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Caggiano Giandonato - 30 aprile 1992
"MANIFESTO PER LA CAMPAGNA CONTRO LA PENA DI MORTE"

di Giandonato CAGGIANO, docente di Diritto Internazionale presso l'Istituto Universitario Orientale di Napoli, Responsabile scientifico della Società Internazionale per l'Organizzazione Internazionale

SOMMARIO: Documento sulla pena di morte predisposto per il 36· Congresso del Partito radicale (Roma, Hotel Ergife, 30 aprile - 3 maggio)

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Il ricorso alla pena di morte, come sanzione nei confronti di comportamenti considerati particolarmente gravi, continua ad essere previsto in vari ordinamenti giuridici statali.

Tale ricorso è giustificato con diverse motivazioni, tra le quali: l'efficacia deterrente come motivo di ordine pubblico e sicurezza; l'esigenza di rispettare le aspettative dell'opinione pubblica o certe tradizioni.

La sanzione di morte offende però il valore supremo della dignità umana, il diritto alla vita, che deve esser statuito a livello internazionale come indisponibile da parte dello Stato e dei suoi organi (anche dei tribunali correttamente e legalmente operanti). In proposito si ricorda che il funzionamento del sistema di garanzia dei diritti affermatosi negli anni '40, ha per effetto di rendere indisponibili alla sovranità degli Stati alcuni valori della persona umana.

Per ottenere il risultato di proteggere il diritto alla vita in modo da escludere la possibilità di ricorrere alla pena di morte, occorre limitare la competenza interna degli Stati (domestic jurisdiction), e cioè la loro autonomia normativa e giudiziaria (i poteri esecutivi e di polizia sono limitati da altre norme del sistema dei diritti umani).

La sovranità degli Stati, che è stata equiparata ad una sfera opaca per l'esclusività riconosciuta al potere statuale nei confronti dei propri cittadini, si sta trasformando in una sfera trasparente.

A tale fine il primo obiettivo della campagna per l'abolizione della pena di morte deve riguardare la partecipazione agli accordi internazionali che limitano o vietano tale sanzione.

Così facendo si ottiene l'impegno (autolimitazione) degli Stati contraenti a non utilizzare la pena di morte.

Per sollecitare i governi in questo senso, parlamentari e membri influenti dell'opinione pubblica deveno utilizzare tutti gli strumenti a loro disposizione: ordini del giorno delle Assemblee aventi il medesimo contenuto, discussioni di politica estera ecc.

E probabile tuttavia che un certo numero di Stati continuerà, per motivi politici e tradizionali, a non assumere alcun impegno derivante da accordi internazionali in questo campo. Rientra infatti nella libertà degli Stati non partecipare agli accordi internazionali, conclusi in seno alle Nazioni Unite, poichè il presupposto del diritto dei trattati è la volontà degli Stati ad autolimitarsi.

Per quanto riguarda i trattati sui diritti umani e sulla interdizione della pena di morte esiste un ulteriore difficoltà. Il controllo sulle misure di applicazione interna delle convenzioni in materia di diritti umani non è demandata a Tribunali internazionali, ma avviene solo sulla base di meccanismi quasi-giurisdizionali o amministrativi creati dagli stessi accordi. Peraltro, oltre alla ratifica del trattato occorre una specifica dichiarazione ad hoc da parte degli Stati perchè questo meccanismo sia operante nei loro riguardi. Questo meccanismo di controllo internazionale, dunque, potrebbe essere reso più efficace chiedendo a tutti gli Stati di accettarlo.

Considerate queste difficoltà, il secondo obiettivo della campagna per l'abolizione della pena di morte deve essere quello di contribuire alla fomazione di una consuetudine internazionale che sancisca l'inalienabilità, l'inderogabilità e l'indisponibilità del valore della vita come base suprema e fondamentale di tutto il sistema internazionale dei diritti umani.

Questo secondo obiettivo si lega strettamente al primo: l'allargamento della partecipazione a trattati che vietano o limitano la pena di morte. Com'è noto, una partecipazione ampia e convinta ad accordi internazionali da parte di un altissimo numero di Stati può costituire una prova dell'esistenza di una consuetudine internazionale.

La formazione di una tale consuetudine risulterebbe decisiva per il successo della Campagna per l'abolizione della pena di morte perchè questo tipo di norma è vincolante per tutti gli Stati e prevale, secondo il diritto internazionale, sul diritto interno contrastante.

Un'azione internazionale deve perciò svilupparsi perchè si affermi presso i Governi l'opinione dela obbligatorietà (opinio juris) del principio-consuetudine del rispetto del diritto alla vita attraverso il divieto della pena di morte negli ordinamenti statali.

In questo senso un primo passo in avanti potrebbe essere realizzato, ove la pena di morte venisse considerata una gross violation dei diritti umani.

Infatti le pratiche "sitematiche, generalizzate e gravi" di violazione dei diritti umani, chiamate nel linguaggio delle Nazioni Unite "gross violation", possono essere sottoposte alla Commissione dei diritti umani, organo ausiliario del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, per il solo fatto che lo Stato accusato di questi comportamenti è membro delle Nazioni Unite (ciò in base alla procedura 1503 del 1970).

Anche questa procedura tuttavia non ha carattere giurisdizionale e si riduce a una raccomandazione rivolta allo Stato considerato colpevole affinchè ponga fine al comportamento incriminato.

Conseguentemente, l'azione per l'affermazione di un principio generale di diritto internazionale che vieti la pena di morte, deve portare all'affermazione di un vero e proprio diritto internazionale penale nel quale si sottraggano almeno talune fattispecie di comportamenti e talune categorie di individui, alla giurisdizione dei tribunali nazionali, attribuendo la competenza a giudicare ad organi giurisdizionali (tribunali) internazionali.

E importante cioè che il diritto internazionale riduca la sovranità degli Stati nell'esercizio della giustizia e nella possibile applicazione ai reati più gravi della pena di morte, attraverso limitazioni sostanziali o procedurali nell'alveo delle Nazioni Unite e di Tribunali internazionali.

La recente vicenda della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza relativa alla responsabilità di due agenti libici presunti colpevoli dell'attentato all'aereo Pan Am (vicenda Lockerbie) mostra chiaramente che la cooperazione internazionale in materia penale è a un punto di svolta.

Il Consiglio di Sicurezza infatti, in una risoluzione del 21/1/92, ha richiesto al governo libico di cooperare "nello stabilire la responsabilità per atti di terrorismo", chiedendo la consegna dei presunti colpevoli pur nell'assenza di una apposita convenzione di estradizione e pur essendo questi individui cittadini dello stesso Stato a cui la consegna è richiesta.

Anche se questa risoluzione non chiarisce ancora la forma che la cooperazione giudiziaria internazionale dovrà assumere è evidente che per taluni reati il Consiglio di Sicurezza dichiara la propria competenza e il proprio potere nei confronti dell'amministrazione della giustizia.

Ci sembra si affermi così un ulteriore passo in avanti per il rafforzamento del processo di ingerenza negli afari interni dei paesi membri delle Nazioni Unite.

A giustificazione di questa proposta della Campagna vi è da un lato la mancanza di obiettività da parte dei tribunali nazionali nel giudicare certi reati (per esempio in occasione di colpi di Stato), dall'altro la difficoltà anche tecnica di giudicare situazioni complesse legate a comportamenti transnazionali (ad esempio, nel caso di traffico internazionale di droga, traffico d'armi ecc.).

La proposta dovrebbe dunque riguardare la sottrazione di talune materie o di taluni individui (ad esempio i minori) alla giurisdizione degli Stati realizzando così una verticalizzazione della Comunità internazionale e dunque una ingerenza legittima negli affari interni degli Stati in un settore che è la chiave e il fondamento di tutto il sistema di protezione internazionale dei diritti umani.

 
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