di Marco De AndreisSOMMARIO: Il primo e il secondo capitolo tentano di definire le droghe e di descrivere il regime internazionale che le regola. Il terzo capitolo, che assorbe gran parte della trattazione, guarda al fenomeno dal punto di vista dei paesi produttori. Il quarto capitolo è essenzialmente una rassegna critica delle stime sul fatturato globale e su quello italiano del narcotraffico. Nelle conclusioni si suggeriscono ulteriori direzioni d'indagine.
INDICE:
Introduzione
1. Le droghe e il loro regime
2. Il ruolo delle Nazioni Unite
3. I principali paesi produttori
3.1 La Birmania
3.2 Il Sud-Est Asiatico
3.3 L'Asia Sud-Occidentale
3.4 Il Medioriente
3.5 L'America Latina
4. Le stime sul fatturato del narcotraffico
Conclusioni
Tabelle
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Introduzione
Nel corso degli anni ottanta, il traffico di droghe illegali s'è imposto come una questione importante dell'economia e della politica internazionali, trovando sempre più spazio sulla letteratura specializzata e sui mezzi di comunicazione di massa. Perché?
Le ragioni principali sembrano essere due: un effettivo aumento della produzione e del commercio di stupefacenti su scala mondiale; la volontà politica delle amministrazioni Reagan e Bush di contrastare il fenomeno con maggiore energia (1).
In perfetta coerenza con le loro iniziative passate in materia, gli Stati Uniti hanno subito cercato di mobilitare la comunità internazionale: facendo pressione sui paesi d'origine delle materie prime perché cessino o diminuiscano la produzione; stimolando i paesi consumatori a un'azione concertata per l'interdizione del traffico e la riduzione del consumo. L'issue droga ha così fatto irruzione - dal vertice di Parigi del 1989 - nel Gruppo dei 7 paesi più industrializzati (G-7) che si è occupato in particolare di alcuni aspetti finanziari, come il riciclaggio del denaro, e commerciali, come il controllo dei trasferimenti degli agenti chimici impiegati nella lavorazione dei derivati dell'oppio e della foglia di coca. Gruppi di lavoro ad hoc sono sorti anche nella Comunità Europea (il Gruppo Pompidou) e nell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Le agenzie delle Nazioni Unite sulla droga sono state riorganizzate e una nuova Convenzione Internazionale si è aggiunta, nel 1988, a
lle due precedenti in materia di stupefacenti.
Come altri simili termini-contenitore, anche il narcotraffico nasconde una miriade di problemi. Problemi di definizione: capire cosa si debba intendere per droga. Problemi medici e farmacologici: diversamente da quanto si tende a credere c'è ben poco di certo quanto agli effetti individuali e sociali degli stupefacenti. Problemi normativi o, se si preferisce, di paradigma: è giusto, è opportuno, è fattibile proibire produzione, commercio e consumo di certe sostanze psicoattive? Problemi di contiguità o di intreccio con altre grosse questioni politiche ed economiche: debito, sottosviluppo e democrazia nel Terzo Mondo; tossicodipendenza, criminalità e libertà personali nei paesi sviluppati. Problemi di misurazione: sono affidabili le stime sul giro d'affari dei narcotrafficanti, o quelle sui consumatori e i loro comportamenti verso le droghe?
Da questo elenco di problemi deriva, per quanto possibile, la struttura del presente lavoro. Il primo e il secondo capitolo tentano di definire le droghe e di descrivere il regime internazionale che le regola. Il terzo capitolo, che assorbe gran parte della trattazione, guarda al fenomeno dal punto di vista dei paesi produttori. Il quarto capitolo è essenzialmente una rassegna critica delle stime sul fatturato globale e su quello italiano del narcotraffico - l'Italia compare come, diciamo così, studio del caso per la sola ragione che chi scrive è italiano e vive attualmente a Roma. Nelle conclusioni si suggeriscono ulteriori direzioni d'indagine. Non a caso queste riguardano proprio ciò che questo paper ha trascurato: le politiche interne dei paesi consumatori.
Infine qualche ringraziamento: al Gruppo Verde del Parlamento Europeo per aver finanziato la ricerca; e al personale della Biblioteca Americana di Roma dell'USIS e della biblioteca del CeSPI per la gentile ed efficientissima collaborazione.
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(1) Le spese per la politica antidroga statunitense sono passate da 1,7 miliardi di dollari nel 1981 a 11,7 nel 1992. Cfr. National Drug Control Strategy, The White House, febbraio 1991, pp. 133-5.
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1. Le droghe e il loro regime
L'accezione comune del termine droga è all'incirca la seguente: una sostanza che agisce sulla mente o sul sistema nervoso, che crea assuefazione o dipendenza e di cui sono vietati produzione, commercio e consumo per fini non-medici (2). I sinonimi più usati sono: narcotico, stupefacente, sostanza psicotropa.
Dalla prima Convenzione Internazionale sull'Oppio del 1912, sono stati firmati 15 trattati multilaterali sulle droghe. I più importanti attualmente in vigore sono i seguenti tre.
- La Convenzione Unica sugli Stupefacenti (New York, 30 marzo 1961, 133 aderenti) e il protocollo di emendamento (Ginevra, 25 marzo 1972, 106 aderenti).
- La Convenzione sulle Sostanze Psicotrope (Vienna, 21 febbraio 1971, 106 aderenti).
- La Convenzione delle Nazioni Unite contro il Traffico Illecito di Stupefacenti e Sostanze Psicotrope (Vienna, 20 dicembre 1988, 50 aderenti più la Comunità Europea).
Decine di stupefacenti e sostanze psicotrope sono elencate nelle tabelle annesse alle prime due convenzioni (3).
Rimarrebbe deluso chi cercasse, in questi documenti, un'enunciazione delle ragioni per cui la comunità internazionale ha deciso di bandire produzione, commercio e consumo per fini non-medici delle varie sostanze. Il preambolo della Convenzione del 1961 si limita a osservare da un lato che "l'uso medico degli stupefacenti è indispensabile al fine di alleviare il dolore", e dall'altro che "la tossicomania è un flagello per l'individuo e costituisce un pericolo economico e sociale per l'umanità". Quello della Convenzione del 1971 da un parte esprime preoccupazione "per il problema della sanità pubblica e per il problema sociale derivanti dall'abuso di talune sostanze psicotrope", e dall'altra dichiara che "l'uso delle sostanze psicotrope a fini medici e scientifici è indispensabile". Manca però una descrizione generale esauriente di stupefacenti e sostanze psicotrope, dei loro effetti sull'individuo e sulla società - descrizione da cui dovrebbe discendere la necessità di distinguere tra impieghi medici leg
ittimi e impieghi non-medici illegittimi. Al suo posto c'è, in ambedue le Convenzioni all'articolo 1, una definizione circolare secondo cui i termini stupefacente e sostanza psicotropa designano qualunque sostanza di cui alle tabelle annesse alle convenzioni medesime.
Si può immaginare, comunque, che la proibizione dell'uso non-medico delle droghe sia dovuta alle loro proprietà di sostanze che agiscono sulla mente e che creano dipendenza. Una spiegazione simile, tuttavia, urta col fatto ben noto che le Convenzioni ignorano numerose sostanze - alcool, tabacco, caffè etc. - che hanno una o entrambe queste proprietà. Oppure includono sostanze, come i derivati della Cannabis, che mancano di una delle due proprietà: la creazione di dipendenza.
Altra questione ancora è il grado o l'intensità con cui le varie sostanze possiedono le caratteristiche citate - da cui potrebbe essere discesa la decisione di rendere illegali le più forti. Anche in questo caso, però, legalità e illegalità di sostanze diverse non sembrano riflettere un accordo generale sull'intensità dei loro effetti, né sul piano scientifico, né sul piano politico.
Ad esempio, nella "Relazione della commissione d'inchiesta sulla diffusione della criminalità organizzata connessa al traffico di droga nella Comunità", depositata al Parlamento Europeo il 2 dicembre del 1991, si propone la seguente classificazione.
- Droghe ultrapesanti: eroina, crack.
- Droghe pesanti: morfina, cocaina, fenciclidina, metadone, petidina.
- Droghe medio-pesanti: anfetamine, barbiturici, LSD, psilocibina, mescalina, solventi chimici, assenzio.
- Droghe medio-leggere: oppio, hascisc, khat, coca, tabacco, alcool distillato.
- Droghe leggere: cannabis, alcool fermentato, peyotl, funghi allucinogeni, codeina e tranquillanti.
- Droghe ultraleggere: tè, caffè, cioccolato.
Diffusione e status legale delle varie sostanze psicoattive dipendono da circostanze storico-culturali. L'atteggiamento prevalente dell'Occidente verso le droghe più comuni era, lo scorso secolo, molto diverso da quello attuale. L'oppio veniva venduto senza ricetta medica e a basso prezzo. Medicamenti a base di oppio, come il laudano, avevano un uso diffuso presso tutte le classi sociali come analgesici e sedativi. Malgrado se ne conoscessero le controindicazioni (Thomas De Quincey pubblicò, con enorme risonanza, Confessions of an English Opium Eater nel 1822), nessuno pensò allora di metterlo fuorilegge e la Gran Bretagna addirittura soppresse con la forza militare il tentativo cinese di bandirne le importazioni dall'India (la cosiddetta guerra dell'oppio del 1840-42) (4). Anche la cocaina, fino all'inizio di questo secolo, era legale in tutto l'Occidente: oltre ad essere consumata come tale, essa veniva mescolata in piccole quantità in prodotti d'ogni genere, dalla Coca-Cola al vino (5) .
La masticazione della foglia di coca è a tutt'oggi una pratica popolare in molti paesi dell'America Latina. L'oppio, nelle regioni asiatiche che lo producono, ha tradizionalmente un uso sia medico che ricreativo. Nel mondo islamico è l'alcool ad essere sanzionato negativamente, mentre non è così per l'hascisc. Queste importanti differenze culturali sono riconosciute, seppure molto parzialmente, anche nella Convenzione Unica che, all'articolo 49, garantisce alle parti il diritto di autorizzare in via transitoria sul proprio territorio l'uso per scopi non-terapeutici di oppio (15 anni), foglia di coca e derivati della cannabis (25 anni).
Insomma, l'atteggiamento verso le sostanze psicoattive può variare radicalmente da società a società: il commercio e il consumo di alcool è stato proibito dal 1919 al 1932 negli Stati Uniti; in Africa l'aumento del consumo di alcool e di sostanze sintetiche è molto più sostenuto e preoccupante di quello dei derivati dell'oppio e della cannabis (6); per paesi come Taiwan, Corea del Sud e Giappone il problema della droga è centrato non sull'eroina e la cocaina, bensì sulle anfetamine e le metanfetamine (7).
Classificare una volta per tutte le varie sostanze psicoattive sulla base della loro rispettiva nocività intrinseca (effetti a breve e a lungo termine sull'organismo, creazione di dipendenza etc.) è comunque molto difficile. Primo, perché è lecito attendersi reazioni molto diverse da individuo a individuo. Secondo, perché i molti usi terapeutici suggeriscono l'esistenza di un confine labile tra effetti benefici e effetti nocivi, tra uso e abuso. Difatti, quasi tutte le sostanze chiamate in causa nei paragrafi precedenti hanno impieghi medici correnti: barbiturici e anfetamine tra le sostanze di sintesi, morfina e codeina tra i derivati dell'oppio (8); più recentemente è stato accertato che la marijuana contrasta gli effetti collaterali negativi del trattamento chemioterapico sui malati di cancro e quelli del farmaco AZT sui pazienti affetti da AIDS o sieropositivi.
Classificare le sostanze psicoattive sulla base della loro nocività sociale è altrettanto complesso. Mentre le conseguenze dell'uso e dell'abuso delle sostanze legali - tipicamente: alcool e tabacco - su una data popolazione sono verificabili direttamente, quelle legate all'uso e all'abuso di sostanze illegali lo sono assai meno. In quest'ultimo caso il regime d'illegalità crea una quantità imponente di interferenze all'osservazione medico-sociologica che vanno dall'assenza di regole sulla qualità del prodotto, all'assenza di controlli igienico-sanitari, sino all'atipicità sociale del consumatore - indotta, quest'ultima, proprio dalla criminalizzazione dell'uso delle sostanze in questione, prima fra tutte l'eroina. Valutare le conseguenze sociali della legalizzazione di alcune droghe sulle società sviluppate contemporanee è dunque un esercizio inevitabilmente soggettivo, per la semplice ragione che tale legalizzazione non c'è mai stata. Tutto quello di cui si dispone sono casi storici o antropologici -
società molto diverse dalla nostra per effetto del tempo o della cultura.
Le iniziative proibizionistiche sulle sostanze psicoattive in tutto questo secolo, sino ai giorni nostri, originano negli Stati Uniti d'America. Al di là delle legittime preoccupazioni sugli effetti nocivi derivanti dall'abuso di queste sostanze, dalla fine dell'ottocento il puritanesimo e il moralismo della società americana "giocarono un ruolo centrale nell'ispirare il passaggio di leggi statali e federali che proibivano gli oppiati, la cocaina, l'alcool, le sigarette, la prostituzione e molto altro ancora. [La] convinzione morale che ogni forma d'inebriamento fosse da aborrire, toccò una corda sensibile presso milioni d'americani. [Tale] elogio della sobrietà attrasse settori dell'élite americana, le cui preoccupazioni paternalistiche circa la vulnerabilità delle classi inferiori all'abuso di alcool e di altre droghe si combinavano con il timore che la loro produttività ne potesse risentire. [Inoltre] i movimenti per la proibizione dell'alcool e della droga trassero un forte sostegno dall'associazione com
une delle droghe con le minoranze temute e disprezzate" (9) - l'alcool per quanto riguarda gli immigrati cattolici ed ebrei, l'oppio per gli asiatici, la marijuana per i latino-americani, la cocaina per i neri.
La globalizzazione del proibizionismo statunitense fallì, nel caso dell'alcool, prima ancora di fallire sul piano interno. E' riuscita invece nel caso di molte altre sostanze psicoattive, soprattutto con i derivati dell'oppio, della coca e della cannabis: il regime internazionale di controllo della droga così come oggi lo conosciamo si deve all'iniziativa diplomatica americana (10). Il motivo sembra semplice: mentre l'alcool aveva delle profonde radici culturali nel resto delle società occidentali, cioè in Europa, oppio, coca e cannabis non ne avevano che di molto superficiali. Dal canto loro, i paesi del Sud del mondo non hanno voluto, o non hanno potuto, opporsi a questa partizione tutta occidentale delle sostanze psicoattive tra lecite e illecite: la stragrande maggioranza di essi ha infatti aderito alla Convenzione Unica del 1961.
Per quanto arbitrario, l'attuale regime internazionale di controllo della droga, sostenuto a sua volta dalle varie legislazioni nazionali, ha dunque messo fuorilegge la produzione, il commercio e, quasi ovunque, l'uso per scopi non medico-scientifici dei derivati dell'oppio, della coca e della cannabis - nonché di molte altre sostanze psicoattive. La persistente domanda di queste sostanze nell'occidente industrializzato genera il problema-droga così come viene comunemente inteso da noi, oltre a un giro d'affari di difficile quantificazione ma sicuramente non trascurabile.
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(2) Il termine droga ha in molte lingue altri significati: spezia in italiano, composto medicinale in inglese e francese, etc.
(3) Come già osservato, i termini stupefacente e sostanza psicotropa sono essenzialmente sinonimi. A prima vista si potrebbe pensare che il primo denoti sostanze di origine naturale e il secondo sostanze di sintesi. Ma non è così: la Convenzione Unica specifica che il termine stupefacente comprende entrambe la categorie. Perché si sia proceduto con due distinte convenzioni, invece che con unico emendamento alla Convenzione del 1961 resta, per chi scrive, un mistero. Sta di fatto che, con la Convenzione sulle Sostanze Psicotrope, il regime venne esteso a molte sostanze di sintesi, come gli allucinogeni (LSD), gli stimolanti (anfetamine) e i sedativi ipnotici (barbiturici).
(4) La letteratura inglese dell'ottocento, da Coleridge a Wilkie Collins, passando per De Quincey, è stata influenzata dall'oppio in modo non trascurabile.
(5) Nel 1863 un ingegnere chimico corso di nome Angelo Mariani metteva in commercio un vino da tavola cui venivano aggiunti dai 35 ai 70 mg di cocaina a bottiglia. Il "vino Mariani" venne apprezzato da personalità come Zola, Ibsen, Anatole France, Massenet, Rodin, Sarah Bernhardt e ricevette persino una medaglia d'oro dal Papa Leone XIII. Cfr. Ethan A. Nadelmann, "Légalisation: la fin du narco-trafic?", Politique Internationale, estate 1990.
(6) Cfr. Jacques Iguel, "L'alcool en Afrique noire: le Sud consomme ce que le Nord produit", in Guy Delbrel (a cura di), Géopolitique de la drogue, Editions La Découverte, Parigi, 1991; United Nations, Report of the International Narcotics Control Board for 1991 [d'ora in avanti INCB 1991 Report], Vienna, 1992, pp. 12-15 e pp. 19-20.
(7) Cfr. Bill Savadove, "High Society", Far Eastern Economic Review [d'ora in avanti FEER], 12 settembre 1991; H. Richard Friman, "The United States, Japan, and the International Drug Trade", Asian Survey, settembre 1991.
(8) L'uso medico dell'oppio ha origine antichissime e prosegue sino ai giorni nostri. Scopo della Convenzione Unica del 1961 è appunto quello di controllare che la produzione mondiale di droghe non ecceda la quantità ritenuta "essenziale per scopi medici e scientifici". Per gli oppiati, tale quantità veniva stimata nel 1990 in circa 200 tonnellate di morfina equivalente. Cfr. INCB 1991 Report, p. 17.
(9) Ethan A. Nadelmann, "Global Prohibition Regimes", International Organization, autunno 1990.
(10) "Uomo chiave di tale iniziativa fu Harry Anslinger, direttore del Federal Bureau of Narcotics dalla sua creazione nel 1930 sino al 1962 e già responsabile della sezione esteri dell'agenzia federale sul proibizionismo alcoolico". Ibidem.
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2. Il ruolo delle Nazioni Unite
E' alle Nazioni Unite che spetta il compito di supervisione e coordinamento di quanto disposto dalle tre Convenzioni internazionali sulle droghe. Dal primo marzo del 1991 è operativo con sede a Vienna lo United Nations International Drug Control Program (UNDCP), che unifica le competenze di tre organismi prima separati: la Commission on Narcotics Drugs del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, creata nel 1946 con compiti di indirizzo politico nel settore; l'International Narcotics Control Board, composto da un gruppo di esperti e creato nel 1961 col compito di rilevare l'andamento mondiale del fenomeno; lo United Nations Fund for Drug Abuse Control (UNFDAC), fondato nel 1971 col compito di assistere i governi nella lotta alla produzione, al traffico e all'abuso di droghe.
Esiste poi un Expert Committee on Narcotic Drugs all'interno della Divisione di Farmacologia e Tossicologia dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). All'OMS è demandato dalla Convenzione Unica e dalla Convenzione sulle Sostanze Psicotrope il giudizio sulle sostanze psicoattive, nel senso che questa organizzazione può proporre l'inclusione di nuove sostanze nelle tabelle, lo spostamento da una tabella all'altra, o la cancellazione di una sostanza - mai verificatasi, quest'ultima.
L'UNDCP ha un bilancio annuo, basato su contributi volontari, di circa 70 milioni di dollari. L'Italia è tradizionalmente uno dei principali finanziatori, dell'UNFDAC prima e dell'UNDCP ora e, a quanto pare, ha provveduto quasi la metà del bilancio 1992 (11). Ciò dovrebbe spiegare l'avvicendarsi di italiani alla guida di questo organismo: Giorgio Giacomelli, attuale direttore dell'UNDCP, è succeduto a Giuseppe Di Gennaro, che era a capo dell'UNFDAC.
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(11) Cfr. Marcello D'Angelo, "Droga e riciclaggio ormai straripano sull'intero pianeta", Il Giorno, 13 aprile 1992; Ernesto Ugo Savona, "Nasce un nuovo organismo delle Nazioni Unite", Cooperazione, gennaio 1991.
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3. I principali paesi produttori
Sebbene siano molte le sostanze psicoattive rese illegali, l'attenzione internazionale si concentra quasi esclusivamente sui derivati di oppio, coca e cannabis. Ciò è dovuto principalmente al fatto che le poche fonti di informazione sistematica disponibili sulla produzione e sul commercio - tutte di origine statunitense - si limitano appunto alle tre sostanze citate.
Va segnalato, comunque, che sia in Europa che negli Stati Uniti si sta assistendo a una rapida crescita nel consumo di una sostanza sintetica, la methylene dioxymethamphetamine (MDMA), meglio conosciuta come Ecstasy e venduta in pastiglie. In Gran Bretagna i consumatori di Ecstasy sarebbero, ad esempio, già il doppio dei consumatori di cocaina. Il prezzo al dettaglio di una dose di questa sostanza - tra le 30 e le 80 mila lire, contro le circa 200 mila di un grammo di cocaina - sembra tale da garantire un ampio margine di profitto, anche se non si conoscono con certezza i costi di produzione. I principali produttori dell'Ecstasy smerciato in Europa si troverebbero in Olanda (75-80%) e in Polonia (12).
La tabella 1 riassume le stime del governo degli Stati Uniti sui maggiori produttori mondiali di oppio, foglia di coca, marijuana e hascisc. Va subito notato che la produzione annuale di marijuana degli Stati Uniti, pur non comparendo qui, è stimata attorno a un terzo del totale mondiale (13). Inoltre, nell'uso di questi dati vanno tenute ben presenti alcune avvertenze: chi li ha elaborati si dichiara ragionevolmente certo solo della superficie coltivata; lo è assi meno invece per quanto riguarda il potenziale produttivo delle rispettive colture, i risultati dei raccolti (che possono variare a secondo del tempo atmosferico e delle tecniche impiegate) e i processi di raffinazione. Riassumendo, i dati "rappresentano una stima della produzione potenziale, la cui quantità il governo degli Stati Uniti ritiene potrebbe essere stata prodotta se, e solo se, tutto il raccolto disponibile fosse stato convertito in droghe finite con un'efficienza produttiva ordinaria. Poiché le perdite non sono calcolate, la produ
zione reale non può essere misurata precisamente; potrebbe essere maggiore o minore di queste stime" (14). A titolo di esempio, il Bureau of International Narcotics Matters calcola che se nel 1990 Colombia, Bolivia e Perù avessero trasformato in cocaina tutte le foglie di coca (dedotti i sequestri e il consumo locale), sarebbero state disponibili per l'esportazione tra le 700 e le 890 tonnellate di questa droga (15).
Detto questo, è però vero che le stime permettono di farsi un'idea abbastanza certa quantomeno rispetto alla tendenza produttiva che, ad eccezione dell'hascisc, sembra essere decisamente in aumento. In particolare la disponibilità di oppio sarebbe aumentata, tra il 1987 e il 1990, di più del 50%, grazie soprattutto all'incremento nella produzione in Birmania, quasi triplicata nello stesso arco di tempo.
Come si può vedere, vengono citati complessivamente 16 paesi. Fatta eccezione per il Libano e il Marocco - che però si limita a produrre poco più dell'8% di hascisc - dal punto di vista geografico emergono abbastanza chiaramente tre grosse aree produttive: il Sud-Est asiatico (Birmania, Laos e Thailandia), in un'area conosciuta altrimenti come il Triangolo d'oro; l'Asia Sud-Occidentale (Afghanistan, Iran, Pakistan), in un'area che va anche sotto il nome di mezzaluna d'oro (Golden Crescent); l'America Latina.
Dal punto di vista delle coltivazioni, risulta abbastanza chiaramente come l'oppio sia concentrato in Asia e la coca in America Latina. La cannabis viene prodotta e lavorata in America Latina, in Asia Sud-Occidentale e in Medioriente. Eccezioni a questo modello sono il Libano e il Messico, che insieme producono quasi il 3% dell'oppio.
Altra eccezione, recentissima, è la Colombia: secondo la Drug Enforcement Administration (DEA) americana, le organizzazioni colombiane dedite alla lavorazione della coca e al traffico di cocaina erano, nel gennaio del 1992, in uno stadio avanzato della diversificazione delle proprie attività, con la produzione di oppio e la sua raffinazione in eroina (16). Dopo cinque mesi, in giugno, Melvin Levitsky, responsabile per i problemi della droga al Dipartimento di Stato statunitense, testimoniava in Congresso che la Colombia era diventata il terzo produttore mondiale di oppio, con circa 20.000 ettari coltivati, contro i 29.000 del Laos e i 161.000 della Birmania (17). L'inclusione rapida nell'economia della droga delle zone andine del sud del paese ora coltivate a oppio, ha innescato il solito circolo vizioso di violenza e corruzione, anche se ha drasticamente aumentato il reddito dei contadini interessati (18).
Più incerte, anche se di intensità crescente, le notizie riguardanti l'aumento delle colture di papavero nelle repubbliche asiatiche già sovietiche. Più in generale, tutto il mondo ex comunista si suppone essere rapidamente diventato una nuova terra di conquista per i narcotrafficanti, che lo utilizzerebbero per il transito delle droghe e per il riciclaggio dei capitali (19).
In ogni caso, i paesi presi in considerazione in questo lavoro sono: Afghanistan, Birmania, Bolivia, Colombia, Iran, Laos, Libano, Pakistan, Perù e Thailandia.
Per quanto riguarda gli altri (Belize, Equador, Guatemala, Giamaica, Marocco e Messico) valgano le osservazioni seguenti. Primo, si è scelto di privilegiare produzione e commercio di eroina e cocaina, a causa del loro più alto profilo economico. In questa logica si è data la precedenza ai maggiori produttori. Come si vede, Messico e Guatemala nel caso dell'eroina, Equador nel caso della cocaina, producono quantità molto limitate sul totale della produzione mondiale della rispettiva sostanza. Va anche notato che alcuni dei principali produttori di hascisc e marijuana sono nel contempo produttori di droghe pesanti: Colombia, Pakistan e Afghanistan. Dal canto loro, Belize e Giamaica si limitano a produrre, messi assieme, circa lo 0,5% del totale mondiale di marijuana.
Secondo, è stata considerata la posizione dei vari paesi nella catena commerciale: Thailandia, Pakistan e Colombia hanno un ruolo di primo piano nella raffinazione e nell'esportazione di eroina (le prime due) e di cocaina (la Colombia), pur non essendo i primi produttori di oppio e di foglia di coca.
Terzo, è stato tenuto conto delle dimensioni complessive delle diverse economie sulle quali insiste il fenomeno droga: così, la produzione e lo smercio di derivati della cannabis e dell'oppio hanno un peso molto maggiore in Libano (2,7 milioni d'abitanti, 3,3 miliardi di dollari di Prodotto Nazionale Lordo nel 1987) che non in Messico (84 milioni d'abitanti, 200 miliardi di dollari di PNL nel 1989).
Come si vedrà, i paesi considerati sono stati raggruppati secondo le seguenti aree geografiche: Asia Sud-Occidentale (golden crescent), Sud-Est Asiatico (golden triangle), Medioriente, America Latina. Uno spazio a sé è stato dedicato alla Birmania, primo produttore mondiale di oppio, e alle sue poco note vicende politiche ed economiche.
Prima di entrare in maggior dettaglio nella politica e nell'economia di questi dieci paesi produttori di droghe è possibile fare, con l'aiuto delle tabelle 2 e 3, alcune osservazioni di carattere molto generale. Siamo innanzitutto di fronte a situazioni di grave indigenza: tre paesi (Afghanistan, Laos e Pakistan) sono nell'ultimo quarto della classifica dell'UNDP quanto a sviluppo umano (una combinazione di reddito, educazione e speranza di vita alla nascita); quattro nel terzo quarto (Birmania, Bolivia, Iran e Libano).
Al di là delle differenze notevoli quanto a ricchezza disponibile, poi, tutti i paesi per i quali esistono dei dati al riguardo mostrano un forte indebitamento estero: come percentuale sul PNL si va da un minimo del 34 per la Thailandia, fino a un massimo del 152 per il Laos. Certo, questi dati grezzi nascondono realtà molto differenti: Colombia e Thailandia, diversamente dagli altri, servono il proprio debito con relativo agio, hanno entrambe un'economia molto dinamica e un reddito procapite abbastanza alto. Resta vero, però, che tutti hanno motivi molto impellenti per ricorrere a qualunque fonte di valuta pregiata si renda loro disponibile.
La divisione del lavoro tra paesi, d'altro canto, riflette piuttosto fedelmente le differenze economiche appena viste: Colombia e Thailandia, ambedue con un'economia in crescita rapida e fortemente orientata all'esportazione, hanno tutte le risorse necessarie a commercializzare la droga in quanto prodotto finito - rispettivamente cocaina ed eroina - incluso il fatto che un volume consistente di scambi commerciali con l'estero facilita sia l'occultamento materiale che quello finanziario. Osservazioni simili possono essere applicate al ruolo svolto dal Pakistan nella commercializzazione dell'eroina proveniente dal golden crescent - ruolo che si avvantaggia della chiusura dell'economia e della società iraniane da una parte, e dello stato rovinoso dell'economia e della società afghane dall'altra.
Per contro i maggiori produttori delle materie prime - oppio e foglia di coca - si trovano a fronteggiare situazioni sociali, economiche e politiche che non è esagerato definire disperate. L'economia peruviana ha in pratica ristagnato nell'ultimo decennio, mentre quella boliviana si è addirittura contratta. Il Libano e l'Afghanistan sono stati sconvolti da interminabili guerre civili, i cui effetti economici e sociali sono facilmente intuibili, pur in assenza di dati. Birmania e Perù, primi produttori di oppio e foglia di coca rispettivamente, hanno zone consistenti del proprio territorio nazionale controllate da movimenti insurrezionali armati di natura politica e/o etnica. E' in tali zone che hanno luogo la produzione e la prima raffinazione delle droghe, attività che costituiscono il principale sostegno economico e politico di questi movimenti insurrezionali.
Infine in tutti questi dieci paesi la democrazia o non esiste o è fortemente minacciata. Non esiste in Afghanistan e in Libano, così come nella repubblica popolare del Laos e in quella islamica dell'Iran; è stata sospesa dai militari o col loro appoggio in Birmania (1990), Thailandia (1991) e Perù (1992); appare molto fragile in Bolivia, Colombia e Pakistan. E non è, ovviamente, solo un problema di forma di governo: nessuno di questi paesi può vantare un grado accettabile di rispetto dei diritti umani al proprio interno, con forme di abuso che variano dalla mancanza di garanzie processuali alla tortura.
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(12) Cfr. Alison Jamieson, "Il Traffico di droga dopo il 1992", relazione presentata al convegno "Droga, il nuovo Impero del Male - Una guerra globale e planetaria", Roma 12 maggio 1992; Amelia Castilla, "Ir de `éxtasis'", El Pais, 23 febbraio 1992.
(13) Cfr. Iban de Rementeria, "Production: panorama mondial des cultures de drogue", in Guy Delbrel (a cura di), op. cit. De Rementeira è un ex direttore dell'UNFDAC. Secondo Ethan A. Nadelmann "attualmente gli Stati Uniti sono il primo produttore di marijuana al mondo"; cfr. "Légalisation: la fin du narco-trafic?", cit. Queste valutazioni non tengono conto del crescente ricorso alla coltivazione in serra, segnalato anche in INCB 1991 Report, p. 36.
(14) United States Department of State, Bureau of International Narcotics Matters, International Narcotics Control Strategy Report, Washington, marzo 1991, p. 9 (enfasi nell'originale).
(15) Ibidem, p. 10, dove viene menzionato anche un miglioramento dell'efficienza delle tecniche di raffinazione negli ultimi due anni.
(16) Cfr. Joseph B. Treaster, "Colombia Drug Lords Branching Out Into Heroin", International Herald Tribune [d'ora in avanti IHT], 15 gennaio 1992. Della coltivazione di oppio in Colombia si parla almeno dalla metà degli anni ottanta. Cfr. Bruce M. Bagley, "Colombia and the War on Drugs", Foreign Affairs, autunno 1988.
(17) Cfr. Norma Romano-Brenner, "Heroin Growth Concerns Bush Administration", United States Information Agency (USIA) Wireless File, 6 giugno 1992.
(18) Cfr. Jorge Gomez Lizarazo, "Colombia Drug War: Too Many Innocents Are Dying", IHT, 31 gennaio 1992; "A Pact With the Devil", Newsweek, 10 febbraio 1992.
(19) Cfr. ad esempio Mino Vignolo, "A Est regna l'oppio dei popoli", Il Corriere della Sera, 6 settembre 1992.
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3.1 La Birmania
La storia politica contemporanea della Birmania, una ex colonia britannica, può essere divisa grosso modo in due periodi: un primo periodo, durato circa dieci anni a partire dall'indipendenza nel 1948, di democrazia parlamentare e socialismo democratico del governo U Nu; un secondo periodo, dal 1962 al 1988, di "via birmana al socialismo" del governo del generale Ne Win. Questo secondo periodo può essere meglio definito come una dittatura militare ispirata in politica interna ai modelli cinese e sovietico, ma rigorosamente neutrale in politica estera. La nazionalizzazione dell'economia, la chiusura agli scambi con l'estero e la repressione del dissenso imposti dal regime di Ne Win si sono progressivamente tradotti in una sostanziale stagnazione dell'economia e della società birmane, culminata nell'ottenimento dello status ufficiale di paese meno sviluppato (least developed country) da parte delle Nazioni Unite nel 1987.
D'altra parte, le regioni ai confini orientali e nord-occidentali del paese sono sempre rimaste al di fuori del controllo dell'amministrazione centrale. Si tratta di territori effettivamente governati o da minoranze etniche (gli Shan, i Kachin e i Karen sono le tre principali), o dalle formazioni armate del Partito Comunista Burmese, o da "signori della guerra" eredi delle unità militari nazionaliste cinesi cacciate oltre confine nel 1949, oppure infine da alleanze transitorie tra vari di questi gruppi (20).
Questo doppio regime amministrativo ha finito per tradursi in un doppio regime economico. Da una parte l'economia ufficiale pianificata dalla capitale, Rangoon, basata su imprese pubbliche inefficienti, protette con l'isolamento del paese dalla concorrrenza internazionale. (Il non allineamento del regime di Ne Win con i suoi ispiratori ideologici cinesi e sovietici fruttava al paese negli anni ottanta una media annuale di circa 400 milioni di dollari di assistenza estera, sotto gli auspici della Banca Mondiale.)
Dall'altra, un'economia non-ufficiale, basata sul contrabbando (importazione di beni di consumo dalla Cina e dalla Thailandia, esportazione di gemme, legname, oppio ed eroina), e amministrata dalle minoranze etniche, dai vari gruppi ribelli e dai "signori della guerra". Ad esempio, i Karen, una minoranza largamente estranea al traffico di droga ma sul cui territorio passa buona parte del contrabbando con la Thailandia, sostenevano di ricavare alla metà degli anni ottanta circa 65 milioni di dollari l'anno da una tassa del 5% sul valore delle merci in transito - un valore, dunque, di circa 1.250 milioni di dollari, pari al 20% del PNL birmano dell'epoca (21).
Agli inizi del 1988, tuttavia, il regime birmano appariva in piena bancarotta economica e politica. Sul piano economico, "le riserve in valuta estera ammontavano a meri 12 milioni di dollari; un debito estero di 5 miliardi di dollari equivaleva a quasi il 70% del PNL" (22). Sul piano politico, a partire da marzo una serie di manifestazioni di protesta a Rangoon veniva repressa brutalmente dal regime, causando migliaia di morti. Dopo le dimissioni di Ne Win in luglio e il tentativo, durato 17 giorni, di affidare il governo a un civile, il capo di stato maggiore delle forze armate, gen. Saw Maung, assumeva il potere in nome di un Consiglio di Stato per la Restaurazione della Legge e dell'Ordine. Nel programma del Consiglio figuravano elezioni libere e democratiche - elezioni effettivamente tenutesi il 27 maggio del 1990 e vinte con larghissimo margine (392 seggi su 485 all'assemblea nazionale) dall'opposizione democratica, capeggiata da una donna, Aung San Suu Kyi. Subito dopo il risultato del voto, comun
que, il Consiglio di Stato annunciava che il trasferimento del potere agli eletti avrebbe preso da due a tre anni. Risultato: Suu Kyi, cui è stato attribuito il Nobel per la pace del 1991, è agli arresti domiciliari dal 20 luglio del 1989; l'opposizione è stata colpita da arresti in massa, tra cui quelli di 60 parlamentari eletti, e ha ora la sua dirigenza ospitata nel territorio sotto controllo Karen; il Consiglio di Stato è ancora al governo del paese.
Con i ribelli armati la giunta ha invece cercato immediatamente l'accordo, allo scopo di limitare ai Karen l'alleanza con l'opposizione democratica. Il compito è stato facilitato da divisioni interne agli insorti: il Partito Comunista Birmano, ad esempio, si è frantumato in una serie di piccole formazioni armate indipendenti, senza più alcun obiettivo politico. Sia coi comunisti che col grosso delle armate Shan e Kachin, la giunta ha fatto leva su vaghe promesse di autonomia e, soprattutto, su una compartecipazione agli utili del contrabbando e del traffico di droga. Questa manovra le ha consentito sia di aumentare le entrate finanziarie che di concentrarsi nel rafforzamento della propria forza militare e nella repressione dell'opposizione democratica e dei Karen.
In parallelo, il regime di Rangoon ha tentato di migliorare i propri rapporti con il governo cinese e con quello thailandese, allo scopo di controllare meglio i traffici di frontiera e di ottenere, dai thailandesi, mano libera nel perseguire militarmente i ribelli Karen nei santuari oltre confine. Questo accordo tacito con i militari al potere a Bangkok è entrato recentemente in crisi, quando gli sconfinamenti di forze birmane hanno cominciato ad essere respinti dall'esercito e dall'aviazione thailandesi (23). Non è da escludere che dietro questo giro di vite vi siano pressioni internazionali, soprattutto americane: l'amministrazione statunitense continua a negare a Rangoon la certificazione di paese cooperativo nella lotta alla droga (24); all'inizio di aprile del 1992 due democratici (Patrick Moynihan e Paul Simon) e un repubblicano (Jesse Helms) hanno presentato al Senato statunitense una risoluzione che chiede un embargo internazionale di armi contro la Birmania e la cessazione dei rapporti commerci
ali col proprio paese (25); l'Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico (Brunei, Filippine, Indonesia, Malesia, Singapore e Thailandia) ha cominciato a considerare l'uso di sanzioni contro il governo birmano, mentre un inviato delle Nazioni Unite si è recato a Rangoon su richiesta del Bangladesh, investito quest'ultimo da un ondata di 210.000 musulmani cacciati dalla Birmania (26).
Tutte queste pressioni sembrano aver sortito qualche effetto: Saw Maung s'è dimesso ed è stato rimpiazzato dal suo vice, il generale Than Shwe; ad Aung San Suu Kyi, sempre agli arresti domiciliari, è stata consentita una visita del marito per la prima volta dal dicembre del 1989; sono stati rilasciati un certo numero di prigionieri politici (27).
Nei primi tre anni in cui la giunta militare di Rangoon ha avuto mano libera, comunque, le riserve in valuta estera sono risalite a circa 900 milioni di dollari, secondo una stima non ufficiale (28). Sembra abbastanza lecito vedere dietro questa ripresa non solo i proventi delle concessioni ufficiali per lo sfruttamento del legname e della pesca, e per le prospezioni petrolifere (29), ma anche le entrate connesse agli accordi con l'economia non-ufficiale basata sul contrabbando e sul traffico di droga. Tutto ciò sarebbe forse bastato, almeno nel breve periodo, a compensare l'interruzione dell'assistenza economica dall'estero. Senonché, gran parte di queste risorse sono state impiegate nel potenziamento delle forze armate, passate da 180 a 280 mila effettivi negli ultimi tre anni e modernizzate con un ordine alla Cina di nuovi armamenti valutato in più di un miliardo di dollari, 400 milioni dei quali pagati in contanti (30).
Valutare il peso del traffico di droga nell'odierna economia birmana è difficile, ma alcune considerazioni possono essere fatte. Che esso abbia avuto un ruolo non indifferente nella veloce risalita delle riserve in valuta, ad esempio, sembra accertato. D'altronde, i dati del Dipartimento di Stato americano (cfr. tabella 1) mostrano che la produzione di oppio in Birmania è triplicata in due anni, passando dalle circa 800 tonnellate del 1987 alle 2.400 del 1989. Questo aumento, facilitato anche da stagioni particolarmente favorevoli, non può che essere dovuto all'estensione delle colture e agli accordi con cui la giunta di Rangoon ha lasciato mano libera ai produttori-trafficanti. L'incremento delle produzione si è puntualmente riflesso nell'incremento dell'offerta. Così, nel 1991 negli Stati Uniti "l'abuso e il traffico di eroina hanno mostrato segni d'incremento, a causa dell'aumento dell'offerta e della purezza e della diminuzione del prezzo, conseguenza dei più alti livelli di produzione nel Sud-Est a
siatico" (31); dello stesso avviso è l'amministrazione americana, secondo cui "indicatori chiave mostrano quantità crescenti di eroina in arrivo negli Stati Uniti...i sequestri sono aumentati, la purezza anche, e il prezzo al minuto continua a scendere" (32). Secondo un'altra fonte, "nel 1984 l'eroina del Sud-Est asiatico costituiva il 24% del mercato di New York, per salire al 35% nel 1985, al 70% nel 1988 all'80% circa di oggi [marzo 1991]" (33).
In parallelo all'aumento è avvenuta una diversificazione della produzione e delle rotte commerciali. Fino a pochi anni fa, praticamente tutti i laboratori di raffinazione dell'oppio in eroina si trovavano al confine meridionale birmano con la Thailandia. L'eroina passava poi dalla Thailandia agli Stati Uniti e all'Europa, spesso via Hong Kong. Più recentemente tali laboratori hanno proliferato a decine nella regione del Kokang, al nord del paese, al confine con la provincia cinese dello Yunnan. Tanto che il 30% della produzione di eroina del triangolo d'oro per l'esportazione in America e in Europa si stima passi ora attraverso la Cina, evitando sempre di più il porto intermedio di Hong Kong (34).
Quantificare in modo ragionevolmente attendibile il fatturato dell'industria birmana dell'oppio è invece quasi impossibile. Occorrerebbe infatti sapere: a) se realmente le colture locali del papavero generano le 2.200-2.400 tonnellate di oppio citate dal Dipartimento di Stato americano, una conclusione verso la quale questa stessa fonte prende ampiamente le distanze; b) quanta parte dell'oppio prodotto viene consumata localmente e quanta viene destinata all'esportazione; c) quanta parte dell'oppio prodotto viene raffinato in eroina localmente e quanta altrove, soprattutto in Thailandia; d) i costi del processo di raffinazione; e) il prezzo di vendita dell'oppio e dell'eroina in uscita dalla Birmania. Quanto a quest'ultimo punto va considerato che: i) sicuramente non esiste un unico prezzo, ma diversi prezzi a secondo delle zone e dei rapporti tra produttori e commercianti; ii) non c'è modo di sapere fino a che punto della catena commerciale si spinga il controllo degli operatori birmani: si può ipotizza
re arrivi molto avanti nel caso della rotta cinese, meno nel caso della rotta thailandese, ma esistono infinite possibilità, comprese joint-ventures tra operatori di diverse nazionalità, con tutte le combinazioni possibili quanto alle quote di partecipazione agli utili. Stabilito tutto ciò, bisognerebbe infine conoscere quanta parte dei capitali generati da questa industria rientra nel paese o non viene piuttosto investita altrove - se quello che interessa, almeno, è il suo peso nel complesso dell'economia birmana. A questo proposito si può soltanto ricordare il dualismo di tale economia, nel senso che l'economia ufficiale incoraggia senz'altro la fuga di capitali, mentre quella non ufficiale offre buone opportunità di impiego nell'adiacente settore del contrabbando di beni di consumo.
Fatta questa premessa, si riportano qui a titolo puramente indicativo i risultati cui si arriva combinando le ipotesi fatte da diverse fonti. Così Bertil Lintner della Far Eastern Economic Review indica in circa 1.500 dollari il prezzo di vendita al chilo dell'eroina n.4 (la più pregiata) nella regione del Kokang, prezzo che aumenta di cinque volte appena passato il confine con la Cina (35). Tenendo conto di quelle che sono state appena chiamate joint-ventures, si può fare una media grezza di 4.000-5.000 dollari al chilo. Secondo un esperto francese, Alaine Labrousse, 4.000 dollari (23.000-27.000 franchi francesi) al chilo è anche il prezzo di vendita dell'eroina al confine thailandese (36). Ancora Lintner, stima che sulle più di 2.000 tonnellate di oppio prodotto in Birmania nel 1991, "1.300 fossero disponibili per la conversione e l'esportazione, dando luogo a circa 90-100 tonnellate di eroina n.4" (37). Cento tonnellate a 4.000 dollari al chilo fanno 400 milioni di dollari, una cifra dello stesso ord
ine di grandezza dell'assistenza economica estera che arrivava in Birmania prima del 1989.
A costo di rischiare la pedanteria, occorre ripetere che nella realtà il giro d'affari potrebbe essere così la metà come il doppio. Ad esempio se a quella sorta di procedimento induttivo se ne sostituisce uno deduttivo, si può osservare che le stime degli introiti del Perù (due terzi della produzione mondiale di foglia di coca, così come la Birmania nel caso dell'oppio) partono da un minimo di 750-800 milioni di dollari l'anno. Per concluderne, in modo forse non del tutto implausibile, che i ricavi birmani siano analoghi.
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(20) E' proprio la presenza di una moltitudine di minoranze etniche che rende, a giudizio di un autore di origine birmana, politicamente inaccettabile il nuovo nome di Myanmar - la denominazione dell'etnia maggioritaria nella lingua locale - dato al paese nel settembre del 1989. Cfr. Mya Maung, "The Burma Road From the Union of Burma to Myanmar", Asian Survey, giugno 1990.
(21) Cfr. David I. Steinberg, "International Rivalries in Burma", Asian Survey, giugno 1990.
(22) Jonathan Friedland e Bertil Lintner, "A policy of pillage", FEER, 8 agosto 1991.
(23) Cfr. "Thailand Ready to Retaliate", IHT, 17 marzo 1992; "A new wolf in South-East Asia", The Economist, 21 marzo 1992.
(24) Senza tale certificazione, un paese non può avere accesso a quasi tutti i tipi di aiuto economico americano. Nel 1992 essa è stata negata, oltre che alla Birmania, anche ad Afghanistan, Iran e Siria. E' stata concessa invece a tutti gli altri produttori di droghe. Anche al Libano, malgrado non abbia affatto cooperato con Washington, sulla base dell'"interesse vitale della nazione" americana. Cfr. Louise Fenner, "Coca Cultivation Down, Opium Poppy Up, Report Says", United States Information Agency - Wireless File, 3 febbraio 1992.
(25) Cfr. "Senators Press For Action on Burmese Junta", IHT, 7 aprile 1992.
(26) Cfr. Michael Richardson, "ASEAN Weighs Moves Against Abuses in Burma", IHT, 31 marzo 1992.
(27) Cfr. "Confused signals from Burma", The Independent, 4 maggio 1992.
(28) Cfr. "A policy of pillage", cit.
(29) Su quest'ultimo punto cfr. Jonathan Friedland e Bertil Lintner, "Licensed to drill", FEER, 8 agosto 1991.
(30) Cfr. Bertil Lintner, "Army of occupation" e "Hidden reserves", FEER, 23 maggio 1991 e 6 giugno 1991.
(31) INCB 1991 Report, p. 35.
(32) National Drug Control Strategy, cit.
(33) Bertil Lintner, "Triangular Ties", FEER, 28 marzo 1991.
(34) Ibidem.
(35) Ibidem.
(36) Cfr. Alaine Labrousse, La drogue, l'argent et les armes, Fayard, Parigi, 1991, p. 237.
(37) "Triangular ties", cit.
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3.2 Il Sud-Est Asiatico
Come ripetuto più volte, il paese del Triangolo d'Oro dove si concentrano le attività di raffinazione e commercializzazione dell'oppio è tradizionalmente la Thailandia. Secondo le stime fatte dal Thailand Development Research Institute, i profitti risultanti dal commercio di droghe che originano o transitano in Thailandia, comprese le anfetamine e la marijuana, ammontano a 3,9 miliardi di dollari l'anno, pari al 17% del valore di tutte le esportazioni thailandesi del 1989 (38).
Negli ultimi due-tre anni, Bangkok sembra essersi imbarcata in un giro di vite contro le attività legate alla droga: i programmi di sradicazione del papavero hanno effettivamente portato a una riduzione dell'oppio prodotto in loco, mentre le operazioni di polizia hanno provocato lo spostamento di un gran numero di raffinerie oltre i confini con il Laos e con la Birmania. Nel 1991, è stata varata una legge che mira a reprimere il commercio: essa fa del traffico di droga un reato di cospirazione, prevede la confisca di beni e valuta, nonché pene severe contro la corruzione di funzionari privati e pubblici.
E' troppo presto, naturalmente, per giudicare gli effetti di queste nuove misure. I dubbi sulla loro reale efficacia, tuttavia, sono giustificati dal fatto che si tratta di un paese dove la classe dirigente e l'esercito sembrano essere pesantemente implicati nel narcotraffico. All'inizio di aprile del 1992, Narong Wongwan, candidato alla carica di primo ministro della coalizione pro-militare uscita vincente dalle elezioni del 22 marzo, era costretto a farsi da parte dopo che il Dipartimento di Stato statunitense aveva rivelato di avergli negato un visto l'anno precedente per il suo coinvolgimento nel traffico di droga (39). Al suo posto diventava primo ministro il generale e capo delle forze armate Suchinda Kraprayoon, anche lui costretto alle dimissioni il 24 maggio dopo manifestazioni popolari a stento represse dall'esercito con centinaia di vittime. Il parlamento thailandese ha poi varato delle riforme costituzionali volte ad allontanare i militari dalla politica (40). Nuove elezioni, tenutesi in set
tembre, hanno dato la maggioranza all'opposizione democratica, ma resta da vedere quale sarà l'effetto di tutti questi rivolgimenti politici sui traffici di droga.
Ufficialmente, anche il Laos sembra impegnato in una campagna di sradicazione delle colture di papavero - campagna che, pur non avendo avuto finora grandi effetti sulla produzione complessiva di oppio, è servita ad ottenere qualche finanziamento dall'UNDCP e dagli Stati Uniti (progetto Hovaphon) per la conversione delle colture (41). Il Laos è un paese poverissimo, i cui modesti introiti per i diritti di sorvolo lungo la rotta Bangkok-Hong Kong rappresentano una delle principali voci attive della bilancia dei pagamenti ufficiale. Il governo, non riuscendo a pagare gli stipendi all'esercito, ha concesso ai comandanti regionali di autofinanziarsi col commercio del legname (42). Non ci sarebbe da stupirsi se, come accade in Birmania, al legname fosse stata affiancata l'eroina.
In generale, sembrano moltiplicarsi i contatti bilaterali e multilaterali tra i governi della regione - inclusa sempre più spesso la Cina - allo scopo dichiarato di coordinare le rispettive strategie anti-droga (43). Inutile aggiungere che esistono fondati motivi per dubitare della sincerità di questi sforzi, in particolare nel caso della giunta birmana.
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(38) Cfr. Rodney Tasker, "Blocking the drug flow", FEER, 24 ottobre 1991.
(39) Cfr. "Thai Denies Trafficking in Drugs, as U.S. Asserts", IHT, 28-29 marzo 1992; "La majorité parlamentaire a proposé le général Suchinda Krapayoon pour le poste de premier ministre", Le Monde, 7 aprile 1992.
(40) Cfr. Philip Shenon, "Thais Move to Curb the Army", IHT, 26 maggio 1992.
(41) INCB 1991 Report, pp.23-4; United States Department of State, Bureau of International Narcotics Matters, International Narcotics Control Strategy Report - Midyear Update, Washington, settembre 1991.
(42) Cfr. "A dam shame", The Economist, 11 aprile 1992.
(43) Cfr. Victor Mallet, "Golden triangle states agree on drugs fight", Financial Times, 16 marzo 1992.
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3.3 L'Asia Sud-Occidentale
La coltivazione dell'oppio è stata in Afghanistan uno dei principali mezzi di finanziamento degli almeno otto gruppi islamici di resistenza contro l'invasione sovietica del 1979 e i governi afghani sostenuti da Mosca. La fine formale della guerra civile, con la caduta del governo Najibullah nella primavera del 1992, lungi dal ridurre le coltivazioni di papavero, le sta invece intensificando: si tratta ora non solo di reperire le risorse economiche per la ricostruzione, ma anche di finanziare la lotta armata per il potere tra le fazioni vincitrici - fazioni che non possono più contare sugli aiuti americani, interrottisi il 31 dicembre del 1991 (44). Quanto alla ricostruzione, si consideri che tredici anni di guerra civile hanno causato quasi un milione di morti, più di 500.000 veterani invalidi, la distruzione di un terzo dei villaggi, quasi sei milioni di rifugiati (in Pakistan, in Iran e in Occidente) su una popolazione di circa 17 milioni.
Diverse fonti, d'altronde, indicano che questo paese sta in realtà producendo quantità di oppio molto maggiori di quanto segnalato dal Dipartimento di Stato americano: 800 tonnellate nel 1990 e addirittura 3.000 nel 1992 - quest'ultima cifra farebbe dell'Afghanistan il primo produttore mondiale della sostanza (45). Le principali zone di coltivazione - le province di Badakshan, Nangarhar, Kandahar e Helmand - sono tutte al confine col Pakistan, dove si trovano pure le numerose raffinerie per la conversione dell'oppio in eroina. Questa viene poi esportata in Occidente attraverso il Pakistan e l'Iran. L'UNDCP ha una missione permanente a Kabul: nel 1990 ha realizzato due progetti di sostituzione di colture nel Nangarhar e un'indagine preliminare nel Badakhsan (46).
In Pakistan, l'oppio viene coltivato e raffinato principalmente a Nord-Ovest del paese, proprio al confine con l'Afghanistan, in zone tribali che godono di larga autonomia politica e dove non tutte le leggi nazionali trovano applicazione. "I tentativi fatti per persuadere i leader tribali a eliminare la produzione d'oppio hanno avuto un successo limitato" (47). Come quelle thailandesi, le autorità pakistane hanno un atteggiamento spesso duplice verso il narcotraffico: da una parte, almeno a leggere il rapporto annuale dell'International Narcotics Control Board, sembrano collaborare con i programmi di sradicazione e conversione delle Nazioni Unite; dall'altra si guardano bene dal disturbare troppo i trafficanti e fanno il possibile per trattenere in patria i capitali generati da questo commercio. Nel marzo del 1992 la banca centrale pakistana aveva lanciato la vendita di certificati quinquennali denominati in dollari, sterline, marchi e yen, a tassi d'interesse molto più alti di quelli offerti dai paesi
d'emissione di queste valute, e richiamando l'attenzione, nella pubblicità sulla stampa internazionale, sul fatto che non sarebbe stata richiesta nessuna informazione sulla provenienza dei fondi e sull'identità dei compratori: l'operazione abortiva rapidamente a seguito del blocco delle vendite sul mercato statunitense deciso dalla Federal Reserve, esplicitamente preoccupata di un possibile uso dei certificati pakistani per il riciclaggio dei cosiddetti narcodollari (48).
Analogamente al ruolo svolto dalla Thailandia nel Sud-Est Asiatico, è in Pakistan che avviene gran parte della raffinazione e della prima commercializzazione dell'eroina prodotta in Asia Sud-Occidentale. Se sono attendibili le notizie circa il drammatico aumento della produzione di oppio in Afghanistan, il giro d'affari dei trafficanti pakistani sarebbe comparabile a quello stimato per i loro omologhi thailandesi: qualche miliardo di dollari. Tuttavia il Pakistan, col doppio degli abitanti, ha un'economia pari a circa la metà di quella della Thailandia.
L'Iran, oltre a produrre centinaia di tonnellate d'oppio all'anno per proprio conto, è un punto di transito tradizionale per l'eroina della regione, che prosegue per la Turchia e i Balcani, diretta in Europa. Le informazioni su quanto avviene all'interno del paese sono estremamente scarse: in generale si ritiene che le autorità intervengano con mano pesante, facendo ampio ricorso alle esecuzioni sommarie, contro consumatori e trafficanti di droga. La vigilanza alla frontiera con l'Afghanistan è stata recentemente rinforzata, mentre un accordo di cooperazione anti-droga del 1989 col governo pakistano ha permesso una serie di operazioni congiunte su entrambi i versanti del confine (49). Malgrado ciò, Washington continua a negare a Theran la certificazione di paese cooperante nella lotta contro la droga - un altro esempio di come il giudizio statunitense in materia abbia ben poco a che vedere col merito del problema.
Viene da chiedersi come possano sopravvivere produttori e trafficanti in Iran, vista la pervasività del controllo sociale in un regime noto per la sua ideologia militante - ideologia che include una profonda avversione per le droghe. Una possibile spiegazione è che questo commercio venga tollerato proprio in quanto diretto a minare la cosiddetta saldezza morale delle società occidentali. Un'altra è l'esistenza di un ambiente propizio: una seconda economia amministrata da grossi commercianti e funzionari governativi che profittano, tra l'altro, della differenza tra il cambio ufficiale e quello del settore privato - un dollaro costa nel secondo caso venti volte di più. Può infine avere il suo peso, la necessità di attirare capitali: solo 7 miliardi di dollari, dei 27 previsti dal piano quinquennale del 1989, erano effettivamente arrivati in Iran nella primavera del 1992 (50).
La vittoria, nelle elezioni legislative dell'aprile del 1992, dei seguaci del presidente Hashemi Rafsanjani, considerato una figura moderata, ha riproposto il problema di una normalizzazione nei rapporti con l'Occidente, e in particolare con gli Stati Uniti. Nella lista delle condizioni americane, tuttavia, non pare che la lotta al traffico di droga sia considerata una priorità, quanto almeno la proliferazione nucleare, la lotta al terrorismo, i diritti umani e il sostegno iraniano al fondamentalismo islamico (51).
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(44) Cfr. Jawed Naqvi, "Drugs are central to control of city", The Times, 16 aprile 1992.
(45) Cfr. Edward W. Desmond, "Where the Poppies Bloom - and Boom", Time, 16 luglio 1990; Tim McGirk, "Hope that is built on heroin", The Independent, 6 giugno 1992.
(46) Cfr. INCB 1991 Report, p. 27.
(47) Ibidem, p. 28.
(48) Cfr. "Pakistan Halts Sale of Bonds", IHT, 23 marzo 1992. Anche i buoni del tesoro e i certificati di credito italiani sono al portatore e a tassi molto vantaggiosi: l'unica differenza è che sono denominati in lire.
(49) Cfr. INCB 1991 Report, pp.27-8.
(50) Cfr. Elaine Sciolino, "Iran's Investment Pitch: For Most, It's Too Wild", IHT, 2-3 maggio 1992.
(51) Cfr. Elaine Sciolino, "U.S. Weighs Reward for Iran but Can't Decide What or When", IHT, 8 giugno 1992.
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3.4 Il Medioriente
Trascurando, per le ragioni ricordate in precedenza, il Marocco, il Libano è il solo paese della regione a svolgere un ruolo importante nel narcotraffico. In questo piccolo paese, la droga viene lavorata a ciclo completo: dalla coltivazione della cannabis e dell'oppio, alla raffinazione di hascisc, eroina e cocaina, all'esportazione soprattutto in Europa, ma anche negli Stati Uniti, di queste sostanze.
Come in Afghanistan, anche in Libano il traffico di stupefacenti è servito a finanziare praticamente tutte le fazioni in lotta in una guerra civile ventennale: e ciò a dispetto del fatto che la principale zona di coltivazione, la valle della Bekaa, sia da lungo tempo controllata dai siriani - che d'altronde controllano ormai il paese intero tramite un accordo di cooperazione con il governo libanese (52). Provare a farsi un'idea dell'intreccio di interessi tra droga e fazioni in Libano serve solo a procurarsi un'emicrania. Anche quando a scriverne è un giornale noto per la sua chiarezza d'esposizione, come l'Economist, che appunto così concludeva un suo articolo sull'argomento di qualche anno fa: "Tutto ciò assomiglia al modello di caos finanziato dalla droga, in qualche caso sponsorizzato da agenzie americane, che fu inaugurato nel Sud-Est Asiatico negli anni cinquanta, si sviluppò in America Centrale negli anni settanta, e ora minaccia la Colombia" (53).
Così, comunque, viene descritta la situazione libanese nell'ultimo rapporto annuale delle Nazioni Unite: "Il traffico di resina di cannabis [cioè hascisc] e di oppiati dal Libano all'Europa e al Nord America, così come verso altri paesi della regione, rimane significativo. E' stato rilevato traffico di cocaina in transito, con origine principale in Brasile. Nel corso del 1990, più di 250 kg. di eroina sono stati confiscati in Europa a più di 100 cittadini libanesi. Nei primi tre mesi del 1991, circa 150 tonnellate di resina di cannabis sono state confiscate in Libano, segno di una vasta produzione nel paese. La cannabis viene coltivata su più di 16.000 ettari, soprattutto nella valle della Bekaa. La coltivazione del papavero interessa circa 1.500 ettari. Laboratori d'eroina operano nel paese, facendo uso sia di oppio prodotto all'interno, sia in Medio e Vicino Oriente. Nel marzo del 1991, cocaina e agenti chimici usati per la conversione della pasta di coca in cocaina sono stati confiscati, segno della
presenza di laboratori di cocaina" (54).
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(52) Secondo l'UNDCP i siriani, accedendo a una esplicita richiesta dell'amministrazione americana formulata ai tempi della guerra del Golfo, avrebbero distrutto le coltivazioni di papavero e cannabis nella valle della Bekaa. Cfr. Ian Hamilton Fazey, "Syria destroys Lebanese drug crop", Financial Times, 8 luglio 1992.
(53) "Under the influence", The Economist, 30 settembre 1989. Un altro encomiabile tentativo di rendere ragione del ruolo del narcotraffico nella situazione libanese si può trovare in Labrousse, op. cit., pp. 122-54.
(54) INCB 1991 Report, p. 28.
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3.5 L'America Latina
Come già accennato, quanto a droghe in questa regione viene ormai coltivato di tutto: cannabis, papavero e coca. Ma è l'industria della coca a rimanere di gran lunga la più importante, per il numero di persone che occupa e per i profitti che genera. Stabilizzatosi, dopo il panico del 1982, il problema del debito e scomparsa la competizione Est-Ovest, la droga sembra essere diventata la questione dominante nell'agenda dei rapporti tra gli Stati Uniti e il resto del continente: i nemici principali della guerra alla droga in cui Washington si dice impegnata sono appunto i trafficanti di cocaina latino-americani.
Secondo il Dipartimento di Stato statunitense, sono ben 21 i paesi della regione coinvolti a vario titolo - produzione, raffinazione, transito delle sostanze e dei precursori chimici, riciclaggio del denaro sporco - nel narcotraffico: Argentina, Bahamas, Belize, Bolivia, Brasile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Repubblica Dominicana, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Haiti, Honduras, Giamaica, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù e Venezuela (55). Praticamente tutto il continente.
I paesi chiave, tuttavia, sono solo tre: Bolivia, Perù e Colombia, grandi produttori di foglia di coca i primi due, principale centro di rafffinazione e commercializzazione il terzo.
Secondo le statistiche ufficiali del governo della Bolivia, nel 1988 erano piantati a coca 61.000 ettari, pari al 4,3% delle terre coltivate del paese. Tra il 1980 e il 1988, la produzione agricola boliviana è cresciuta del 24,6%, contro il 253% della produzione di foglia di coca (56). I boliviani legati direttamente all'industria della coca sarebbero circa mezzo milione, cioè il 20% circa della forza lavoro di questo paese di 7 milioni di abitanti (57). Le stime sul valore annuo risultante da questa attività variano da un minimo di 600 milioni di dollari a un massimo di 2 miliardi - pari a tre quarti delle esportazioni legali quelle più prudenti, alla metà del PNL quelle meno (58).
Che l'economia della coca abbia salvato la Bolivia dalla bancarotta sembra piuttosto assodato: il ritorno dei civili al governo nel 1982, con il presidente Siles Suazo, era praticamente coinciso con l'esplosione della crisi del debito; tra il 1980 e il 1984, il reddito procapite s'era contratto del 30%; tra il 1984 e il 1986, il valore dell'export s'era ridotto di un quarto, riflettendo rispettivamente il crollo e la caduta nel prezzo di due delle maggiori esportazioni legali, stagno e gas naturale.
A partire dal 1985 i governi dei presidenti Paz Estenssoro prima, e Paz Zamora poi si sono attenuti alle prescrizioni di un piano draconiano di stabilizzazione concordato col Fondo Monetario: ne sono risultate una crescita modesta del PNL e la riduzione dell'inflazione dal 24.000% del 1985 al 18% del 1990. Anche il debito estero è sceso: del 12% tra il 1987 e il 1990. Per far ciò c'è stato bisogno non solo della riduzione della spesa e dei sussidi pubblici - risultanti nella perdita di 80.000 posti di lavoro, evidentemente compensati dalla crescita contemporanea dell'economia della coca - ma anche dell'assorbimento nel sistema bancario nazionale dei profitti generati dal narcotraffico e giacenti sui conti delle bache caraibiche. Dal 1985 in poi è stata promulgata un'amnestia sul reato di evasione fiscale sui capitali esportati e sono state proibite le inchieste sulla provenienza della ricchezza introdotta nel paese. Inoltre la banca centrale ha un proprio sportello - soprannominato ventanilla siniestra
- dove la valuta straniera viene cambiata correntemente e senza domande imbarazzanti.
Vista questa situazione, non meraviglia che gli sforzi per sradicare le piantagioni di coca siano per lo più cosmetici, così come quelli per reprimere il traffico: nel 1990, solo l'1% della pasta di coca prodotta in Bolivia è stata intercettata. L'amministrazione statunitense, pur conoscendo la situazione economico-finanziaria del paese, insiste per un'intensificazione della lotta al narcotraffico e per un coinvolgimento dell'esercito in essa: sui quasi 190 milioni di dollari di aiuti americani alla Bolivia assegnati nel 1991, 2,2 andavano allo sviluppo di colture alternative, contro i 13,5 per la repressione del traffico e i 36 rivolti a un rafforzamento delle forze armate (cfr. tab. 4). Rafforzamento che gran parte della popolazione teme non solo per i suoi potenziali effetti sull'economia della coca, ma anche per quelli sulla democrazia stessa del paese.
Recentemente, il governo boliviano sta tentando di persuadere l'opinione pubblica internazionale che alcuni impieghi della coca andrebbero legalizzati: nel maggio di quest'anno, Paz Zamora è intevenuto all'assemblea dell'OMS, chiedendo a questa agenzia di investigare i possibili usi medici e nutritivi della sostanza. L'idea principale è quella di produrre e commercializzare una tisana alla coca, già largamente consumata in Perù: secondo il governo ciò farebbe crescere le entrate dei contadini produttori rispetto ai ricavi ora ottenuti dai trafficanti di cocaina (59). La Spagna, che pure aveva vietato la degustazione della tisana alla coca all'expo di Siviglia, sembra ora sostenere la proposta boliviana: prima la regina Sofia e poi il primo ministro Felipe Gonzales hanno consumato la bevanda mentre visitavano il paese sudamericano; Gonzales ha anche pubblicamente fatto appello all'OMS perché studi il problema (60).
La situazione economica peruviana è precipitata più tardi di quella boliviana ma, se possibile, più velocemente e con effetti ancor più drammatici. Tra il 1988 e il 1991, il prodotto del paese s'è contratto di circa il 30%. Un mese dopo la propria elezione, nell'agosto del 1990, il presidente Alberto Fujimori ha varato un programma di stabilizzazione, concordato col Fondo Monetario, i cui effetti sui prezzi nel giro di ventiquattro ore sono stati i seguenti: beni alimentari di base più 700%; benzina più 3.000%; acqua potabile più 800%; elettricità più 500%. Nel giro di un mese, i salari nel settore pubblico s'erano contratti di quasi il 60%, quelli del settore privato di circa il 40%. I consumi delle famiglie nella capitale, Lima, che nel periodo 1985-1990 s'erano ridotti del 46%, hanno perso dall'agosto del 1990 un altro 24%. Alla fine del 1991, circa un milione di persone aveva perduto il proprio lavoro a seguito del programma di austerità. Tutto ciò era almeno servito al Perù per far scendere il tass
o annuo d'inflazione al 140% (dal 7.000% dell'anno precedente), per avere di nuovo accesso al credito internazionale (col Giappone e la Banca Inter-Americana di Sviluppo) e per ristrutturare parte del proprio debito (col club di Parigi dei creditori pubblici) (61). Senonché la sospensione del Parlamento e delle garanzie costituzionali, decretata da Fujimori l'8 aprile del 1992 coll'appoggio dell'esercito, ha avuto l'effetto di congelare parte di questi nuovi crediti. Inoltre, in meno di un mese dall'autogolpe del presidente, 200 milioni di dollari erano già stati portati all'estero, secondo stime di fonte governativa. E tutto ciò, malgrado l'opinione pubblica e la comunità imprenditoriale abbiano accolto con favore la svolta autoritaria (62).
Come se non bastasse questo disastro economico, il paese deve anche fare i conti con una vera e propria guerra civile, quella tra il governo e i guerriglieri di Sendero Luminoso. Il conflitto ha causato in dodici anni più di 20.000 morti e 200.000 rifugiati interni. Già prima del colpo di mano di Fujimori, il 40% del territorio nazionale era in stato d'assedio.
L'industria della coca peruviana ha profondi effetti sia sulla situazione politica che su quella economica. La forza politico-militare di Sendero Luminoso si basa sulla sua intermediazione violenta tra i contadini produttori e i trafficanti colombiani acquirenti della pasta di coca, e sulla sua difesa dei contadini stessi dai tentativi di repressione e sradicazione delle colture fatti, sporadicamente e con poca convinzione, dalle autorità. Sicché i guerriglieri ne traggono una base politica e una fonte di reddito - quest'ultima tramite la raccolta di una sorta di imposta di protezione.
Le stime sul valore annuo della produzione di coca variano da un minimo di 1 miliardo di dollari a un massimo di 2 miliardi e 800 milioni (63). La più conservatrice equivale a due terzi del valore di tutte le altre esportazioni peruviane combinate. Circa il 15% della forza lavoro dipenderebbe da questa attività. Come quella della Bolivia, la banca centrale peruviana fa il possibile per assorbire i dollari generati dal narcotraffico, attraverso proprie agenzie nella valle dell'alto fiume Huallaga - la zona dove si concentra gran parte dell'industria della coca - e persino inviando propri dipendenti a comprare sul mercato nero valutario di Lima. Il risultato prevedibile è che parte del servizio del debito estero viene pagato con le entrate del traffico di droga.
Sebbene sarebbe palesemente suicida per il Perù impegnarsi in una lotta senza quartiere contro la coca, è proprio questo che l'amministrazione americana continua a chiedergli - almeno ufficialmente. Sui 200 milioni di dollari di aiuti americani a Lima del 1991, quasi 18 finanziano l'interdizione del traffico di droga e lo sradicamento delle piantagioni di coca, 1 milione va allo sviluppo di colture alternative e 24 sono di aiuti alle forze armate (cfr. tab. 4). I militari peruviani, che pure hanno una una storia di abusi e di pesante interferenza nella vita politica del proprio paese, sono tuttavia molto riluttanti a impegnarsi a fondo nella repressione del traffico di droga. Sono convinti, infatti, che si tratterebbe del miglior modo di aumentare il sostegno politico ai guerriglieri. Tale convinzione è certamente rafforzata dalla facilità con cui risulta essi si facciano corrompere dai narcotrafficanti.
Rispetto alla situazione della Bolivia e a quella del Perù, la Colombia si può definire un paese fortunato, soprattutto dal punto di vista economico. Caso unico in tutta l'America Latina, questo paese ha visto il proprio prodotto crescere costantemente per tutti gli anni ottanta e ha rispettato le scadenze di pagamento del proprio debito estero con perfetta puntualità. Anche se l'economia della droga ha avuto il suo peso in questo successo, come si vedrà presto, non vanno dimenticate le numerose altre risorse del paese: petrolio, carbone, pietre preziose, caffè e altri prodotti dell'agricoltura per l'esportazione, come i fiori.
In comune con i problemi economici del resto della regione la Colombia sembra avere soltanto la pessima distribuzione del reddito, aggravata da una spesa pubblica fortemente limitata dall'evasione fiscale: lo stato colombiano raccoglie e spende non più del 15% del PNL (64). Malgrado la caduta del prezzo del caffè e le inefficienze nelle reti elettriche stiano creando, in tempi recenti, ulteriori difficoltà, il quadro generale rimane uno dei più rosei dell'America Latina.
La situazione politica, tuttavia, è assai meno positiva. A dispetto del fatto che il paese possa formalmente vantare una delle più lunghe democrazie della regione, il regime vigente può essere meglio definito come un'oligarchia bipartitica che convive con livelli di violenza sconosciuti quasi ovunque. Escludendo i paesi in guerra, la Colombia ha il più alto tasso d'omicidi del mondo, tanto che è questa la prima causa di morte per i cittadini maschi tra i 15 e i 45 anni (65). I trafficanti di droga del cosiddetto cartello di Medellin sono stati responsabili, nel corso degli anni ottanta, dell'assassinio di centinaia di militari e poliziotti, di decine di giudici e giornalisti, di un ministro della giustizia (un ex ministro della giustizia venne ferito gravemente in un attentato a Budapest, mentre era ambasciatore in Ungheria) e di un candidato presidenziale - senza contare gli innumerevoli rapimenti con i medesimi mandanti. Sarebbe sbagliato concludere, tuttavia, che la droga è la sola responsabile dell
a violenza in Colombia. Primo, per i precedenti storici: la guerra civile non dichiarata del 1948-58 tra i due maggiori partiti, il Liberale e il Conservatore, ha causato tra i 200 e i 300 mila morti, meritandosi l'appellativo chiaro e semplice di la violencia. Tracce di questo periodo persistono nella presenza, tra la destra, dei cosiddetti squadroni della morte e, tra la sinistra, di movimenti di guerriglia con 12-15.000 combattenti (nel 1988) (66). Esiste, in secondo luogo, una molteplicità di polizie private armate in quasi tutti i settori della vita economica e politica. Polizie in lotta tra loro e contro l'autorità dello Stato: si calcola che le rivalità associate al commercio di pietre preziose abbiano causato 3.000 morti in cinque anni (67).
Rispetto ai trafficanti di droga, i governi colombiani hanno oscillato tra l'intransigenza e la trattativa, dovendo in ogni caso tener conto delle pressioni statunitensi da un parte, e della forza intimidatoria dei narcotrafficanti dall'altra. Più volte nell'ultimo decennio si è assistito a un ciclo di eventi apertosi con una campagna di repressione governativa, seguita da un'ondata di terrore dei trafficanti, seguita a sua volta da tentativi di arrivare a un accomodamento. Al centro del contenzioso c'è stato quasi sempre il trattato di estradizione con gli Stati Uniti, la cui applicazione veniva combattuta dai trafficanti con tutti i mezzi.
Nel 1984, il cartello di Medellin offrì di ritirarsi dagli affari, smantellare l'organizzazione e rimpatriare i propri capitali (stimati in 15 miliardi di dollari, cioè l'intero debito estero del paese). In cambio vennero richiesto garanzie sulla non-estradizione negli Stati Uniti e un'amnestia che consentisse il reinserimento nella società colombiana. L'accordo fallì, sia per l'opposizione di Washington, sia per la convinzione del governo di essere vicino a una vittoria - dopo l'assassinio del ministro della giustizia Lara Bonilla, una forte azione repressiva aveva costretto i maggiori trafficanti a rifugiarsi a Panama. Si perse così "un'occasione d'oro per chiudere un accordo vantaggioso per la Colombia" (68). Progressivamente, infatti, il cartello riuscì a ricostituire la propria organizzazione e i propri canali commerciali. Anche i capi riuscirono a rientrare in patria.
La storia si ripeté quasi identica nel 1987, quando l'estradizione negli Stati Uniti di uno dei maggiori trafficanti, Carlos Ledher, dette di nuovo la stura a un'ondata di violenza - il tutto lasciando comunque immutata la quantità di cocaina diretta all'estero.
Dopo l'elezione di César Gaviria Trujillo a presidente, nell'estate del 1990, il governo colombiano sembra aver imboccato con decisione la strada del negoziato - aperta, verso i guerriglieri, dal suo predecessore Virgilio Barco Vargas. Uno dei gruppi di opposizione armata, l'M-19, si è pacificamente inserito nella vita politica del paese, anche se rimangono attivi l'Esercito di Liberazione Nazionale (ELN) e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC). Un identico approccio è stato adottato verso i cartelli delle pietre preziose in guerra tra loro e con lo Stato. Quanto ai narcotrafficanti, il ripudio del trattato di estradizione con gli Stati Uniti ha portato alla resa dei maggiori esponenti del cartello di Medellin: i tre fratelli Ochoa, tra il dicembre del 1990 e il febbraio del 1991, e Pablo Escobar Gaviria, nel giugno del 1991.
L'arresto di tutti costoro aveva un'importanza più simbolica che sostanziale. A parte la polemica sulle loro condizioni di detenzione - per Escobar era stata costruita più che una prigione una villa di lusso - il fatto è che essi avevano potuto continuare a dirigere il traffico di droga. Ciò aveva creato inevitabili proteste, soprattutto da parte statunitense, e spinto il governo a muoversi per il trasferimento di Escobar. Quest'ultimo reagiva, nel luglio del 1992, con una fuga spettacolare che metteva fortemente in crisi la credibilità di Gaviria (69).
Morbida o dura che sia la linea adottata dal governo, la pratica impossibilità di interrompere i flussi di esportazione di droga dalla Colombia sembra ormai dimostrata (70). La spiegazione è abbastanza semplice ed è tutta da ricercarsi nella forza economica dei trafficanti: le stime sul valore delle esportazioni di cocaina e marjiuana - dunque senza contare l'eroina, aggiuntasi recentemente - variano da 1,5 a 15 miliardi di dollari l'anno (71). Come termine di paragone, le esportazioni legali valevano, nel 1989, 5,7 miliardi di dollari, il PNL 39,4 (72).
Innanzitutto, con una tale massa di denaro esentasse a propria disposizione, i narcotrafficanti sono chiaramente in grado di corrompere chiunque, tanto più che le retribuzioni dei funzionari pubblici (polizia, magistratura etc.) sono particolarmente basse. Viceversa, essi ricorrono alla violenza quando si trovano di fronte a campagne repressive su larga scala, oppure per scongiurare la minaccia di estradizione negli Stati Uniti dei leader dell'organizzazione. L'azione violenta, inoltre, interessa quasi esclusivamente il cartello di Medellin. L'altro grande circuito di narcotrafficanti della Colombia, il cosiddetto cartello di Calì, ha invece mantenuto costantemente un profilo assai meno eversivo, pur amministrando una quota crescente dell'industria della droga (73).
In secondo luogo, alla corruzione diretta va aggiunta quella indiretta: così come accade in Bolivia e Perù, la bilancia dei pagamenti e il servizio del debito estero sono motivi più che sufficienti per convincere il governo e la banca centrale ad intraprendere tutte le misure necessarie per attirare all'interno i capitali generati dal narcotraffico. Sono le stesse autorità, insomma, a mostrare coi fatti che la lotta all'industria della droga è un'impresa fondamentalmente contraria agli interessi generali del paese.
Esistono delle tesi che puntano in direzione opposta. E' vero, ad esempio, che mentre in Bolivia e in Perù dipendono da questa industria porzioni consistenti della forza lavoro, in Colombia gli introiti del traffico di droga interessano un numero di persone assai più ristretto: gli addetti alla raffinazione e al commercio (74). Dunque, invece di distribuirsi in modo relativamente uniforme, questa forma di reddito andrebbe ad alimentare il consumo vistoso, la speculazione sugli immobili e, per la sua ingente quantità, l'inflazione - quest'ultima, tuttavia, non ha mai superato il 30% annuo nell'ultimo decennio, un tasso modesto per la media della regione (75). Vanno poi considerati i costi per la Colombia della lotta al traffico di droga, stimati in 2 miliardi di dollari l'anno (77). Nonché i costi politici della destabilizzazione e della violenza legate a questa attività.
Alla luce d'un calcolo costi-benefici, tuttavia, le scelte del governo di trattare con i trafficanti e di facilitare in ogni modo il rimpatrio dei capitali rimangono comprensibili. La trattativa, infatti, permette alla Colombia di minimizzare sia i costi economici che quelli politici della lotta ai narcotrafficanti. Il rimpatrio della valuta pregiata acquisita col commercio di droga, pur scontando le distorsioni appena ricordate, facilita la stabilità del cambio e il servizio del debito.
Va detto che in questa sua manovra, il governo colombiano è stato aiutato dall'inasprimento delle misure contro il riciclaggio del denaro sporco, avvenuto nei paesi industrializzati dopo la firma della Convenzione ONU del 1988 contro il Traffico Illecito di Stupefacenti e Sostanze Psicotrope. Non è escluso che i narcodollari abbiano una parte importante anche nel boom della borsa colombiana, il cui indice in dollari è aumentato di sei volte tra il 1987 e il 1992 (77).
Per quanto sia difficile trarre delle conclusioni generali da una rassegna di paesi così diversi tra loro, alcune cose possono forse essere notate.
Primo, anche prendendo con cautela le stime più conservatrici si arriva a concludere che le entrate derivanti dalla produzione e dal commercio di droghe pesano troppo sull'economia di questi paesi perché essi si impegnino seriamente nella lotta al narcotraffico. C'è anzi la possibilità che nuovi produttori, come le repubbliche asiatiche ex sovietiche, si stiano aggiungendo alla lista, o che produttori tradizionali, come l'Afghanistan, incrementino la superficie coltivata - mentre la diversificazione dell'industria della droga colombiana nell'eroina sembra ormai un fatto accertato.
D'altro canto, le cifre che il Nord destina alla conversione delle colture non sono davvero tali da costituire un incentivo realistico - come si può vedere sia dal limitato bilancio dell'UNDCP, sia dalla ripartizione degli aiuti statunitensi ai paesi andini. Come è stato notato, molto giustamente: "La prospettiva di fornire opportunità economiche alternative per convincere i contadini peruviani, colombiani e boliviani ad abbandonare la produzione di coca sembra remota, ove si consideri che la marijuana è diventata in valore il primo raccolto della ricche, fertili e ben irrigate terre della California, dove le possibilità alternative abbondano" (78).
Né è probabile che gli aiuti per la conversione delle colture vengano significativamente aumentati nel prossimo futuro: l'idea, affacciata da un gruppo di paesi in via di sviluppo in sede Nazioni Unite, di ottenere una riduzione del debito estero in cambio della sradicazione delle colture di droga è stata accolta freddamente dai paesi creditori, preoccupati di un possibile effetto-ricatto: "i paesi debitori sarebbero tentati di diminuire il loro impegno anti-droga, così da imporre alla comunità internazionale accordi debiti contro droga" (79).
Secondo, malgrado l'importanza appena sottolineata di questi introiti, le somme che restano nei paesi produttori non sono che una piccola parte del giro d'affari complessivo del narcotraffico - anche se questo, come si vedrà nel prossimo capitolo, è quasi sempre stimato per eccesso. I profitti derivanti dall'industria degli stupefacenti restano in gran parte nel Nord del mondo, sia perché è a questo punto della distribuzione che ha luogo il grosso dell'aumento di prezzo, sia perché è al Nord che viene investita parte dei capitali degli stessi trafficanti del Sud. Non si può escludere, dunque, che se le droghe venissero legalizzate i paesi produttori riuscirebbero a mantenere le entrate attuali, ma con l'ovvio vantaggio di poterle tassare e di toglierle dalle mani di terroristi e criminali. Tutto ciò, naturalmente, a parità di altre condizioni: un eccesso d'offerta provocato dall'ingresso di nuovi produttori cambierebbe tutto lo scenario. Comunque, il fatto che un paese come la Bolivia stia tentando una
soluzione simile alla legalizzazione è forse un indizio della plausibilità di questo ragionamento.
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(55) Cfr. International Narcotics Control Strategy Report, cit., pp. 25-34.
(56) Cfr Alaine Labrousse, "Amérique Latine: l'économie de la drogue", Politique Internationale, estate 1990.
(57) Cfr. "Latin America's killing fields", The Economist, 8 ottobre 1988.
(58) Cfr. Peter R. Andreas e Kenneth E. Sharpe, "Cocaine Politics in the Andes", Current History, febbraio 1992; "The kickback from cocaine", The Economist, 21 luglio 1990.
(59) Cfr. Nathaniel C. Nash, "Bolivians Make Their Case for (Legal) Coca-Leaf Tea", IHT, 18 giugno 1992.
(60) Cfr. Ignacio Cembrero, "Felipe Gonzáles se muestra favorable a la legalización de la hoja de coca", El Pais, 11 giugno 1992.
(61) Cfr. Andreas e Sharpe, cit.
(62) Cfr. Nathaniel C. Nash, "Capital Flight Deepens Peruvian Gloom", IHT, 29 aprile 1992.
(63) Cfr. Andreas e Sharpe, cit.; "The kickback form cocaine", cit.
(64) Cfr. "Colombia's bloodstained peace", The Economist, 6 giugno 1992.
(65) Andreas e Sharpe, cit.
(66) Cfr. Bagley, cit.
(67) Cfr. "Gem wars", The Economist, 21 luglio 1990.
(68) Bagley, cit.
(69) Cfr. Marcel Niedergang, "Une nation à la dérive", Le Monde, 24 luglio 1992.
(70) Malgrado i sequestri di cocaina proveniente dall'America del Sud siano stimati dal governo americano nel 30% circa dell'intera produzione, ciò non ha avuto alcun impatto sul prezzo e sul consumo. Cfr. Melvyn Levitsky (Assistant Secretary for International Narcotics Matters), Statement before the Subcommittee on Terrorism, Narcotics, and International Operations of the Senate Foreign Relations Committee, 20 febbraio 1992.
(71) Cfr. "The kickback from cocaine" e "Latin American killing fields", The Economist, cit.
(72) Cfr. The World Bank, World Development Report 1991, Oxford University Press, Oxford, 1991, pp.230 e 208.
(73) Si ritiene comunemente che al cartello di Medellin sia andato il mercato della costa orientale degli Stati Uniti, mentre al cartello di Calì spettino la costa occidentale e l'Europa.
(74) Va in ogni caso tenuto presente che il ruolo delle famiglie colombiane si spinge molto avanti nella catena commerciale: da molti anni ormai, dopo aver eliminato i rivali cubano-americani, il cartello di Medellin controllerebbe gran parte del mercato all'ingrosso di Miami. Cfr. Bagley, cit.
(75) Cfr. Paola Vinciguerra, "L'industria della droga in Colombia", Politica Internazionale, gennaio-febbraio 1991.
(76) Cfr. Rensselaer W. Lee, "Colombia's Drug Negotiations", Orbis, primavera 1991.
(77) Cfr. Catherine Burton, "Latin American Stocks Sustain the Pace", IHT, 29-30 agosto 1992.
(78) Theodore H. Moran, "International Economics and National Security", Foreign Affairs, inverno 1990/91.
(79) Ian Hamilton Fazey, "Campaign to swap debt for drugs aid gathers pace", Financial Times, 6 maggio 1992.
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4. Le stime sul fatturato del narcotraffico
Che si tratti di pubblicazioni accademiche o di stampa quotidiana, è praticamente impossibile leggere alcunché sul traffico di droga senza imbattersi in qualche numero sul volume di denaro cui esso darebbe luogo. Anche in questo lavoro, sono state trascritte dalle fonti più diverse numerose stime sugli introiti di questo o quel paese produttore. Come vanno prese? Con enorme cautela. Una cautela che è buon senso intensificare quando ci si muove verso insiemi più larghi, come il valore delle vendite di stupefacenti nei paesi consumatori.
I motivi per diffidare di qualunque stima al riguardo non mancano. La formazione del prezzo al dettaglio delle varie droghe è fortemente atipica (80). I prezzi accertati, sia all'ingrosso che al dettaglio, variano di molto nel tempo e nello spazio. Le stime sul numero dei consumatori risentono ovunque di ampi margini di indeterminatezza. "Si rimane dunque nel regno della congettura, col rischio di accettare delle cifre perché sono citate o utilizzate di frequente" (81).
Per non correre questo rischio si può provare a misurare qualcuna di queste cifre sul metro di qualche dato economico un po' più affidabile, cominciando dalla stima più alta, messa in circolazione in origine da una rivista americana e poi ampiamente ripresa (82). Così, nella relazione principale del convegno "Droga: il nuovo Impero del Male - Una guerra globale e planetaria" (patrocinato da: UNDCP, Presidenza della Repubblica, ministeri degli Affari Esteri, dell'Interno, di Grazia e Giustizia, degli Affari Sociali), svoltosi a Roma il 12 maggio del 1992, si può leggere: "Dopo il traffico di armi, la droga rende più soldi di ogni altra attività, si ritiene 500 miliardi di dollari l'anno" (83).
Scontata la domanda nei paesi produttori di droghe - domanda che sembra legittimo assimilare all'autoconsumo - i consumatori finali di narcotici vanno cercati nei paesi sviluppati. Sono costoro che, posti al termine della catena commerciale, comprano il prodotto dell'industria della droga comunemente intesa e ne determinano il fatturato.
Nell'OCSE, i consumi privati assorbono i tre quinti del PIL. Si tratta (1989) di circa 8.700 miliardi di dollari. E' ragionevole pensare che il consumo di droga nell'OCSE sia pari al 5,7% (500 miliardi su 8.700) dei consumi privati? E' possibile che si spenda in droga, più di quanto si spende per l'acquisto di automobili (3% in Italia, 5% negli Stati Uniti, sempre sui consumi delle famiglie), o per combustibili ed energia (4% sia in Italia che negli Stati Uniti) (84)?
La risposta non può che essere negativa, anche tenendo conto della popolazione tossicodipendente, cioè di coloro che presumibilmente spendono tutto il proprio reddito - quale che ne sia l'origine - in droga. Tanto per dare degli ordini di grandezza, si tratta al massimo di 300.000 persone in Italia e di 1.000.000 negli Stati Uniti, rispettivamente su 57 milioni e 249 milioni di abitanti (85). E' evidente che una stima pari a un quinto di quella citata, cioè circa 100 miliardi di dollari, o l'1,2% dei consumi privati dell'OCSE, è già sorprendentemente alta e presuppone un consumo ricreativo (cioè da parte di non tossicodipendenti) di droghe illegali nei paesi sviluppati molto diffuso. Tuttavia, le stime più frequentemente citate superano, talvolta di molto, la soglia dei 100 miliardi di dollari (cfr. tab. 5).
Prima di provare a vedere, limitatamente all'Italia, a quali conclusioni si arriva con il procedimento opposto - cioè qualche calcolo induttivo che parta dalle stime sulla spesa dei tossicodipendenti - vale la pena di tornare alla citazione da cui siamo partiti, che affermava essere il giro d'affari legato alle droghe illecite secondo solo al traffico di armi.
Anche questo è diventato rapidamente un leit motiv dei media (86). Ma è strano che nessuno si sia mai fermato a controllare a quanto ammonti il traffico di armi, intendendo evidentemente con questo termine il valore del commercio internazionale di armamenti. Si tratta, comunque, rispetto ai 500 miliardi di dollari attribuiti alla droga, di cifre minori di un ordine di grandezza: 49 miliardi di dollari nel 1988, 56 nel 1987, ultimi anni di picco prima del recente, marcato declino (87). Viceversa, la spesa mondiale per armamenti - un concetto diverso, poiché include le transazioni interne, cioè le forniture delle varie industrie nazionali ai rispettivi governi - dovrebbe ragionevolmente essersi aggirata negli stessi anni tra i 200 e i 250 miliardi di dollari, ovvero tra un quinto e un quarto della spesa militare mondiale. Siamo in ogni caso lontani dai 500 miliardi citati.
Questo tipo di paragoni ad effetto, fatti tuttavia con notevole superficialità, hanno finito per accreditare una connessione tra armi e droga - tipo, appunto, Impero del Male - della quale esistono scarsissimi riscontri, a parere di chi scrive. Certo, alcune inchieste giudiziarie italiane hanno indicato dei punti di sovrapposizione tra la mafia e qualche fornitura clandestina di armi. La mafia è anche nel circuito della droga, ergo armi e droga sono legate. Ma il sillogismo è piuttosto fallace.
Il lato clandestino delle transazioni internazionali di armi non è che una piccola frazione di quello legale e riconosciuto. Le cifre in gioco sono modeste (non più di qualche miliardo di dollari l'anno) a paragone anche con le stime più caute sul valore del traffico di droga. Inoltre è molto più facile occultare una qualunque sostanza in polvere che armi e munizioni - un fucile-mitragliatore tipo Kalashnikov viene venduto allo stesso prezzo di uno o due grammi di eroina, un proiettile per obice pesa più di cento chili, carri armati e missili sono oggetti molto visibili. I due tipi di commercio richiedono insomma abilità diversissime, fermo restando il fatto che l'uno, le armi, è assai meno profittevole dell'altro. Perché dunque dovrebbe esistere alcun tipo di connessione sistematica? - che è cosa diversa, si badi, dall'occasionale intreccio finanziario o personale.
D'altro canto è vero che le organizzazioni colombiane della droga si riforniscono di esplosivo, armi e munizioni. Lo stesso fa la mafia. E' vero anche che con i proventi del traffico di droga hanno comprato armi le fazioni libanesi e quelle afghane, i ribelli peruviani e birmani e persino il governo di Rangoon. Ma il fatto che i soldi del narcotraffico siano impiegati in questo o quel modo non prova molto di per sé. Nessuno si sogna di dire che la Rolex o la Ferrari sono implicate nel traffico di droga per il solo fatto che i loro prodotti vengono comprati dai padrini di Medellin e Calì.
Arrivare per via induttiva a una stima del giro d'affari dell'industria della droga pone innumerevoli problemi. Ad esempio il prezzo delle sostanze varia di molto da luogo a luogo, anche all'interno di uno stesso paese, e da periodo a periodo nel medesimo luogo. E' anche difficile interpretare correttamente tali cambiamenti di prezzo: "Un aumento di prezzo [dell'eroina] può derivare da una maggiore domanda, come potrebbe verificarsi se la popolazione tossicodipendente crescesse per motivi esogeni, o da uno spostamento della curva di offerta, come potrebbe verificarsi se maggiori risorse di polizia venissero impegnate nella lotta al traffico. Nel breve periodo, un aumento dei tossicodipendenti, a parità di altre condizioni, aumenta i prezzi. Nel lungo periodo la relazione causale è opposta: un aumento di prezzo scoraggerà il flusso di novizi nel gruppo dei tossicodipendenti" (88).
Anche ove si arrivi a fissare un prezzo, va considerato che molti tossicodipendenti o semplici consumatori di droghe scaricano su altri consumatori il costo della sostanza, comprando all'ingrosso, vendendo al minuto e trattenendo una quota per sé (la nota figura del consumatore-spacciatore). Ancora: sempre tra la popolazione tossicodipendente esiste ad ogni momento dato un sottogruppo in carcere o in terapia, il cui consumo è ridotto o annullato. Il che può rendere fuorviante una semplice moltiplicazione tra il numero stimato dei tossicodipendenti e la spesa annua basata sul consumo giornaliero. Infine, con l'eccezione di alcune rilevazioni statunitensi, c'è il buio totale sul consumo ricreativo di droghe illegali, quello che interessa i non-tossicodipendenti: quanti e chi sono costoro, quanto spendono per l'acquisto delle sostanze? Semplicemente non si sa (89).
Nel caso dell'Italia, queste difficoltà sono state considerate in due studi sui mercati della droga di Bologna e Verona, nei quali sono stati raggiunti risultati ragionevolmente attendibili (90). L'estensione all'intero paese della metodologia impiegata in questi studi è stata tentata in un'indagine congiunta del Centro Studi Investimenti Sociali (CENSIS) e del Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale (CDS) (91). E' importante sottolineare che, diversamente da altre stime, in questi lavori si sono fatte delle ipotesi sensate sul comportamento dei tossicodipendenti - alla totalità dei quali troppo spesso si attribuisce tout court un consumo di 365 giorni l'anno - nonché sul prezzo e sulla purezza dell'eroina. Quanto alla popolazione tossicodipendente, la ricerca CENSIS-CDS si è basata su dati dell'Istituto Superiore di Sanità e del Consiglio Nazionale delle Ricerche; dati che portano a fissare in circa 150.000 i consumatori regolari di eroina in Italia. Il risultato è che il valore annuo delle ve
ndite in Italia di questa sostanza è di circa 2.400 miliardi - valore che include gli acquisti dei pochi consumatori occasionali.
Non si può escludere che il numero dei tossicodipendenti italiani sia stato sottostimato nelle fonti usate dai ricercatori CENSIS-CDS, diciamo pure di un fattore due (92). Correggendo di conseguenza la stima, il fatturato dell'eroina passerebbe a circa 5.000 miliardi l'anno.
Arrivare a raddoppiare questa cifra, sempre su base nazionale, significa fare ipotesi tutt'altro che conservatrici sulla diffusione del consumo di droghe diverse dall'eroina. Lo si capirà meglio considerando quanto segue.
Primo, i consumatori di cocaina. Sull'Italia non si hanno dati. C'è però un accordo generale sul fatto che in Europa la domanda di questa sostanza, per quanto in rapido aumento, sia generalmente inferiore a quella statunitense. Il National Household Survey on Drug Abuse condotto dal National Institute on Drug Abuse (NIDA) ha rilevato, nel 1990 negli Stati Uniti, 660.000 persone che hanno consumato cocaina nell'ultima settimana e 1.600.000 persone che l'hanno consumata nell'ultimo mese (93). Trascurando coloro che fanno uso di cocaina meno di una volta al mese (4,1 milioni negli Stati Uniti), qualsiasi trasposizione all'Italia difficilmente può portare a più di 100-150 mila consumatori "dell'ultima settimana" e 300-400 mila consumatori "dell'ultimo mese". Visto che l'uso occasionale della sostanza sembra assolutamente prevalente, a un gruppo di queste dimensioni è già molto attribuire un consumo, in valore, pari alla metà di quello di tossicodipendenti e consumatori occasionali di eroina, cioè 2.500 mili
ardi.
Secondo, i consumatori di cannabis. Questa sostanza ha un costo molto inferiore alle altre considerate (meno di un decimo: cfr. tab. 6) e dà luogo a un consumo puramente occasionale. Ne consegue che chi fa uso di marjiuana o hascisc difficilmente arriva a spendere cifre annue nell'ordine del milione di lire. Per generare i 2.500 e più miliardi mancanti, tuttavia, occorre postulare l'esistenza di almeno 2,5 milioni di consumatori di cannabis con una spesa individuale di 1 milione l'anno. A quanto pare, il ministero delle Finanze ritiene invece che questo gruppo sia composto di circa 2 milioni di persone, per una spesa complessiva annua di 900 miliardi (94).
Terzo, lo studio CENSIS-CDS. Dove si sostiene - sia pure basandosi sulle "opinioni e percezioni" di non meglio precisati "esperti del settore" - che il mercato dell'eroina rappresenti almeno il 55-60% del mercato italiano di stupefacenti.
Come metro ulteriore della cifra ipotizzata in questo ragionamento, si consideri che 10.000 miliardi l'anno peserebbero per circa un punto percentuale sui consumi di tutte le famiglie italiane - un'incidenza, per le ragioni già esposte, davvero non trascurabile (95).
Anche nel caso italiano, tuttavia, continuano a circolare stime molto maggiori rispetto alle ipotesi di larga massima fatte qui. Eccone alcune. Il CENSIS stesso non troppo tempo addietro aveva stimato in 30.000 miliardi il fatturato italiano del 1985 dell'industria della droga (96). Il Sole-24 Ore, nel 1989, lo ha stimato in 93.000 miliardi (97). Le Camere di Commercio accreditano le organizzazioni criminali di proventi derivanti dalla droga e dall'estorsione pari a 110 miliardi di dollari, o al 15% del PIL (98). Pur non conoscendo la parte di quest'ultima stima che si suppone derivare da estorsioni, il tutto suona semplicemente esagerato.
Di tali esagerazioni non si vede il bisogno. I margini di profitto dell'industria delle droghe illegali (dei quali è un parziale indicatore l'aumento del prezzo al progredire nella catena commerciale: cfr. tab. 7) dovrebbero essere abbastanza alti da creare concentrazioni finanziarie ragguardevoli nell'arco di pochi anni - anche con giri d'affari più contenuti e circuiti criminali non integrati tra loro (il contrario, cioè, dell'Impero del Male). C'è insomma, anche così, tutto quello che serve per attendersi un aumento delle attività necessarie a proteggere e a far prosperare questo tipo di affari: corruzione, speculazione e così via. Per dirla con Milton Friedman, l'industria della droga "non è un esempio di complotto organizzato, ma un comportamento prevedibile dei membri di una branca dell'industria. Vale a dire che i baroni della droga non si comportano diversamente dai magnati dell'automobile" (88).
Perché allora il problema del narcotraffico - anche sul piano che si vorrebbe meno polemico, quello dei numeri - continua a essere trattato con tante iperboli e tante forzature?
La spiegazione principale va cercata nella logica burocratica. Si sa che i militari hanno la tendenza ad esagerare le capacità del nemico - la cosiddetta worst case analysis - per mobilitare il massimo di risorse e per mettersi al riparo da eventuali critiche in caso di sconfitta. Lo stesso comportamento caratterizza le burocrazie antidroga, nazionali e internazionali, tanto più che la percezione dominante nel pubblico è appunto quella di una loro sconfitta.
Per la verità, anche molti antiproibizionisti fanno proprie le esagerazioni à la Impero del Male, forse nella convinzione che queste diano ulteriore forza alle proposte di legalizzazione. Si tratta, tuttavia, di un'arma a doppio taglio. Astenendosi dal criticare le iperboli, un'antiproibizionista si espone al rischio di creare aspettative esagerate attorno alla legalizzazione delle droghe. Sarebbe illusorio, ad esempio, attendersi da questa misura cose così diverse come il crollo della microcriminalità e l'estinzione delle mafie italiana, il superamento della dittatura militare in Birmania e la fine del traffico clandestino di armi. Anzi, la persistenza di questi fenomeni, seppure ridimensionati, in un regime di legalizzazione delle droghe potrebbe creare quel tipo di delusione generalizzata idonea a rilanciare il proibizionismo.
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(80) Poiché il prezzo all'esportazione è in media meno del 10% del prezzo finale, i trafficanti dei paesi consumatori sono in grado di assorbire qualunque aumento di prezzo nei paesi produttori, o qualunque riduzione della quantità (provocata ad esempio dai sequestri) che non provochi una scarsità assoluta. Cfr. Peter Reuter, "Eternal Hope: America's Quest for Narcotics Control", The Public Interest, primavera 1985.
(81) German Fonseca, "Economie de la drogue: taille, caractéristiques et impact économique", Revue Tiers Monde, luglio-settembre 1992.
(82) Cfr. Louis Kraar, "The Drug Trade", Fortune, 20 giugno, 1988.
(83) Jamieson, cit., p. 46.
(84) Tutti questi dati sono tratti da World Bank, op. cit.
(85) Il numero di 500.000 tossicodipendenti negli Stati Uniti, a metà degli anni ottanta, è stato criticato come eccessivo e con argomenti molto convincenti: "Se usiamo le stime, prodotte in vari studi accademici, del numero dei reati commessi dai tossicodipendenti, troviamo di nuovo che la popolazione tossicodipendente da sola sembra commettere più reati contro la proprietà di quanti ne avvengano effettivamente". Peter Reuter, "The (continued) Vitality of Mythical Numbers", The Public Interest, primavera 1984.
(86) Un solo esempio tra le decine possibili. In un articolo in cui l'autore si soffermava sui cosiddetti intrecci armi-droga, si arrivava ad affermare quanto segue: "L'inchiesta [del giudice romano Mario Almerighi] prova anche che il traffico prioritario è sempre stato quello delle armi, il cui fatturato arriva a cifre impensabili, mentre quello della droga rappresenta solamente la prima forma di reinvestimento dei capitali sporchi". Antonio Cipriani, "Spunta un rapporto segreto anche a Roma: 'I trafficanti di droga fanno incetta di Bot e Cct'", L'Unità, 5 gennaio 1992.
(87) Cfr. U.S. Arms Control and Disarmament Agency, World Military Expenditures and Arms Transfers 1989, Washington DC, Government Printing Office, 1990. L'ACDA, che è un'agenzia del governo statunitense, non prende in considerazione le forniture a gruppi sub-nazionali, che è tuttavia difficile possano rappresentare, in valore, più di qualche punto percentuale della domanda cumulativa dei governi. Quest'ultima è in compenso stimata dall'ACDA indipendentemente dall'offerta, così da includere anche il mercato nero dei fornitori non ufficiali. Sono infine inclusi i pezzi di ricambio e le munizioni.
(88) "The (continued) Vitality of Mythical Numbers", cit.
(89) Solo ora i media cominciano a prendere atto che esistono consumatori occasionali anche nel caso dell'eroina. Cfr. Joseph B. Treaster, "In New York, Juggling a Heroin Habit With Life at the Top", IHT, 23 luglio 1992.
(90) Cfr. Pino Arlacchi e Roger Lewis, "Sociologia della droga: il caso di Verona", Micromega, 4/89; Pino Arlacchi e Roger Lewis, "Droga e criminalità a Bologna", Micromega, 4/90.
(91) Cfr. Contro e Dentro, Milano, Franco Angeli, 1992, pp. 103-120..
(92) Arlacchi e Lewis, nello studio su Bologna, avevano indicato in 1:4 il rapporto medio tra tossicodipendenti in cura presso le strutture pubbliche e private e totale dei tossicodipendenti (cfr. "Droga e criminalità a Bologna", cit.). Al 31 dicembre del 1991, i tossicodipendenti in trattamento erano in Italia 73.866. Cfr. Carla Rossi (a cura di), Osservatorio delle Leggi sulla Droga, VI Rapporto, Agosto 1992, Coordinamento Radicale Antiproibizionista e Millelire-Stampa Alternativa, Roma, 1992.
(93) Cfr. National Drug Control Strategy, cit.
(94) Cfr. Roberto Delera, "2 milioni di italiani lo fanno - stravaganti o colpevoli?", Epoca, 6 maggio 1992.
(95) Se ciò che interessa conoscere sono i profitti derivanti dal traffico di droga intascati dalle organizzazioni criminali italiane, è evidente che qui non sono state considerate le esportazioni, in Europa e negli Stati Uniti. Per quanto si ritenga generalmente che mafia, 'ndrangheta e camorra esportino molta droga, specie in Europa, è anche legittimo presupporre un qualche ruolo per le organizzazioni criminali dei mercati di arrivo. Ruolo che appunto ridimensiona i margini di profitto. Per inciso, anche il fatturato italiano comunque stimato non può essere tradotto così com'è in profitto per le imprese criminali: come in ogni altra industria occorrerebbe dedurre costi di produzione, come l'acquisto della materia prima, e costi di intermediazione. In questo caso sembra solo di poter dire che, rispetto ad altre attività legali, i primi sembrano essere molto contenuti, mentre i secondi (si pensi solo alla corruzione e al riciclaggio del denaro) dovrebbero essere considerevoli.
(96) Cfr. Il peso dell'illecito in Italia, Milano, Franco Angeli, 1988. Nello stesso lavoro (cfr. pp. 143-4) si supponeva, su basi che è poco definire fragili, che il giro d'affari del commercio clandestino di armi fosse in un rapporto di 1:1 con quello legale (quest'ultimo a sua volta sovrastimato). Si arrivava così a un risultato, realmente paradossale, di 4.000 miliardi annui.
(97) Cfr. Lorenza Moz, "Il business della criminalità 'fattura' 200mila miliardi" e "Dal produttore al consumatore la 'coca' si ricarica del 2.300%", Il Sole-24 Ore, 4 settembre 1989. Secondo queste cifre, quindi, più del 10% dei consumi privati e più del 6% del PIL andrebbero all'acquisto di droga.
(98) Cfr. "Organized crime seeks to profit from Europe's single market", The Wall Street Journal Europe, 22 luglio 1992.
(99) "Der Drogenkrieg ist verloren", Der Spiegel, 30 marzo 1992.
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Conclusioni
Abbandonate le stime sul giro d'affari dell'industria della droga, e con esso le teorie sui complotti internazionali, sembra più utile e realistico orientare l'indagine in due direzioni.
Primo, i costi della lotta alla droga nelle società che la consumano - tralasciando, per semplicità, quelli sopportati dai paesi produttori. E' un dato di fatto, ad esempio, che la proibizione del commercio e del consumo di stupefacenti assorbe una parte considerevole delle risorse di polizia, dogane e sistema giudiziario. In linea di principio, quantità e costi dei procedimenti penali per reati di droga possono essere determinati meglio di qualsiasi stima sul consumo di stupefacenti. Il numero dei reclusi per reati legati alla droga dovrebbe essere anch'esso determinabile con esattezza: la detenzione di tutti costoro implica un costo individuale, che dovrebbe essere noto, e un costo collettivo indiretto sull'efficienza complessiva del sistema carcerario - quasi ovunque, in occidente, in crisi da sovrappopolazione (100). Il numero di addetti e le risorse di bilancio che polizia e dogane devolvono alla lotta alla droga dovrebbero essere conosciuti. Esistono, infine, i costi degli organismi internazionali
che si occupano del fenomeno, anch'essi determinabili (101). Insomma, invece di cercare di conoscere l'inconoscibile - quanto guadagnano dal proibizionismo i trafficanti - sarebbe meglio provare a conoscere il conoscibile: quanto costa il proibizionismo al contribuente. Il che, pur non essendo l'unico elemento di giudizio sull'intero problema, certamente aiuterebbe la formazione di una valutazione equilibrata dei risultati della lotta alla droga in regime proibizionista.
Secondo, il comportamento dei consumatori occasionali. Questa questione meriterebbe senz'altro delle indagini sociologiche serie, perché è probabilmente qui una delle chiavi per comprendere le probabili conseguenze di una eventuale legalizzazione delle droghe. A ben vedere, infatti, la grande maggioranza dei consumatori di stupefacenti non è tossicodipendente. Si tratta dunque di capire quanto c'entri il proibizionismo con questo risultato. Ad esempio: fino a che punto sono i prezzi, spinti in alto dal regime di illegalità, e la minaccia di sanzioni amministrative e penali a limitare i consumi (102)? o quanto gioca, piuttosto, la capacità di autoregolazione dei consumatori? Ancora: l'illegalità è un ostacolo o un incentivo all'uscita dalla tossicodipendenza?
In definitiva, indagare nelle due direzioni indicate sembra a chi scrive la condizione per far uscire la discussione sul narcotraffico e il regime proibizionista dalle allucinazioni dei numeri mitici e dei complotti - e per tornare sul terreno più saldo delle scelte razionali.
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(100) In Italia ci sono stati, nel 1991, quasi 23.000 arresti per reati di droga; il 34% dei detenuti erano tossicodipendenti. Cfr. Marcello D'Angelo, "I giovani si bucano meno", Il Giorno, 12 febbraio 1992. Su 15.000 detenuti nelle prigioni federali statunitensi, circa 13.000 hanno commesso reati di droga. Il sistema carcerario americano (prigioni federali, statali e locali) ospita più di un milione di persone, è al 116% della capacità di accoglimento e costa 18 miliardi di dollari l'anno. Cfr. National Drug Control Strategy, cit., pp. 32-43.
(101) Anche il sistema sanitario nei vari paesi sopporta dei costi derivanti dall'illegalità del consumo. Tuttavia, in questo caso, sono molto meno chiari gli effetti della fine del proibizionismo: la cura dei tossicodipendenti dovrebbe continuare e probabilmente estendersi a un maggior numero di pazienti; regole sulla qualità delle sostanze vendute e controlli igienico-sanitari dovrebbero essere introdotti; e così di seguito.
(102) Entro il limite di non dar luogo alla creazione di un mercato nero, i prezzi degli stupefacenti potrebbero essere mantenuti alti anche in regime di legalità tramite l'imposizione fiscale.
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Tabelle
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Tabella 1: Produzione netta mondiale di oppio, foglia di coca, marijuana e hascisc. In tonnellate.
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Paese 1990 1989 1988 1987
Oppio
Afghanistan 415 585 750 600
Iran 300 300 300 300
Pakistan 165 130 205 205
Totale Asia S-Occ 880 1015 1255 1105
Birmania 2250 2430 1285 835
Laos 275 375 255 225
Thailandia 40 50 28 24
Totale Asia S-Or 2565 2855 1568 1084
Libano 32 45 na na
Guatemala 13 12 8 3
Messico 62 66 50 50
Totale oppio 3520 3948 2881 2242
Foglia di coca
Bolivia 81.000 77.600 78.400 79.200
Colombia 32.100 33.900 27.200 20.500
Perù 196.900 186.300 187.700 191.000
Ecuador 170 270 400 400
Totale foglia di coca 310.170 298.070 293.700 291.100
Marijuana
Messico (*) 19.715 30.200 5.655 5.933
Colombia 1.500 2.800 7.775 5.600
Giamaica 825 190 405 460
Belize 60 65 120 200
Altri 3.500 3.500 3.500 1.500
Totale Marijuana 25.600 36.755 17.455 13.693
Hascisc
Libano 100 905 700 700
Pakistan 200 200 200 200
Afghanistan 300 300 300 300
Marocco 85 85 85 60
Totale hascisc 685 1.490 1.285 1.260
(*) Le stime precedenti al 1989 erano state fatte su altri basi e dunque non risultano confrontabili a quelle del 1989 e 1990.
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Fonte: United States Department of State, Bureau of International Narcotics Matters, International Narcotics Control Strategy Report, Washington, marzo 1991.
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Tabella 2: Dieci paesi produttori di droghe, più Giappone e Italia, classificati secondo l'Indicatore di Sviluppo Umano (ISU) dello United Nations Development Program (UNDP).
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Paese ISU Posizione nella
classifica generale
di 160 paesi
Afghanistan 0,069 157
Birmania 0,437 106
Bolivia 0,416 110
Colombia 0,757 61
Iran 0,577 92
Laos 0,253 128
Libano 0,592 88
Pakistan 0,311 120
Perù 0,644 78
Thailandia 0,713 66
Giappone 0,993 1
Italia 0,955 18
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Fonte: Programme des Nations Unies pour le développement, Rapport mondial sur le développement humain 1991, Economica, Parigi, 1991.
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Tabella 3: Popolazione, prodotto procapite, crescita economica e debito estero di dieci paesi produttori di droghe. Anno 1989.
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Paese a b c d e
Afghanistan (*) 17 na na na na
Birmania 41 na na 4,1 na
Bolivia 7 620 -0,9 4,3 102,2
Colombia 32 1.200 3,5 16,8 45,8
Iran 53 3.200 0,5 na na
Laos 4 180 na 0,9 152,6
Libano (*) 3 na na 0,5 na
Pakistan 110 370 6,4 18,5 46,9
Perù 21 1.010 0,4 19,8 73,5
Thailandia 55 1,220 7,0 23,4 34,1
a = Popolazione in milioni.
b = Prodotto Nazionale Lordo (PNL) procapite in dollari.
c = Crescita media annua percentuale del Prodotto Interno Lordo, 1980-89.
d = Debito estero in miliardi di dollari.
e = Debito estero come % del PNL.
(*) Fonte come tabella 2.
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Fonte: The World Bank, World Development Report 1991, Oxford University Press, Oxford, 1991.
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Tabella 4: Aiuti statunitensi a Bolivia, Perù e Colombia. In milioni di dollari. Anno fiscale 1991 (tra parentesi la richiesta dell'amministrazione per il 1992).
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Bolivia Perù Colombia
Aiuti economici 137,3 (180,8) 157,2 (187,7) 54,1 (53,8)
Aiuti militari 35,9 (40,9) 24,5 (39,9) 51,5 (60.3)
Assistenza 15,7 (15,7) 19,0 (19,0) 20,0 (20,0)
antidroga, di cui:
Repressione 13,5 (14,3) 17,8 (17,9) 18,8 (18,6)
Prevenzione 0,0 (0,0) 0,2 (0,1) 0,3 (0,3)
Sviluppo 2,2 (1,5) 1,0 (1,0) 1,2 (1,4)
alternativo
TOTALE 188,9 (237,4) 200,7 (246,6) 125,6 (134,1)
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Fonte: "Fact Sheet: U.S. Economic, Military, and Counter-Narcotics Program Assistance", U.S. Department of State Dispatch, 2 marzo 1992.
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Tabella 5: Alcune stime sul fatturato annuo globale dell'industria della droga. In miliardi di dollari.
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Fonte Stima
FATF(a) 122
Governo tedesco(b) 250
Dipartimento di Stato Usa(c) 300
Fortune(d) 500
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(a) Citato in "Criminalità e Narcotraffico nei Paesi Membri", relazione della commissione d'inchiesta del Parlamento Europeo sulla diffusione della criminalità organizzata connessa al traffico di droga nella comunità, 2 dicembre 1991. FAFT è la sigla di Financial Action Task Force, un organismo creato dopo il vertice dei sette di Parigi nel luglio del 1989. La stima si riferisce al valore monetario delle vendite di eroina, cocaina e hascisc negli Stati Uniti e in Europa nell'anno 1989. E' interessante notare quanto segue: al consumo negli Stati Uniti vengono attribuiti 106 miliardi di dollari, contro 16 in Europa; al consumo di eroina viene attribuito il 10% del totale; poco più dei due terzi del totale (85 miliardi di dollari) verrebbero riciclati.
(b) Citato in "The EC Single Market promises to be a boon for the narcotics trade", The Wall Street Journal Europe, 2 settembre 1992.
(c) United States Department of State, Bureau of International Narcotics Matters, International Narcotics Control Strategy Report, Washington DC, Government Printing Office, Marzo 1991, p. 16. Stranamente, la fonte di questa stima viene attribuita proprio alla FATF.
(d) Louis Kraar, "The Drug Trade", Fortune, 20 giugno 1988.
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Tabella 6: Prezzo medio al dettaglio di un grammo di eroina, cocaina e hascisc in Italia. In lire
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Sostanza Prezzo
Eroina(a) 160.000
Cocaina(b) 185.000
Hascisc 12.000
(a) Un grammo di eroina da strada raramente contiene più di 150 milligrammi di sostanza e corrisponde a tre-quattro dosi singole.
(b) Un grammo di cocaina corrisponde a circa quaranta dosi singole. Cfr. Giancarlo Arnao, Proibizionismo, Antiprobizionsimo e Droghe, Millelire-Stampa Alternativa Editrice, Roma, s.d.
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Fonte: CENSIS-CDS, Contro e Dentro, Milano, Franco Angeli, 1992, pp. 108-9.
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Tabella 7: Formazione del prezzo di cocaina ed eroina. In dollari.
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Prezzo
Eroina (1 kg.)
Al contadino (10 kg. di oppio) 1.000
All'ingrosso 200.000
Al dettaglio 2.000.000
Cocaina (1 kg.)
Al contadino 1.200
All'esportazione (Colombia) 7.000
All'importazione (Miami) 20.000
All'ingrosso (Detroit) 40.000
Al dettaglio 250.000
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Fonti: per l'eroina Jean-François Couvrat, Nicola Pless, La face cachée de l'économie mondiale, citato in Germàn Fonseca, "Economie de la drogue: taille, caractéristiques et impact économique", Revue Tiers Monde, luglio-settembre 1992; per la cocaina Peter Reuter, "Quantity Illusions and Paradoxes of Drug Interdiction into Vice Policy", citato in Morris J. Blachman, Kenneth E. Sharpe, "The War on Drugs", World Policy Journal, inverno 1989-90.
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