SOMMARIO - Occorre ricostruire il dialogo fra chi ha votato si o no all'intervento italiano nella guerra del Golfo sulla base di alcuni punti certi: la questione democratica (la necessità di bloccare ogni forma di cooperazione con i regimi che non rispettino i diritti umani e non programmino la loro conversione democratica); la questione ebraica (ricucitura dello storico dialogo fra movimento socialista e sionismo); gli antichi tabù (superamento del vuoto di politica e di responsabilità dell'Europa, questione sudafricana).
(L'UNITA', 4 marzo 1991)
"Ora occorre vincere la pace". Questa l'invocazione, ed insieme la sfida, che giunge dal Pontefice e da quanti avvertono l'urgenza - cessato il fuoco e lo strazio della guerra - di passare la parola ad una politica di pace.
Perché la pace è quella concreta politica attraverso la quale gli uomini fruiscono della vita - in un itinerario che ci spinge dalla sopravvivenza alla libertà - o si riduce a valore ontologico, ad astrazione tanto appagante per i credenti quanto inadeguata come cittadini e persone del nostro tempo.
Occorre allora coltivare subito il dialogo fra chi non è così stolto dall'attribuire al voto parlamentare del 17 gennaio mattino il valore etico di un SI o un NO alla guerra, ed in particolare fra chi ha comunque vissuto quel voto come un limite, un'impotenza.
Che fare? Un'indicazione viene da quanti - e fra questi autorevoli leaders del PDS - affermano l'esigenza, a maggior ragione dopo il Golfo, di ancorare a "valori forti", a "diritti forti" la politica dell'oggi, e di riscriverne perciò parametri e confini. Questo è un modesto tentativo di aprire un confronto su alcuni punti, certo non esaustivi ma necessari per tradurre l'indicazione in scelte di principio e di campo.
1. La questione democratica.
La contraddizione dell'Occidente, culla della democrazia e del diritto ed in nome del diritto trascinato alla guerra, è insostenibile. Finito il tempo dei colonialismi europei (che a loro modo, tuttavia, seppero esportare anche principii di civilizzazione al di fuori dei quali non sarebbero stati possibili nè l'esperienza nonviolenta gandhiana in India nè l'ascesa al potere di umanisti come Senghor nel Centrafrica francese) l'Occidente ha nel suo insieme esportato tutto fuorchè i propri valori. Interi lustri sono trascorsi all'insegna della cieca politica di un dottor Jekyll che andava costruendo e nutrendo in Asia, Africa, America latina e Medio Oriente decine di Mr.Hyde. E a "feroci tiranni sempre più armati sino ai denti" - per usare l'espressione di Baker - in Occidente fa da pendant la crescita esponenziale non della civiltà democratica e di diritto ma del Moloch bellico-industriale che tanto turbava Eishenower sin dagli anni 50. La vittoria del Diritto nel Golfo - della quale ci siamo in molti felicit
ati - non può in alcun modo nascondere all'Occidente una verità e una paura. Il prossimo incendio, nelle condizioni dell'oggi, potrebbe davvero essere "la madre di tutte le battaglie". Ma ecco allora i "valori forti", ed il coraggio di una paura della quale non bisogna avere vergogna. E' gran tempo che tutte le forze democratiche impongano il blocco di ogni forma di cooperazione (a partire ovviamente da quella militare) con i regimi che non rispettano i diritti umani e non programmano ed attuano la propria conversione democratica. Ed ai maestri di realpolitik, come a certi amici socialisti e repubblicani che schernivano chi denunciava affarismi e traffici d'armi, dobbiamo ora dire che seminando certa cooperazione si raccolgono soltanto i disastri di Mogadiscio.
2. La questione ebraica.
Al di la della lacerazione del 1967 e dei lodevoli sforzi di ricucitura dello storico dialogo fra movimento socialista e sionismo, i riflessi e gli slogan di certo pacifismo e di non pochi settori della sinistra mostrano purtroppo quanto questa sia una ferita aperta, ed anche un test - civile e culturale - del superamento o meno, anche nel nostro paese, degli incubi e dei retaggi prodotti da fascismi, clericalismi e stalinismi. Sia chiaro: non si intende in alcun modo eludere il nodo palestinese (anche se la sproporzione di attenzione fra tale dramma e quello del popolo curdo o del popolo tibetano è una stridente stonatura)
ma affermare una volta per tutte ed in termini politici che l'"Occidente giudaico-cristiano" comprende in sé e tutela Israele e non - per contro - che Israele è la fastidiosa punta di diamante, tollerata per dovere, di un "Occidente plutocratico, giudaico e massonico". Se perciò gli amici di Israele debbono essere i primi a ricordarle che le vere vittorie si colgono solo al tavolo della pace, e che urge sedersi a questo tavolo con i palestinesi, ci pare debba essere un "principio-valore forte" anche quello del pieno riconoscimento dello Stato di Israele da parte dello Stato che del cattolicesimo è massima espressione. La grande riconciliazione, anche politico-diplomatica, fra Vaticano e Israele, è una condizione necessaria per una pace duratura. Il valore emblematico di un simile atto, dopo secoli di ostilità, sarebbe evidente al mondo intero.
3. Gli antichi tabù
Pochi anni or sono Altiero Spinelli, nel generale imbarazzo della sinistra, scrisse che la colpa del raid americano su Tripoli andava addebitata a noi, all'Europa, al pauroso vuoto di politica e di responsabilità che il nostro continente esprime. Fu un'ennesima, ragionevole lancia spezzata per gli Stati Uniti d'Europa ma anche un primo colpo di piccone al muro dei vecchi tabù, primo fra tutti l'anti-americanismo dell'impotenza. Va insomma superato il ruolo di gendarme del mondo assunto dagli Stati Uniti, ma ciò può solo accadere rifondando la funzione delle Nazioni Unite e dando vita all'Europa politica, quale che sia il giudizio e la compassione per chi è morto oggi per Kuwait City e ieri per Montecassino.
Sarà assai arduo, per taluni, rompere i totem. Ma il chiederlo non è una provocazione. Esiste un "tavolo democratico della sinistra" ove sia ad esempio lecito affermare che oggi il governo di Pretoria è quello che nell'intero continente africano offre il massimo di garanzia di vita e sviluppo anche per i sudafricani neri, ed interrogarsi sulla lungimiranza delle sanzioni contro De Klerk e degli "aiuti" a tanti paladini delle "lotte di liberazione e indipendenza", rivelatisi poi atroci dittatori contro i loro stessi popoli?
Sono solo alcuni dei punti che, senza alcuna pretesa di organicità, crediamo siano oggi di grande rilievo per i democratici e per la sinistra. L'auspicio è che un confronto si apra con grande serenità, senza voler inchiodare nessuno ai fantasmi del passato ma anche senza ridurre tante analisi sviluppate dai radicali in questi anni all'esasperata ricerca di posizioni originali e controcorrente.