Contributo al III Congresso italiano del Partito Radicale - Roma, 14-17 febbraio 1991 - di Giuseppe Calderisi, Giovanni Negri, Gianfranco Spadaccia, Massimo Teodori e Bruno ZeviSOMMARIO:
1. La difficile scelta tra il rifiuto della guerra e la necessità di non cedere alla violenza.
2. Il fallimento di alternative nonviolente ci ha indotto a stare dalla parte del diritto. La necessità di fermare l'aggressore, di liberare il Kuwait e di impedire che, nell'attuale crisi di un equilibrio internazionale, Saddam Hussein possa diventare un modello da imitare.
3. Una scelta dolorosa e convinta, ma una scelta di opportunità. Nessun fondamentalismo nel nostro SI. E' necessario non scavare solchi fra chi ha fatto, senza fanatismi, opposte scelte.Non tramutare il nostro confronto nello scontro tra due impotenze.
4. Europa, armamenti, diritti umani e democrazia, diritto alla vita: su questi temi è necessario da subito riprendere il dialogo tra noi e la lotta politica per costruire la pace e non limitarsi ad invocarla.
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Da nonviolenti abbiamo sperato che potesse esserci una alternativa alla guerra e, nei limiti delle nostre esigue possibilità, abbiamo anche operato perché una tale alternativa si verificasse. Ma quando, dopo sei mesi di embargo e dopo la scadenza dell'ultimatum, abbiamo dovuto prendere atto dell'inizio delle operazioni militari per la liberazione del Kuwait, in attuazione della risoluzione dell'ONU, ci siamo ritrovati o riconosciuti nel "SI" alla partecipazione italiana alle operazioni belliche.
Intendiamo difendere e rivendicare le ragioni di questa scelta. Non è stata una scelta facile, ma dolorosa e lacerante, come sempre accade quando entrano in conflitto fra loro valori ugualmente importanti : in questo caso da una parte il rifiuto della guerra e, dall'altra, l'affermazione del diritto e la necessità di non cedere alla aggressione e alla violenza.
Abbiamo innanzitutto ritenuto inaccettabile e avvertito come scandaloso il rovesciamento delle responsabilità che si è tentato di accreditare in quei giorni, quasi che a scatenare la guerra fossero stati i paesi arabi e occidentali che avevano inviato proprie truppe nel golfo per imporre l'attuazione dell'embargo, difendere Emirati e Arabia Saudita, e imporre la liberazione del Kuwait, e non il dittatore iracheno che il 2 agosto aveva cancellato in una sola notte dalla geografia politica un intero Stato, riducendolo a provincia dell'Irak.
Siamo naturalmente addolorati ed angosciati per le prove e le sofferenze che deve subire l'incolpevole popolo iracheno già tanto a lungo provato dalla sanguinosa guerra con l'Iran che il dittatore gli ha imposto; dalle prove e sofferenze che coinvolgono i popoli di Israele, d'Arabia Saudita, degli Emirati, di Israele e indirettamente della Giordania e di altri paesi. Ma non comprendiamo come possa essere stata rimossa dalla memoria e dai sentimenti dei tanti oppositori delle risoluzioni dell'ONU e dell'intervento militare la sofferenza di un milione e seicentomila kuwaitiani, occupati, violentati, privati dei loro beni e della loro libertà, e di centinaia e centinaia di migliaia di egiziani, filippini, indiani, pachistani, palestinesi, africani che in Kuwait si erano recati per trovare lavoro e qualche benessere.
A chi dice che la guerra non deve essere più accettata come mezzo per la soluzione dei conflitti internazionali, rispondiamo che anche noi reputiamo una nostra sconfitta il fatto che l'intera comunità internazionale, e in primo luogo quella degli Stati occidentali, continui ad affidarsi, come unico deterrente contro la violenza, all'esclusiva forza delle armi, e che la cultura e gli interessi dominanti delle classi di governo abbiano fin qui impedito financo di esplorare e sperimentare la potenzialità e l'efficacia di ogni alternativa politica nonviolenta con le armi destabilizzanti dell'informazione, delle sanzioni economiche, dell'isolamento politico. E' la stessa cultura di governo che ha lasciato crescere, praticamente incontrollato,un complesso militare industriale che ha prodotto un cinico mercato delle armi e della morte. Ed ora produce la tragica contraddizione di paesi che devono combattere nel Golfo l'esercito di quello stesso dittatore che essi stessi hanno armato nel corso degli anni. Rive
ndichiamo al Partito Radicale il merito di non aver atteso la guerra nel golfo per combattere concretamente questo scandaloso commercio delle armi, sviluppando soprattutto durante la guerra Irak-Iran, una costante iniziativa politica e parlamentare per individuarne e colpirne i responsabili e per farlo cessare o almeno ricondurlo sotto il controllo della legge.
Ma, detto questo, proprio da nonviolenti, dobbiamo affermare con decisione che neppure il cedimento alla violenza e alla aggressione può essere considerato un metodo accettabile di soluzione dei conflitti internazionali.Esso al contrario avrebbe rappresentato un incoraggiamento ad ulteriori aggressioni e ad ulteriori violenze e preparato guerre ancora più estese e sanguinose per i paesi del Golfo e del Medio Oriente e per l'intera umanità. Si e' contestata la validità dell'esempio di Monaco, si e' detto che Saddam Hussein non è Hitler. Forse perché i suoi eserciti non minacciano direttamente i nostri confini e i suoi missili cadono solo su città arabe e israeliane? Non è bastata la guerra con l'Iran, il massacro dei curdi, l'uso delle armi chimiche contro la propria stessa popolazione, l'occupazione del Kuwait?.
E' il rifiuto del cedimento alla violenza dell'aggressore che ci ha indotto dunque ad assumerci la responsabilità del "SI". Ci hanno mosso soprattutto due preoccupazioni.In primo luogo l'opportunità di non mettere in crisi, ma anzi di difendere e rafforzare, la ritrovata capacità dell'ONU - grazie al venir meno dei veti incrociati delle superpotenze - di intervenire nelle crisi regionali e la possibilità concreta di dare attuazione alle proprie risoluzioni. Abbiamo ritenuto e riteniamo che qualche sia pur parziale progresso verso un ordine internazionale più giusto fondato sul diritto anzichè sulla forza o peggio sulla prevaricazione, l'intolleranza nazionale e religiosa e il sempre più diffuso ricorso alle guerre (e quelle intestine dalla Liberia alla Somalia dal Sudan al Libano non sono meno gravi di quelle fra Stati) non possa derivare da un utopico governo mondiale di cui non si scorge alcuna premessa ma solo da una positiva evoluzione
degli attuali strumenti del diritto internazionale, per quanto deboli e imperfetti essi siano. In secondo luogo temiamo che la crisi di un equilibrio internazionale certamente deprecabile perché fondato sulla paura della guerra atomica, come è stato quello che ha caratterizzato quasi mezzo secolo, e la possibilità di una crisi dissolvitrice di una delle due superpotenze che lo hanno assicurato possa far diventare Saddam Hussein agli occhi di ogni dittatore un modello da imitare. E questa ci sembra una eventualità da scongiurare.
Non siamo affatto irenicamente convinti che la conclusione di questa prova di forza risolva tutti i problemi,e che dopo di essa il regno del diritto si sostituisca a quello della forza. Sappiamo che, al contrario, rimarranno gravissimi i problemi sul tappeto, ed enormi le difficoltà per risolverli. Ma pensiamo anche che il cedimento a Saddam Hussein avrebbe aggravato tutto e tutto reso più difficile.
Rispettosi di coloro che, come in ogni tempo i quacqueri, fanno del rifiuto della violenza e della guerra un imperativo assoluto di carattere religioso e morale, rivendichiamo tuttavia alla nonviolenza politica il compito di creare valide alternative al ricorso alla forza nella costruzione della pace e nella lotta contro l'ingiustizia, l'oppressione e la violenza e chiediamo che, quando esse manchino o siano fallite, sia nella stessa misura rispettata la scelta di coloro che considerano prioritaria la reazione all'aggressore.
Non ci consideriamo dunque nè fondamentalisti nè fanatici del "SI" e ci rivolgiamo a quanti hanno scelto il "NO" senza intolleranza e senza fanatismo. Queste opposte scelte non devono scavare un solco per il futuro. Quando questa guerra sarà conclusa, ci si riproporrà da subito il problema di rimuovere le cause che hanno portato a questa situazione, e di impedire nuovi Saddam Hussein.
Non solo all'interno del Partito Radicale, ma intanto nell'ambito della sua azione e organizzazione transnazionale, occorre già ora pensare a come costruire la pace. Il confronto fra i "SI" e i "NO", rischia altrimenti di tramutarsi nel dibattito e nel confronto fra due impotenze. Nella furia di difendere e contrapporre le rispettive scelte, rischiamo di dimenticare che la concreta decisione delle modalità di intervento è passata sopra le nostre teste e che ad essa si è arrivati non solo per la mancanza di serie alternative nonviolente ma anche per la mancanza di una presenza europea che fosse comparabile in termini politici e militari a quella americana: anche se una alternativa all'intervento bellico fosse stata possibile, è mancato il soggetto politico che avesse la forza e la credibilità per farla prendere in considerazione e adottare. Se si fosse voluto scegliere, come alternativa all'intervento militare,la prosecuzione dell'embargo unita ad altri mezzi di pressione, mancava infatti qualsiasi
legittimazione per proporla e imporla, perché era impensabile assicurare l'efficacia dell'embargo e di ogni altra politica aggressiva nonviolenta senza la presenza di una forza militare adeguata; ed il rapporto di forza nel golfo fra Stati Uniti d'America e Comunità europea è di dieci a uno, e solo tre Stati su dodici sono presenti direttamente. Torna di drammatica attualità l'ammonizione di Spinelli che o l'Europa fa fronte alle sue responsabilità internazionali unificandosi volontariamente o di volta in volta è costretta ad unirsi nella soggezione all'iniziativa americana, e le rivolte antiamericane,le dissociazioni autonomistiche, gli opportunismi pseudoneutralisti le stesse marce della pace sono solo una delle espressioni insieme di questa impotenza e di questa obbligata situazione di subalternità.
L'iniziativa e la lotta per interrompere questa vacanza di responsabilità dei governi europei e per costruire una credibile unità e presenza comunitaria dell'Europa; l'impegno per
fermare il complesso militare-industriale e il commercio delle forniture belliche e per mettere al bando le armi chimiche, batteriologiche e nucleari; la necessità di porre con chiarezza al centro del difficile processo per affermare un nuovo diritto internazionale l'affermazione del diritto alla democrazia e dei diritti umani; una immediata e vigorosa ripresa degli sforzi di cooperazione allo sviluppo con tutti gli Stati che assicurino il rispetto di questi diritti fondamentali, cominciando dall'assicurare l'elementare diritto alla vita negli Stati più poveri del terzo mondo : questi ci appaiono i punti su cui,al di là delle divisioni attuali, è necessario subito riprendere il dialogo e trovare convergenza di intenti e di obiettivi politici per non limitarci ad invocare la pace, e ritrovarci poi a protestare impotenti contro la guerra, ma per cercare di costruirla, creandone le condizioni.