in senso punizionista, della vecchia e - mi auguro - da nessuno rimpianta 685. Vizi non segreti, d'altronde, visto che durante il lungo dibattito parlamentare che ne accompagnò l'approvazione erano stati uno per uno descritti e previsti, denunciati all'opinione pubblica e al Parlamento (tanto da essere perfino in qualche misura corretti). Inefficienza, inefficacia, ingiustizia sono infatti i risultati pratici di un semestre di applicazione della legge.
Quanto all'inefficienza, bastano un paio di giri fra carceri, prefetture, questure, procure, centri di assistenza ai tossicodipendenti, di qualsiasi metropoli o cittadina, per rendersene conto. Le tortuose procedure di applicazione della legge creano disparità di comportamento perfino fra magistrati e poliziotti di province limitrofe, i nuovi poteri dei prefetti non hanno ottenuto altro risultato che mettere in crisi il rapporto, difficilissimo da creare, ancor più faticoso da mantenere, fra centri sanitari e tossicomani, mentre le carceri si gonfiano di tossicodipendenti (ovunque sono stato erano più del 50% e spesso molti, molti di più) e sieropositivi, curati con umidità, sporcizia e sovraffollamento.
Dell'efficacia potrebbe dire da solo quell'indicatore che i fautori della nuova legge avevano assunto ad unità di misura indiscutibile per sancire la necessità della controriforma: il numero dei morti per overdose. Se nel 1989, anno del grande strepito anti-droga, si era enfatizzato il record negativo dei 973 morti, è con assoluta discrezione che i telegiornali e anche i giornali hanno riferito dei 1133 morti del 1990. L'Avanti! ci ha ambiguamente elogiato per non aver strumentalizzato questo dato. A noi -che non prendiamo lezioni dai cattivi maestri e che conosciamo le cifre delle vittime delle droghe legali- l'aumento dei morti per overdose, equamente diviso fra i primi sei mesi e gli ultimi del 1990, dice soltanto che la nuova legge non ha inciso (se non in peggio) sulla vita quotidiana di cittadini perseguitati per la loro infelicità, malattia o irresponsabilità. Col risultato di esporre a rischi maggiori i consumatori senza che vi sia alcun segnale di deterrenza efficace verso i non-ancora-consumatori.
L'ingiustizia infine. Non solo l'ingiustizia fondamentale di considerare un comportamento personale come un atto delinquenziale. Non solo l'ingiustizia statistica di non considerare fra le vittime della droga (o meglio, del proibizionismo sulla droga) le centinaia di migliaia di persone, donne e anziani soprattutto, che hanno sofferto di rapine, scippi, furti, in una dimensione che sfugge a ogni possibilità di controllo repressivo (l'84% dei reati di cosiddetta microcriminalità denunciati resta impunito, e solo il 5% di furti e scippi trova un responsabile). Ma l'ingiustizia specifica, su cui l'ordinanza del Tribunale di Roma di rinvio della legge davanti alla Corte Costituzionale getta una luce vivissima, della violenza fatta all'ordinamento dello Stato di diritto -e quindi inesorabilmente alle persone in carne ed ossa- con quell'articolo sulla dose media giornaliera che è andato a sostituire la vituperata 'modica quantità'. Cancellata sul falso assunto che fosse questo forellino nell'impianto proibizionist
a della legge 685 ad averne causato la disgregazione e il fallimento, mentre era vero il contrario. Con un triplo salto mortale giuridico Governo e maggioranza hanno liquidato uno dei capisaldi del diritto penale, e cioè che l'onere della prova spetta all'accusa. Si badi bene, non ci si è accontentati di rovesciare l'onere della prova, come in certe leggi dell'emergenza e come capitava spesso nel processo di tipo inquisitorio. No, con la dose media giornaliera non è neppure consentito di dimostrare la propria innocenza. E' tutto automatico: hai uno spinello, sei un consumatore e finisci davanti al prefetto; ne hai due? sei uno spacciatore, scattano le tenaglie della legge. Col paradosso che si rischia la galera con ventimila lire di marijuana e ce la si può cavare con duecentomila lire di eroina, grazie alle tabelle del ministero della Sanità, sponsor involontario della mafia pesante. E può così capitare, come nel caso che ha fatto scattare l'ordinanza romana, che uno sprovveduto cittadino cittadino accetti,
patteggiandola, una pena di un anno e quattro mesi per meno di mezzo grammo di cocaina. La stessa quantità che a un famoso giornalista italiano, autore di un bestseller proibizionista sull'argomento, bastava appena nell'intervallo fra il breakfast e la prima colazione.