di Ugo VILLANI
Docente di Diritto Internazionale, esperto del sistema delle Nazioni Unite e dei Diritti Umani.
SOMMARIO: Documento sulla pena di morte predisposto per il 36· Congresso del Partito radicale (Roma, Hotel Ergife, 30 aprile - 3 maggio)
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Benché il diritto alla vita sia solennemente proclamato in tutti gli atti internazionali sui diritti dell'uomo, a cominciare dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 10 dicembre 1984, e benché esso sia un diritto "primordiale", poiché condiziona il godimento di ogni altro diritto umano, almeno sino agli anni '80 i suddetti atti internazionali non rivelano un atteggiamento abolizionista nei confronti della pena di morte.
Per esempio, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950, dopo avere dichiarato che il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge, aggiunge che nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nei casi in cui il delitto sia punito dalla legge con tale pena (art. 2). Anche il Patto sui diritti civili e politici, adottato dall'Assemblea generale dell'ONU il 16 dicembre 1966, e la Convenzione americana sui diritti dell'uomo di San José de Costa Rica del 22 novembre 1969 nella medesima norma relativa al diritto alla vita regolano la pena di morte, la quale viene così configurata quale un'eccezione ammissibile allo stesso diritto alla vita.
Gli accordi ora ricordati tendono peraltro a limitare la pena di morte ed a circoscrivere con un complesso di garanzie la sua applicazione. Sia il Patto sui diritti civili e politici del 1966 che la Convenzione americana del 1969, dichiarano che la pena di morte può essere pronunciata solo per i reati più gravi. Malgrado l'intento di limitare al massimo l'applicazione della pena di morte, non può sottacersi la genericità delle espressioni impiegate, che si prestano ad interpretazioni soggettive dei diversi Stati; uno Stato autoritario, per esempio, potrebbe considerare tra i reati più gravi le manifestazioni di dissenso politico nei propri confronti. Forse più efficace è un altro limite contenuto nello stesso Patto del 1966, in virtù del quale la pena di morte non può essere pronunciata in contrasto con le disposizioni del Patto. Ciò vale ad escludere ogni possibilità di pena capitale per fatti che rappresentano esercizio di diritti umani, quali manifestazioni di pensiero, di libertà religiosa ecc., come pu
re modalità di esecuzione che possano costituire un trattamento crudele, disumano o degradante.
Nelle diverse convenzioni a tutela dei diritti umani è previsto poi che la pena di morte può essere comminata solo mediante sentenza (quindi con tutte le garanzie connesse ad un procedimento giudiziario) e in base alla legge che prevedeva tale pena al momento della commissione del reato (nullum crimen, nella poena sine lege).
Un divieto di pronunciare la pena capitale è posto per i reati commessi dai minori di diciotto anni (art. 6 del Patto sui diritti civili e politici, art. 4 della Convenzione americana sui diritti dell'uomo e, più di recente, art. 37 della Convenzione di New York del 26 gennaio 1990 relativa ai diritti del fanciullo).
Nei confronti di donne incinte sembra invece vietata solo l'esecuzione, per cui, dopo il parto, sarebbe lecito procedere alla pena capitale! Ulteriori limitazioni (verso gli ultrasettantenni, per delitti politici ecc.) sono previste nella Convenzione americana del 1969, la quale prescrive inoltre che se uno Stato abbia abolito la pena di morte questa non può essere più ripristinata.
All'inizio degli anni '80 vi è stata una svolta abolizionista nei riguardi della pena di morte, anche se permangono delle eccezioni nelle quali ne è consentita l'applicazione. A livello europeo va ricordato il Protocollo n. 6 alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, adottato il 28 aprile 1983 ed entrato in vigore nel 1985, relativo all'abolizione della pena di morte (mentre un analogo Protocollo alla Convenzione americana sui diritti dell'uomo è stato adottato l'8 giugno 1990). Esso, in termini perentori e immediati, dichiara all'art. 1 che la pena di morte è abolita e che nessuno può essere condannato a tale pena, né giustiziato. E' tuttavia consentita la previsione della pena id morte per atti commessi in tempo di guerra o di pericolo imminente di guerra (art. 2). Questa eccezione, che può considerarsi tradizionale anche nelle legislazioni di Stati che hanno abolito la pena di morte, è dovuta alla considerazione del particolare stato di vulnerabilità della compagine statale in caso di guerra, che p
uò richiedere una più rigorosa difesa dello Stato. Va peraltro osservato che l'eccezione nell'ipotesi di pericolo immminente di guerra, lascia un margine di incertezza nell'apprezzamento di tale pericolo e pertanto può offrire il pretesto per abusi da parte degli Stati parti del Protocollo.
Nell'ambito, dell'ONU la scelta abolizionista è stata effettuata con il secondo Protocollo facoltativo al Patto sui diritti civili e politici diretto ad abolire la pena di morte, adottato a New York il 15 dicembre 1989 ed entrato in vigore l'11 luglio 1991. Esso afferma che ogni Stato parte deve adottare tutte le misure necessarie per abolire la pena di morte e prescrive che nessuna persona sottoposta alla giurisdizione di un tale Stato può essere giustiziata. Se l'obbligo di abolire la pena di morte può quindi apparire "programmatico", richiedendo a tal fine l'adozione di misure da parte degli Stati, il divieto di ogni esecuzione risulta invece immediatamente precettivo.
Anche questo protocollo prevede in via eccezionale il mantenimento della pena di morte, ma solo in casi estremamente limitati e con il rispetto di una serie di garanzie. La pena di morte infatti può essere applicata solo in tempo di guerra, per un reato di carattere militare, commesso in tempo di guerra e di estrema gravità. Al fine di eliminare ogni incertezza sulla sussistenza dello stato di guerra, gli Stati parti sono tenuti a comunicare al Segretario generale dell'ONU la proclamazione e la fine dello stato di guerra sul loro territorio (oltre che le disposizioni della propria legislazione applicabili in tempo di guerra).
Il Protocollo del 1989 rappresenta un importante progresso verso l'abolizione della pena di morte, anche rispetto al Protocollo n. 6 alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, caratterizzandosi - come si è visto - per una più restrittiva e rigorosa limitazione delle eccezioni al divieto della pena capitale. Tale progresso viene peraltro a ridimensionarsi se si ricorda che il Protocollo del 1989 è stato approvato dall'Assemblea generale dell'ONU... a minoranza. A suo favore hanno infatti votato solo 59 Stati, contro 26 voti contrari e 48 astensioni; la maggioranza degli Stati ha preso quindi le distanze da tale accordo.
Questa circostanza mostra come la comunità internazionale, nel suo complesso, sia ancora ben lontana dall'assumere una posizione abolizionista; e ciò invero non può sorprendere, ove si consideri realisticamente che all'interno degli Stati non esiste, nell'opinione pubblica, una maggioranza sicuramente abolizionista, mentre sempre più insistenti sono nella "coscienza popolare" le tentazioni di ripristino della pena di morte persino in Paesi, come il nostro, che l'hanno da tempo abolita. Le incertezze e le difficoltà, che a livello sia interno che internazionale si frappongono all'abolizione della pena di morte, devono costituire motivo per un rinnovato impegno, anzitutto sul piano culturale ed educativo, per contrapporre alla logica funerea della morte una cultura della vita, intesa quale bene assoluto e irrinunciabile, che non può essere sacrificato neppure in nome delle ragioni di giustizia e di difesa della società.