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Catanzaro Raimondo - 14 settembre 1991
(9) Antimafia? ANTIPROIBIZIONISMO!
RAIMONDO CATANZARO, sociologo

SOMMARIO: »La politica di tipo proibizionista amplia a dismisura la sfera dell'illecito e quindi determina un sovraccarico di compiti nei confronti dell'apparato repressivo . »Il proibizionismo, per il fatto che crea un mercato illecito determina una conseguenza che è tipica dei mercati illeciti, proprio perché si devono svolgere in segreto, devono sfuggire ai controlli, si ha una tendenza molto più forte che non sui mercati legali al formarsi di concentrazioni monopolistiche o di accordi di cartelli oligopolistici. Questo determina un incremento della potenza, della forza, comunque della concentrazione di ricchezze delle organizzazioni criminali .

(»Antiproibizionismo sulla droga e politica criminale contro la mafia dopo l'assassinio di Libero Grassi a Palermo - Atti della sessione speciale del Consiglio generale del Cora, Bologna, 14 settembre 1991)

Vorrei analizzare un caso concreto per prenderne spunto per alcune riflessioni di carattere generale. Il caso concreto è il caso della città di Catania, città alla quale si è fatto cenno qui nel dibattito in riferimento ad alcuni eventi specifici. Come tutti voi sapete Catania sembrava essere immune dal fenomeno mafioso fino agli anni '70 e in realtà, a ben guardare, probabilmente lo era.

Cosa succede a Catania? Catania è un caso emblematico e lo vorrei analizzare perché mi sembra significativo del modo in cui ]a criminalità mafiosa si espande. Ci può dare un contributo a capire quali sono le modalità di diffusione e nascita del fenomeno fuori dalla sua zona di genesi originaria che, per la mafia siciliana, come sappiamo è Palermo.

Per Catania i fenomeni rilevanti sono due. Un fenomeno che si colloca sul versante delle attività economiche di mercato e un fenomeno che si colloca sul versante della sfera politica, cioè della classe politica locale e, nel gioco di questi due, l'emergere di una criminalità mafiosa di nuovo tipo.

Cosa succede sostanzialmente? Catania ha vissuto fino alla prima parte degli anni '70 su un'alleanza molto stretta fra un gruppo di imprenditori emergenti che si erano sostanzialmente arricchiti con lo sventramento della città operato dalla amministrazione locale. Un'alleanza fra questo gruppo di imprenditori e una forte conduzione egemonica del governo della città da parte della Democrazia Cristiana e, per essa, del principale gruppo che la dominava, il gruppo dei dorotei capeggiato da Drago. La svolta, più o meno, si colloca intorno alla metà degli anni '70 quando questo equilibrio fra gruppi imprenditoriali ed élite politica si rompe. Ciò avviene sostanzialmente perché si perde da parte dell'élite politica la capacità egemonica di conduzione, mentre dall'altra parte era invece notevolmente cresciuto il potere economico e quindi la capacità espansiva del settore imprenditoriale. In altri termini succede che la classe politica locale non è più in grado di garantire all'imprenditorialità locale capacità di e

spansione su mercati altri da quello locale, il che invece è un'esigenza di questi gruppi imprenditoriali.

Nel frattempo cosa era successo a livello della criminalità della città? Era accaduto un fenomeno di profonda trasformazione. Dalla vecchia criminalità basata sull'organizzazione di contrabbando di tabacchi o della prostituzione, dalla piccola criminalità di quartiere, si era cominciato a passare a forme più centralizzate, più organizzate, collegate prima attraverso la rete del contrabbando di tabacchi, al traffico di droga. Emergono, quindi, i nuovi protagonisti della criminalità mafiosa catanese, emergono i Ferrera, detti Cavalluzzo, emergono i Ferlito e i Santapaola. Questi soggetti, paradossalmente, rispetto ai politici presentano agli occhi degli imprenditori un grande vantaggio per i collegamenti di mercato che hanno, mi riferisco al mercato della droga, sono in grado di garantire meglio dei politici locali la possibilità di penetrare e quindi di conquistare appalti, commesse, forniture ed altro su aree di mercato che non sono più quella limitata di Catania o della Sicilia orientale. Questa, fra l'altr

o, era la cosa che aveva intuito il prefetto Dalla Chiesa quando parlava dei gruppi mafiosi catanesi a Palermo. In buona sostanza è su questa base, sulla base cioè del crollo dell'egemonia di un'élite politica locale, dell'espansione di gruppi imprenditoriali che erano sorti come imprenditori assistiti e dell'emergere di alcune organizzazioni oligopolistiche del traffico di droga e della criminalità mafiosa nella città di Catania, che si spezzano quegli equilibri e si crea questa possibilità.

Se questo in rapidi cenni è ciò che è accaduto a Catania, credo che si possano fare alcune considerazioni di carattere generale.

La prima considerazione riguarda un punto cruciale nella lotta alla mafia e sono d'accordo con tutti coloro che hanno sostenuto che è una sorta di grosso pericolo ritenere di scaricare unicamente sull'apparato repressivo la lotta alla mafia, cioè il sistema dei rapporti tra mafia e politica, che in Sicilia è stato particolarmente forte sin dalla genesi storica della mafia nel corso dell'8OO e che trova, ovviamente, dei punti di forza nel fatto che la sfera dei compiti dello stato nel Mezzogiorno, e in Sicilia in particolare, in quanto regione autonoma a statuto speciale, è particolarmente ampia e include quindi tutta quella parte che riguarda gli appalti, le forniture, l'intervento nell'economia, eccetera. E' questo un punto sul quale, certamente, occorre intervenire.

Un altro punto su cui è necessario intervenire è quello dei meccanismi elettorali. L'attuale sistema elettorale è certamente un sistema che consente, sia a livello di elezioni locali che nazionali, rapporti molto precisi di scambio di prestazioni tra politici e mafiosi e se noi non interrompiamo questo circuito qualunque azione di tipo repressivo avrà scarsa efficacia.

L'altro punto si ricollega alla questione del proibizionismo e alla questione della droga. Sostanzialmente ci troviamo di fronte a una di quelle classiche situazioni nelle quali definire da parte dello stato come illeciti certi tipi di attività o di comportamenti ha delle conseguenze, diciamo così, devastanti. In primo luogo perché la politica di tipo proibizionista amplia a dismisura la sfera dell'illecito e quindi determina un sovraccarico di compiti nei confronti dell'apparato repressivo. Sovraccarico che non soltanto determina delle conseguenze negative, nel senso che non si riesce a far fronte ad esso, cioè non si riesce ad attuare quello che la legge prevede, ma ha degli effetti perversi nel senso che induce, in alcune occasioni, gli apparati repressivi, per ragioni di autolegittimazione nei confronti dell'opinione pubblica e delle altre istituzioni dello stato, a concentrarsi su reati di piccola entità perché colpire un gran numero di reati di piccola entità significa dimostrare che l'apparato repress

ivo funziona. E' come quando durante le vacanze estive, più o meno intorno a Ferragosto, noi sentiamo i soliti comunicati sulle attività delle forze di polizia, quante patenti sono state ritirate, quante infrazioni, eccetera, cioè una statistica che di per sé legittima l'attività degli apparati repressivi. Quando questi apparati si trovano di fronte a questo tipo di situazione, per cui hanno difficoltà a colpire i reati grossi perché non sono attrezzati o perché ci sono dei problemi, tendono ad incrementare l'attività sui reati piccoli. Questo è un primo effetto del proibizionismo. Un secondo effetto è che il proibizionismo, per il fatto che crea un mercato illecito determina una conseguenza che è tipica dei mercati illeciti, proprio perché si devono svolgere in segreto, devono sfuggire ai controlli, si ha una tendenza molto più forte che non sui mercati legali al formarsi di concentrazioni monopolistiche o di accordi di cartelli oligopolistici. Questo determina un incremento della potenza, della forza, comu

nque della concentrazione di ricchezze delle organizzazioni criminali. Un terzo punto che a mio avviso è connesso con questi, qui vorrei evidenziare il fenomeno della estorsione, è il fatto che il formarsi di gruppi criminali che organizzano il traffico della droga è reso più semplice dal controllo sul territorio che hanno le organizzazioni mafiose. Il controllo sul territorio consente, ovviamente anche ai fini del mercato della droga, lo spaccio, il traffico, la distribuzione, la vendita al dettaglio.

Come si controlla il territorio? Una delle armi fondamentali per controllare il territorio, che significa anche controllo dell'elettorato su quel territorio, è il meccanismo delle estorsioni perché attraverso questo si dimostra concretamente che la presenza, diciamo, di tipo statuale, nel senso di capacità di estrazione impositiva, di esazione finanziaria, lì è quella dei gruppi criminali. Da questo punto di vista esiste una stretta connessione tra le attività di natura estorsiva delle organizzazioni criminali mafiose e le loro attività relative al traffico di droga. Non vedrei una contrapposizione fra le due, anzi vedrei una stretta connessione fra questi due tipi di attività e la capacità di intrattenere rapporti privilegiati con il potere politico e con l'amministrazione attraverso il controllo dell'elettorato che si esercita sul territorio. Ovviamente, se questo è vero, politiche di natura repressiva hanno poca efficacia anche se devono esser fatte, anche se la presenza dello stato o segnali, come sottol

ineava Lamberti, sul piano delle estorsioni potrebbero indurre comportamenti diversi da parte degli imprenditori e dei commercianti.

Sotto il profilo di una strategia anticriminale i due o tre punti cruciali a me sembrano: una regolamentazione; una legalizzazione per quanto riguarda il mercato della droga, quello degli appalti e delle forme principali di intervento dell'operatore pubblico nel Mezzogiorno; una riforma del meccanismo elettorale che riduca al massimo le possibilità di influenza dei gruppi mafiosi nella elezione di propri rappresentanti negli organismi rappresentativi.

 
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