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Ponzone Lorenza - 1 gennaio 1993
(5) Il Partito Radicale nella politica italiana: 1962-1989
di Lorenza Ponzone

CAPITOLO II

LE BATTAGLIE PER IL DIVORZIO

SOMMARIO: Il secondo capitolo del volume si divide in tre paragrafi.

1. Tutti uniti nella Lega: sono ripercorse le vicende della campagna divorzista dalla presentazione del disegno di legge Fortuna alla costituzione della Lega Italiana per il Divorzio (LID) alle prime iniziative e battaglie. 2. Dalle manifestazioni di piazza all'approvazione della legge: le battaglie, sopratutto parlamentari, attraverso le quali si pervenne alla approvazione della legge Fortuna-Baslini nel corso della V legislatura. 3. Il referendum. Eravamo soli e disperati, e siamo milioni...: le battaglie divorziste fino alla vittoria nel referendum del 1974, sullo sfondo della situazione politica e degli avvenimenti più importanti (ad es. crisi cilena e guerra del Kippur, ecc.). Particolare attenzione viene prestata alle posizioni via via assunte dal PCI.

(Lorenza Ponzone, IL PARTITO RADICALE NELLA POLITICA ITALIANA, 1962-1989, Schena editore, gennaio 1993)

1. Tutti uniti nella Lega

Il 1· ottobre 1965, il deputato socialista Loris Fortuna presentò una proposta di legge volta ad introdurre, anche se in casi limitati, lo scioglimento del matrimonio (88). Nella presentazione del disegno di legge, Fortuna spiegava la necessità della riforma con la condizione di isolamento in cui era venuto a trovarsi il diritto italiano, in questo istituto, rispetto agli ordinamenti stranieri; e con la considerazione che in quegli anni la media annua degli illegittimi era di circa 22 mila, e la media annuale delle separazioni legali si aggirava fra le novemila e le diecimila (89). Sul fondamento di questo dato i radicali si resero conto che era possibile trasformare quello che per lunghi anni stato un fatto privato in un problema di carattere sociale.

Infatti sommando i seicentomila separati legali con il milione e mezzo circa di separati di fatto, le altre migliaia di persone coinvolte nelle separazioni, come i figli di separati o i conviventi di separati, complessivamente si arrivava a circa un dieci, quindici per cento della popolazione italiana che era in un modo o nell'altro interessata all'aspetto patologico del matrimonio (90). Sicché tutte queste persone avrebbero potuto rappresentare un potenziale di mobilitazione e di consenso piuttosto vasto.

Una tale situazione si presentava perciò come il terreno ideale per la sperimentazione della concezione che i radicali avevano della politica e del partito: fare appello ai diretti interessati alle singole battaglie, individualmente, assicurando loro attraverso il partito o i movimenti organizzati un modo per esprimersi politicamente. Miravano così ad ottenere, collegando un dato personale con una esigenza generale dei cittadini, il massimo impegno da tutti coloro che erano interessati al problema.

Un'intuizione essenziale probabilmente stava alla base della scelta dei diritti civili ed in particolare del divorzio come cavalli di battaglia: i radicali pensavano che, nella società italiana, era avvenuta una secolarizzazione di fatto, cioè che i costumi erano molto più evoluti del diritto vigente. Era stata in parte superata la concezione che le leggi della repubblica italiana dovessero identificarsi con criteri di moralità sociale della Chiesa.

Il problema del divorzio, assurto a motivo di continuo scontro politico per quasi dieci anni fino ad essere causa delle prime elezioni anticipate nella storia del Paese, era anche e soprattutto una questione di sovranità: la pretesa della Chiesa cattolica di esercitare le pienezza della giurisdizione su tutti gli effetti civili del matrimonio concordatario diveniva conflittuale con l'ordinamento giuridico italiano (91). Questa esclusività di giurisdizione derivava, secondo la Chiesa, dall'art. 34 del Concordato del '29, richiamato dell'art. 7 della Costituzione, che, oltre ad impegnare l'Italia a riconoscere effetti civili al matrimonio religioso, così com'è regolato dal diritto canonico, affidava ai tribunali ecclesiastici anche la giurisdizione sulle vicende successive all'atto di matrimonio e quindi sul suo eventuale scioglimento.

In mancanza del divorzio era possibile sciogliere il matrimonio solo mediante l'annullamento pronunciato dai tribunali civili per i matrimoni civili e dai tribunali ecclesiastici per i matrimoni concordatari secondo le regole stabilite dal diritto canonico per la validità del sacramento matrimoniale e con effetti civili. Ma l'annullamento non scioglie un vincolo, lo considera nullo fin dall'inizio, ha effetto retroattivo, ex tunc, nel senso che è come se il matrimonio non fosse mai esistito; con la conseguenza, per esempio, che non vengono salvaguardati i diritti dei figli, né sono previsti alimenti per il coniuge più debole (92). Tutto questo, unito alla circostanza della esosità dei costi delle cause rotali, determinava l'evidente lesione dei diritti delle parti sociali più deboli.

Dunque la complessità dei processi matrimoniali creava un evidente stato di sofferenza nelle persone che vi incappavano, per cui la battaglia per l'introduzione del divorzio nel diritto italiano non era una manifestazione di principi anticlericali, ma il riconoscimento di un diritto.

L'idea vincente dei radicali è proprio quella di sfruttare questo collegamento fra le motivazioni personali e la politica, e riportare l'attenzione dei partiti verso i problemi strettamente individuali che, specialmente da parte delle forze marxiste, venivano solitamente messi da parte per motivi ideologici.

Per la filosofia radicale la politica è principalmente il mezzo per risolvere il problema della felicità dell'individuo, il raggiungimento della quale non sta solo nella soluzione di problemi economici, ma soprattutto nella difesa della libertà del singolo e nella conquista di diritti civili ed umani (93). Erano contrari, quindi, ad idee solidaristiche od a etiche del sacrificio di tipo cattolico o comunista e consideravano la collettività come un insieme di persone autonome e non come un qualcosa che trascende l'individuo, e si situa al di sopra di esso (94). E' dunque un uso nuovo della politica, come mezzo di liberazione di categorie di emarginati da forme di oppressione sociale, che sono anche più insopportabili di quelle economiche perché coartano le libertà del cittadino come uomo. Ecco perché è prevalente nel partito radicale la tendenza movimentista, soprattutto a cavallo degli anni Settanta. Si fa del partito il momento in cui si esprime la vita personale di ciascun militante.

Il traît d'union di tutte le situazioni personali è un progetto generale di cambiamento della società, che si attua attraverso una nuova gestione della cosa pubblica: è il fine ultimo della introduzione delle lotte per i diritti civili la ricomposizione, attraverso un movimento dal basso, spontaneo, dell'unità delle sinistre, e, in ultima analisi, la candidatura delle sinistre stesse a forza di governo. Un modo, quindi, per sbloccare la situazione di stallo perpetuatasi in Italia, il regime fondato sulla D.C., con il conseguente congelamento della Costituzione, l'appiattimento dei contrasti politici che sono, secondo i radicali salutari per una vera democrazia, la riduzione del Parlamento ad una camera corporativa di contrattazione, di reciproche concessioni tra maggioranza ed opposizione. Pertanto, il divorzio non era un problema isolato, ma si inquadrava in un complesso progetto di rinnovamento e laicizzazione dello stato italiano.

Dopo la presentazione del progetto di legge Fortuna, furono i radicali a suggerire di organizzare un sostegno da parte dell'opinione pubblica, unico modo per evitare l'insabbiamento della questione. Furono indubbiamente favoriti dal fatto che il settimanale popolare "ABC" appoggiò subito l'iniziativa, assicurando così una vasta eco tra il pubblico, proprio lo scopo che i radicali si proponevano. Il primo passo verso la vera e propria organizzazione della battaglia fu compiuto nel dibattito promosso a Roma il 12 dicembre 1965 dalla sezione romana del partito radicale. Il convegno fu presieduto da Massimo Teodori, e vi parteciparono Mauro Mellini, come relatore radicale, Luciana Castellina per il P.C.I., il cattolico Migliori e Loris Fortuna (95).

Qui fu abbozzata l'idea, nuova per il panorama politico italiano, della costituzione tra i divorzisti di una associazione autonoma dai partiti, sullo stile delle leghe o dei gruppi di pressione anglo-sassoni. Mauro Mellini, nella sua relazione al convegno, delineava la struttura e la tattica del movimento: »un'azione divorzista autonoma, vivace, organizzata, politicamente bene orientata, diretta a far lievitare nella massa sentimenti e convinzioni ormai diffusi, ad incanalare energie, a coordinare gli sforzi di quanti si battono per il divorzio, a stimolare e confortare l'azione delle forze politiche decise a sostenere la causa divorzista, è oggi possibile e si profila efficace (96).

Nel gennaio 1966 lo stesso Mauro Mellini, insieme al segretario del P.R. Marco Pannella annunciarono la costituzione della Lega Italiana per l'introduzione del divorzio. La struttura della Lega era disegnata come centro di coordinamento delle attività svolte in tutto il Paese, un organismo aperto ed informale, la cui novità principale stava nel fatto che i componenti della direzione nazionale, pur provenienti da partiti diversi, ne facevano parte a titolo personale e non come delegati della forza politica di appartenenza. Questa condizione era stata apposta per liberare la Lega da contrattazioni interpartitiche e da compromessi. In posizione preminente, nel comitato promotore, c'erano Loris Fortuna, i magistrati Mario Berutti e Salvatore Gianlombardo, i parlamentari Lucio Luzzatto del P.S.I.U.P, Giuseppe Perrone-Capano del P.L.I., Giuseppe Averardi del P.S.D.I., lo scienziato Adriano Buzzati-Traverso, il giurista Alessandro Galante-Garrone (97).

La Lega, per riuscire nei suoi intenti, da una parte usò strumenti volti ad assicurare l'informazione sulle proprie attività e ad ampliare le adesioni, dall'altra si valse di pressioni dirette sui singoli parlamentari affinché si prodigassero per accelerare l'iter parlamentare della legge sul divorzio (98).

Allo scopo furono diffusi alcuni fogli, senza periodicità fissa, fino ad una tiratura di cento cinquanta mila copie: "Battaglia divorzista" (99), organo ufficiale della Lega, che iniziò le pubblicazioni del novembre 1966, "Il divorzio" e "Notizie LID". I fogli venivano inviati servendosi di un indirizzario raccolto nel corso della manifestazioni promosse dalla Lega.

La LID nazionale organizzò poi alcune manifestazioni di massa con i rappresentanti dei partiti laici, riuscendo a raccogliere alcune migliaia di partecipanti: nel novembre 1966 si riunirono 15 mila persone a Piazza del Popolo a Roma, e, sempre nella capitale, nel febbraio 1967 due mila persone al Teatro Adriano, ed ottomila, nel settembre 1969, a Piazza Navona (100).

I gruppi locali della Lega, costituitisi spontaneamente in varie città d'Italia, promossero molti comizi, tavole rotonde, dibattiti sul divorzio: duecento nel giro di tre anni (1966-1969).

Per quanto riguarda le pressioni sul Parlamento, la LID su iniziativa più che altro di militanti radicali, sperimentò per la prima volta su larga scala vari tipi di "azioni dirette".

La prima fu organizzata dal settimanale "ABC", nel periodo ottobre 1965-marzo 1966, e consisteva nell'invito ai lettori a far pervenire all'on. Fortuna cartoline di adesione al progetto di legge per il divorzio: furono inviate circa 32 mila cartoline e 4 mila lettere (101). Questo metodo fu adottato, in seguito, molte altre volte, durante la campagna divorzista, sollecitando i cittadini ad inviare lettere, telegrammi, cartoline ai parlamentari firmatari del disegno di legge, ogni volta che si verificava un impasse nel procedimento legislativo. Inoltre, i radicali, in particolare Marco Pannella e Mauro Mellini, studiarono a fondo le procedure parlamentari (102), allo scopo di suggerire ai deputati interessati come affrettare la discussione del progetto di legge.

E' intuibile che, alla base di questa nuova metodologia di intervento diretto nel processo politico, stava la concezione dei radicali dell'essenzialità del parlamento nella lotta politica: le decisioni si prendono all'interno delle istituzioni, quindi sono inutili e velleitarie le semplici manifestazioni di piazza che non abbiano come obiettivo diretto la sollecitazione delle istituzioni a svolgere il proprio ruolo. Le lettere erano rivolte ai singoli parlamentari e non ai vertici dei partiti, evidentemente per evitare i compromessi fra maggioranza ed opposizione nell'approvazione delle leggi, facendo appello alle convinzioni individuali e non all'appartenenza partitica. Altri metodi di pressione escogitati dal partito radicale furono i digiuni: il primo sciopero della fame contro l'ostruzionismo della Democrazia cristiana nei confronti del progetto Fortuna fu effettuato da Pannella e Roberto Cicciomessere, all'epoca rispettivamente tesoriere e segretario del P.R., nel novembre 1970 (103). Contemporaneamente

ai digiuni, furono organizzate proteste contro la RAI, riuscendo così ad imporre, nel settembre 1970, cinque dibattiti sul divorzio, con la partecipazione anche di personalità non parlamentari.

Venne scelto anche uno strumento più tradizionale: nel 1967 fu indirizzata una petizione popolare sottoscritta, da centomila cittadini, alla Presidenza della Camera dei Deputati, con la richiesta che il Parlamento si pronunciasse quanto prima sulla proposta di legge Fortuna (104).

La Lega nazionale, forte di ventimila quote di iscrizioni raccolte in tre anni, senza una vera e propria campagna di tesseramento organizzò in una struttura centrale, con la costituzione di una presidenza collegiale, una segreteria egualmente collegiale ed un consiglio direttivo nazionale, eletti dal congresso.

Si è accennato prima che circa un terzo dei militanti nella Lega e degli eletti negli organi direttivi della organizzazione erano iscritti o simpatizzanti radicali, e che le iniziative più importanti furono organizzate da Mauro Mellini, il quale faceva parte della presidenza della LID, e da Marco Pannella, membro della segreteria della medesima. Si può affermare con sicurezza che fino alla approvazione della legge sul divorzio e poi durante la campagna per il referendum il partito radicale si travasò quasi completamente nella LID, il che diede una grande spinta alla lotta, anche se probabilmente tolse energie al partito che fino al 1972 non superò i mille iscritti. La partecipazione si rivelò assai utile per la sperimentazione dei metodi di azione extraparlamentare e per far emergere i radicali sulla scena nazionale. Resta, però, da verificare se fu raggiunto l'obiettivo politico che i radicali si proponevano, al di là del risultato immediato dell'introduzione del divorzio, e cioè se si fecero passi avanti v

erso l'unità ed il rinnovamento della sinistra italiana per l'alternativa di governo, alla D.C. ed ai suoi alleati di sempre.

2. Dalle manifestazioni di piazza all'approvazione della legge

Un quadro piuttosto sconfortante si presentò innanzi ai membri della LID in quei primi mesi dell'anno 1966, quando il progetto di legge iniziò il suo cammino in Parlamento. Nessuna forza politica era disposta veramente a giocare le proprie strategie per sostenere il progetto fino in fondo ed a qualsiasi costo. Ed in effetti la Lega era politicamente isolata, gli stessi partiti di sinistra si mostravano esitanti, timorosi di rompere i contatti col mondo cattolico. A cominciare dal P.C.I., contro il quale i radicali condussero una dura polemica, che mantenne in quei mesi una posizione politica piuttosto prudente e attenta alle esigenze delle masse popolari cattoliche (105), in linea con il disegno politico togliattiano, che mirava all'incontro fra le masse comuniste e cattoliche "per un programma di rigenerazione economica, politica e sociale". E conseguentemente era meglio per il P.C.I. non sollevare una questione come quella del divorzio, che sarebbe sicuramente sfociata in un conflitto con la Chiesa.

In un siffatto contesto politico, praticamente senza sbocchi, bisognava inventare una soluzione nuova che consentisse ai partiti di sinistra di prendere posizione a favore del divorzio, senza (almeno per il momento) implicare modifiche agli schieramenti politici e soprattutto - scelte di natura ideologica. Il divorzio venne così presentato dalla LID come una legge necessaria per risolvere situazioni insostenibili sul piano umano, prescindendo quindi dalle strategie che le singole forze politiche si proponevano di perseguire. Questa scelta laicizzante, di superare le contrapposizioni meramente ideologiche nella lotta politica, fu portata avanti dai militanti radicali della LID: era la sperimentazione pratica della politica per temi attorno alla quale, come abbiamo visto, avevano organizzato il partito.

Il rapido successo della LID, intorno alla quale si formò un vasto movimento di opinione, fu dovuto alla larga libertà di manovra consentita, appunto, dalla dichiarata indipendenza dalle logiche partitiche o di classe o comunque da interessi di bottega.

Nei primi tre anni la lotta per il divorzio ebbe come teatro quasi esclusivamente le piazze, dove avevano luogo le manifestazioni che la LID promuoveva per richiamare l'interesse dei "fuorilegge del matrimonio". Nello stesso filone di popolarizzazione e pubblicizzazione della proposta di legge sul divorzio si possono inserire le pubblicazioni di carattere didascalico scritte da Mauro Mellini. Insieme a veri e propri consigli pratici, per ottenere facilmente e senza spendere molto l'annullamento del matrimonio della Sacra Rota si divulgano, con chiarezza ed in modo ironico i casi trattati dai tribunali ecclesiastici in tema di matrimonio (106).

E' stato calcolato che circa 200 mila cittadini abbiano partecipato nel corso dei primi tre anni della campagna alle manifestazioni organizzate dalla LID: tutte persone di estrazione sociale diversa, dal che si desume l'interesse generale per la battaglia. Tuttavia, nella quarta legislatura (1963-68), non si riuscì a far passare la legge.

L'opposizione della Democrazia cristiana fu dura ed intransigente nella difesa compatta dell'indissolubilità del matrimonio, sì da portare i parlamentari scudo-crociati a servirsi di ogni cavillo procedurale per rallentare ed impedire l'esame del progetto di legge (107).

L'atteggiamento dei partiti laici e di sinistra non è altrettanto univoco e coerente nella difesa della legge, almeno inizialmente. Era diffuso il timore che una tale riforma potesse, per i due maggiori partiti di sinistra, pregiudicare il contatto con le masse, specialmente d'ispirazione cattolica. Il partito socialista, poi, aveva la preoccupazione di non interrompere il rapporto di governo con la D.C. Fra i laici, anche il P.R.I. era cauto poiché non voleva aprire un confronto con i tradizionali alleati democristiani, mentre il P.L.I. di Malagodi era diviso al suo interno.

Il disegno di legge, presentato da Loris Fortuna il 1· ottobre 1965, venne assegnato alla Commissione Giustizia della Camera, in sede referente il 5 maggio 1966 (108). Ne venne iniziato l'esame solamente, il 15 settembre. I deputati democristiani sollevarono immediatamente una pregiudiziale di incostituzionalità, (109) bloccando così l'iter della legge, che venne trasmessa alla Commissione Affari Costituzionali per il parere. Vi restò fino al 19 gennaio 1967, quando la Commissione diede parere favorevole. La Commissione Giustizia iniziò la discussione il 16 giugno 1967 e il 21 settembre si votò la chiusura della discussione delle linee generali e il passaggio all'esame dei singoli articoli. La discussione sui singoli articoli non fu facile, per cui la Commissione dovette dividere in due distinti articoli, uno per lo scioglimento del matrimonio civile e l'altro per quello del matrimonio concordatario (l'art. 1 del progetto Fortuna, che introduceva il principio generale della dissolubilità del matrimonio).

Dopo l'approvazione dei primi due articoli (il 16 novembre 1967 e il 10 gennaio 1968) si passò ad esaminare quello riguardante i motivi di divorzio, sui quali sorsero nuovi dissensi fra i membri della Commissione, anche fra quelli di parte laica. Infine il 25 gennaio venne approvato l'articolo con alcuni emendamenti restrittivi rispetto alla proposta originaria.

La scadenza delle elezioni politiche, che si terranno il 19 maggio 1968, impedì l'ulteriore prosecuzione dell'iter del progetto.

Già dal dicembre 1967, comunque, era chiara ai divorzisti l'impossibilità, data la ristrettezza dei tempi, di varare la legge entro la IV legislatura; era quindi necessario porsi l'obiettivo di garantirne l'approvazione entro la legislatura seguente.

Durante il I Congresso della LID (Roma, 9-10 dicembre 1967), venne considerata l'ipotesi di proporre all'elettorato liste divorziste, visto che i parlamentari si erano impegnati piuttosto controvoglia, costretti a farlo dalla mobilitazione dell'opinione pubblica. Al congresso comunque prevalse il suggerimento di Marco Pannella di non presentare liste proprie e invece di appoggiare i candidati che si dichiarassero pubblicamente pronti a ripresentare il progetto Fortuna il primo giorno utile della quinta Legislatura. In realtà, durante la campagna elettorale, nessuno si compromise troppo con il divorzio, per cui il partito radicale diede indicazioni ai propri simpatizzanti di votare scheda bianca come protesta.

Le elezioni politiche del 19 maggio 1968 premiarono la D.C. ed il P.C.I. con un leggero aumento di consensi e segnarono una pesante sconfitta del P.S. Unificato che ottenne il 14,5% perdendo quasi un quarto dell'elettorato che aveva votato per PSI e PSDI separatamente alle elezioni del 1963 (19,9% PSI + PSDI nel 1963), ma Loris Fortuna ripresentò la proposta di legge il 4 giugno 1968 riuscendo a far confluire le firme di oltre sessanta deputati socialisti, comunisti, del PSIUP e repubblicani, sempre con la mediazione della LID (110).

La Lega, nella quinta Legislatura, coordinò due spinte parallele: una di tipo parlamentare e per così dire istituzionale, e l'altra esterna al parlamento e popolare. Con il primo tipo di azione si cercò di superare diffidenze ed ostilità fra i vari partiti, per costruire un fronte laico, anche se un po' tentennante. Le azioni popolari servivano invece a confutare l'accusa che il progetto di legge Fortuna fosse una legge borghese, ed a mantenere vivo il controllo dell'opinione pubblica sull'operato dei partiti.

La situazione in Parlamento dopo le elezioni non sembrava ai radicali molto favorevole per la perdita, a causa della sconfitta del Partito Socialista Unificato, di alcune posizioni che si erano rivelate determinanti per i primi successi divorzisti. La presidenza della Commissione Affari Costituzionali era stata affidata all'on. Bucciarelli Ducci, democristiano, mentre nella legislatura precedente era presidente un socialista.

I liberali, poi, proposero, a firma dell'onorevole Baslini, in quel periodo presidente della LID, un proprio progetto di legge assai restrittivo rispetto al progetto Fortuna.

Per protesta contro tale atto, Marco Pannella, membro della segreteria della Lega, si dimise dalla carica, sperando di poter ottenere un dietro-front dei liberali. In effetti questi accettarono il testo Fortuna, integrato però dagli emendamenti Baslini. E successivamente la discussione in sede referente nella Commissione Giustizia procedette rapidamente così come quella nella Commissione Affari Costituzionali in sede consultiva.

All'inizio di giugno il progetto Fortuna-Baslini arrivò in Assemblea. Il dibattito subì vari rinvii per gli interventi ostruzionistici dei parlamentari democristiani. Si arrivò, così, al 10 novembre 1969 senza aver concluso nulla, per cui la LID decise di riprendere in mano la situazione, con un'iniziativa di Marco Pannella, il quale, insieme a Roberto Cicciomessere (segretario del PR) iniziò uno sciopero della fame davanti a Montecitorio, ottenendo l'impegno della D.C. ad una votazione entro la fine del mese. Infatti il 29 novembre la legge Fortuna venne approvata dalla Camera dei Deputati con 325 voti favorevoli e 283 contrari.

La proposta di legge passò poi al Senato, dove, però la maggioranza divorzista (P.S.I., P.C.I., P.R.I., P.L.I.) era risicata, e quindi bastava una assenza per creare intralci e ritardi non previsti nella discussione. Oltretutto il quadro politico del momento era del tutto particolare, essendosi ad un punto di svolta nella storia politica del nostro Paese. Dopo il '68, la forza delle cose quasi costrinse le sinistre ad abbandonare i tatticismi e le prudenze legate ai problemi di schieramento e questo nuovo clima influì positivamente sulla battaglia che la LID sembrava combattere con scarse speranze di vittoria.

A tutti gli osservatori, alla vigilia della sua approvazione, la legge sul divorzio sembrava un miraggio. La vita dei partiti di sinistra (i più interessati) stava attraversando un momento critico, in scissioni, rivalità, polemiche e vere e proprie crisi di identità. Il P.S. Unificato si era scisso, dopo la sconfitta elettorale del '68; il partito comunista, dopo i fatti di Praga, aveva per la prima volta difeso i riformatori contro l'intervento militare della Russia brezneviana. A tutto questo fermento si aggiunse quella che sarà chiamata la strategia della tensione e cioè i primi fatti di terrorismo. In questo tragico contesto la LID, con i suoi sistemi di lotta di piazza, aveva di fronte a sé qualche problema in più, in un momento in cui lo scatenamento della base avveniva in forme clamorose e drammatiche.

La legge costituiva, certo, uno scoglio sulla strada della formazione delle varie alleanze di governo in quel periodo. E le crisi ministeriali a ripetizione, che caratterizzano il panorama politico del 1970, resero assai cauti ed esitanti i partiti laici.

Le sorti della legge Fortuna furono decise con un compromesso, nel marzo del 1970, dopo una lunga crisi di governo; fu un elegante baratto tra le forze di ispirazione cattolica ed i partiti e movimenti divorzisti: i partiti laici si impegnavano nella preventiva approvazione della legge di attuazione del referendum abrogativo, istituto previsto dall'art. 75 della Costituzione e non ancora attivato, con il fine di sottoporre alla volontà popolare l'approvanda legge. In cambio la D.C. consentiva il proseguimento dell'iter legislativo della legge al Senato. Ma l'accordo non spianò subito la strada all'approvazione del divorzio, perché i partiti di sinistra temevano di approfondire troppo la frattura col mondo cattolico e quindi con la Democrazia cristiana. La LID, intanto, si sforzava di mantenere la proposta di legge fuori dagli "oscuri mercanteggiamenti del potere", organizzando manifestazioni ed inventando un comitato di garanti perché si arrivasse alla votazione della legge al Senato entro il 9 ottobre 1970.

Un colpo di scena sembrò mettere a repentaglio la proposta al momento della votazione: per un solo voto non venne accolta una mozione democristiana che chiedeva il rigetto in blocco della proposta di legge. Appariva chiaro a tutti che nel fronte divorzista operavano dei franchi tiratori. L'esito della vicenda sembrava, paradossalmente, affidato ad un improbabile cedimento della Democrazia cristiana; si ricorse alla mediazione del senatore Giovanni Leone, il quale fece accettare ai laici alcuni emendamenti restrittivi.

Un deciso colpo di acceleratore alle trattative venne dalle dimissioni di Pannella e di Mellini dalla dirigenza della LID per protesta contro i compromessi che avrebbero potuto snaturare lo spirito delle legge (111).

Il 9 ottobre 1970 il Senato approvò il divorzio, che divenne legge dello Stato con l'approvazione dell'altro ramo del Parlamento, in seconda lettura, il primo dicembre 1970. I radicali dimostravano come la forza ideale di una minoranza, ricorrendo a metodi politici non propri della tradizione italiana, era riuscita ad imporre l'approvazione di una legge già maturata nella coscienza civile del Paese.

Ma il risultato più rimarchevole, al di là della riuscita tecnica dell'esperimento, fu di carattere essenzialmente politico: i nuovi radicali, per la prima volta nella breve storia del loro raggruppamento, erano riusciti a coagulare forze che, pur avendo una matrice comune o molto affine, erano ormai da decenni in insanabile contrapposizione. Tuttavia il faticato risultato politico ottenuto lottando per l'introduzione del divorzio, un fronte unico delle forze progressiste, era un'illusione. E non poteva non essere così, se si consideravano i compromessi, i patteggiamenti, non ancora del tutto chiari all'indagine storica, sulle cui premesse nacque la legge sul divorzio. In definitiva, gli schieramenti e le prese di posizione pro e contro della sinistra, non furono mai schiette e precise: sull'equivoco non si poteva costruire certamente una politica laica, per il cui conseguimento occorre essere davvero liberi e senza riserve per le scelte future. Pertanto i radicali ritennero che una esperienza come quella de

l divorzio, nata dall'iniziativa di un solo parlamentare e da un movimento anomalo come quello della LID, non era ripetibile, per le condizioni sociali, e per le condizioni politiche che l'avevano resa possibile (112).

Giustamente, i radicali si convinsero che i partiti parlamentari non si sarebbero lasciati di nuovo prendere di sorpresa facendosi imporre un tema di lotta politica che non rientrava nei loro obiettivi e nei loro interessi di potere.

Tuttavia i radicali, dalla vicenda del divorzio ricavarono la conferma della possibilità di successo della politica dei contenuti. Perciò decisero di adottare negli anni successivi un nuovo strumento di lotta politica, il referendum, l'unico mezzo per poter influire ed incidere in maniera significativa sull'equilibrio politico: esso avrebbe potuto consentire di ottenere il consenso dei cittadini sui contenuti di una specifica iniziativa politica piuttosto che sulla rottura con il partito di tradizionale appartenenza.

3. Il referendum: eravamo soli e disperati, e siamo milioni...

La tensione che aveva tenuto insieme il fronte laico stava per venir meno: i radicali, subito avvertiti, denunciarono pubblicamente la cosa (113). Lo scollamento era già presente, secondo i radicali, nelle dichiarazioni di voto espresse dai partiti laici e di sinistra, al momento del rush finale della legge sul divorzio. Non era difficile leggere nelle posizioni dei rappresentanti delle forze divorziste quella paura di vincere che, per i radicali, era il motivo principale delle sconfitte nei confronti della Democrazia cristiana (114).

Intanto i gruppi antidivorzisti non si erano rassegnati e cominciarono a muoversi per far abrogare la legge appena approvata: un comitato che faceva capo al professore di diritto romano Gabrio Lombardi depositò la richiesta di referendum ai primi di gennaio 1971. Di fronte al movimento abrogazionista i radicali e la LID reagirono prontamente e con fermezza. In un primo momento sostennero l'incostituzionalità della richiesta di referendum affermando che non era legittimo rimettere ad un giudizio di maggioranza un diritto inalienabile della persona umana. In un secondo tempo, invece, come vedremo in seguito, i radicali cambiarono strategia, accettando il referendum, per impedire compromessi che snaturassero la legge Fortuna-Baslini (115).

Le obiezioni di carattere costituzionale che i radicali eccepirono contro la proposta di referendum trovarono un'eco assai tiepida tra i parlamentari che avevano appena votato la legge. Allora la LID ed i radicali ricorsero ai sistemi diretti, e si mossero contro chi sembrava tenere i fili del gruppo referendario, cioè le gerarchie ecclesiastiche. Pannella e Mellini cominciarono col denunciare alla magistratura alcuni vescovi, per l'opera da loro prestata in appoggio al movimento per l'abrogazione del divorzio: l'intervento delle gerarchie era ritenuto, dai radicali, penalmente rilevante e quindi perseguibile.

L'iniziativa, in un momento storico di conformismo almeno tattico verso le gerarchie ecclesiastiche, suscitò le reazioni dell'opinione liberale, la quale era contraria a far ricorso al codice Rocco, ritenuto liberticida, per ottenere la fine dell'ingerenza della Chiesa negli affari dello stato italiano. Ma l'intento dei radicali non era quello di far incriminare le gerarchie, quanto quello di smuovere l'opinione pubblica progressista a difesa del divorzio. Anche se non ottennero vasti consensi, queste prese di posizione anticlericali servirono ad interessare i giornali e quindi a drammatizzare la situazione. Perciò mobilitarono i movimenti di base: i militanti locali della LID controllarono in modo capillare la regolarità della raccolta delle firme per il referendum, e denunciarono i ricatti subiti dai firmatari nelle chiese, negli ospedali, nelle scuole private, nei monasteri. Ma questi dossier non portarono a nulla.

Il contesto politico in cui i radicali operarono dopo l'approvazione della legge sul divorzio era ancora più complesso di quello precedente. Le sinistre stavano attraversando un momento critico: una fase di transizione dal vetero-massimalismo anche verbale, sulla scia del confronto con i movimenti socialdemocratici europei e dei prodromi della crisi del socialismo reale. Il partito comunista, dopo la condanna dell'intervento sovietico a Praga, si stava orientando più concretamente verso la collaborazione con la Democrazia cristiana, seguendo una linea di opposizione morbida nei confronti del governo.

Il P.S.I. non riusciva a trovare una nuova strategia, incerto tra la partecipazione al governo con la D.C. e la ricerca di "equilibri più avanzati", in vista dell'alternativa. In quella situazione critica, tutte le forze politiche cercarono di disinnescare quella mina vagante che era il divorzio, che certamente costituiva un motivo di tensione e rischiava, quindi, di turbare i precari equilibri esistenti nei rapporti interni ed esterni dei partiti. Ecco perché, nei due anni seguenti all'introduzione del divorzio, si cercherà, in ogni modo, un compromesso con la Democrazia cristiana al fine di evitare lo scontro sul referendum abrogativo, che avrebbe costretto ad operare precise scelte di campo, in cui i partiti minori temevano di essere schiacciati tra due schieramenti. Si aggiunga che era diffusa la convinzione che nel Paese non esistesse una maggioranza divorzista.

A questo punto i radicali e la LID, timorosi che le alchimie politiche, frutto di compromessi, avrebbero potuto portare ad una modifica, per così dire, indolore della legge Fortuna, cessarono di opporsi al referendum e si impegnarono anche a costo di un responso popolare a difendere l'integrità della legge. Si mossero lungo una linea politica più ampia, inserendo il divorzio nelle tematiche tradizionalmente laiche, come la richiesta di denuncia del Concordato.

In attuazione di questa politica tesa al ribaltamento dei rapporti tra Chiesa e Stato convocarono, contemporaneamente al nono congresso nazionale del partito il 14 febbraio 1971, una assemblea nazionale anti concordataria, durante la quale venne fondata la LIAC (Lega italiana per l'abrogazione del concordato), con la partecipazione dei membri più autorevoli della LID (116). I parlamentari che aderirono alla LIAC presentarono mozioni ed interpellanze volte a suscitare un dibattito sul Concordato.

Queste iniziative si inserirono nel discorso ormai avviato nei partiti di sinistra sulla revisione degli accordi siglati dal fascismo con la Chiesa. Da parte loro anche i radicali affiancarono, anzi potenziarono il lavoro della LIAC e inviarono a tutti i parlamentari laici della Camera dei deputati un documento redatto dalla giunta esecutiva del partito, in cui si specificava e si chiariva la posizione dei radicali sulla questione Stato-Chiesa (117).

Il documento radicale si presentava molto articolato e si diffondeva su tutta la gamma dei rapporti che nascevano dal Concordato, dalla famiglia alla scuola e all'assistenza. Questi interessi di "potere clericale" davano vita ad un immenso patrimonio che, di fatto, era più esteso e potente di quello pubblico, e poteva vivere e prosperare in una specie di zona franca, grazie appunto al Concordato. I radicali andavano al concreto e facevano riferimento alle migliaia di miliardi ogni anno trasferiti dalle casse dello Stato, con pretesti che qualche volta sconfinavano nell'illegalità, nelle casse dei gestori di strutture economiche clericali, per l'assistenza, per la scuola materna, per l'attività del tempo libero, il tutto sottratto ad ogni controllo, anche fiscale. Dunque non solo trasferimento delle competenze dello Stato ad un'altra "sovranità" ma passaggio di enormi risorse finanziarie. Da un siffatto antagonismo il partito radicale era convinto che dovesse nascere quello scontro storico tra forze opposte c

he si andava maturando da molti decenni nel nostro paese. Di qui il rifiuto intransigente dei radicali nei confronti di ogni tentativo di revisione del Concordato, perché, per loro, soltanto l'abrogazione dei patti Lateranensi avrebbe evitato i compromessi. Lo scambio tra revisione del Concordato e divorzio offriva alla proposta di referendum la forza del ricatto: una posizione inaccettabile per i radicali i quali, in definitiva, esigevano l'allineamento della "situazione italiana a quello di ogni altro paese civile, democratico e moderno, senza contrapposizioni religiose" (118).

In coerenza con quanto propugnato nei documenti e nei vari convegni, gli organi direttivi della LID in una riunione del 18 maggio 1971 si fecero promotori di alcuni provvedimenti legislativi al fine di assicurare i pieni diritti civili anche ai religiosi, e nello stesso tempo, per punire i ministri di culto che interferivano nella lotta politica abusando del proprio ministero, coartando la coscienza dei credenti. Sempre nella stessa occasione, la LID suggeriva ai propri iscritti l'astensione dal voto per le elezioni amministrative del successivo 13 giugno, ricalcando la decisione già presa dal partito radicale (119).

Intanto andava avanti quel processo verso il compromesso tra le forze divorziste e cattoliche, processo che i radicali ritenevano una sorta di congiura segreta contro il divorzio, per evitare il referendum, un prezzo inaccettabile per l'opinione laica.

Le trattative, pilotate dal P.C.I., stavano diventando più urgenti perché i comunisti volevano inserirsi nella maggioranza; e per raggiungere tale obiettivo erano disposti a pagare il pedaggio al mondo cattolico costituito dal cedimento sul divorzio. In questa ottica si deve vedere il progetto presentato dalla senatrice Carettoni (sinistra indip.) nel dicembre 1971, concordato tra tutti i partiti laici, che rendeva il procedimento per ottenere il divorzio più macchinoso, difficile e soggetto ad espedienti dilatori, come quello che prevedeva l'allungamento dei tempi processuali in caso di opposizione da parte del coniuge cattolico. La proposta non andò avanti perché la D.C. non la accettò: essa avrebbe accettato, pur controvoglia, il compromesso proposto dal P.C.I. solo per i matrimoni civili. A quel punto la soluzione più conveniente per tutti i partiti interessati era lo scioglimento delle Camere e la indizione delle elezioni anticipate, che avrebbero consentito il rinvio del referendum di un anno.

I radicali criticarono la decisione (120) avvertendo che col rinvio del referendum si perdeva la possibilità di un confronto che avrebbe portato su posizioni laiche una parte dell'elettorato cattolico, unica occasione che il particolare momento politico offriva per rimontare la spinta a destra. Ed argomentavano che, dopo le elezioni, sarebbe stato più difficile isolare il problema del divorzio dal contesto più generale della crisi delle istituzioni, con la conseguenza che la vittoria del referendum sarebbe stata più difficile. Poste tali premesse, i radicali e la LID si pronunciarono per l'astensione dal voto: aprirono una vera e propria campagna contro quelle che chiamarono elezioni "truffaldine". La campagna elettorale fu particolarmente accanita specie da parte delle masse cattoliche e quindi della D.C. che voleva recuperare voti alla sua destra per allargare anche il fronte antidivorzista. La D.C. temeva un forte arretramento, così come era avvenuto nelle ultime amministrative: lo stesso timore aveva il

P.C.I. a causa della concorrenza del gruppo del Manifesto, alla sua sinistra. Ma i risultati non furono tanto sconvolgenti rispetto alle previsioni. Il P.C.I. ebbe un leggero aumento, la D.C. tenne le posizioni, il P.S.I.U.P. scomparve come forza parlamentare, il gruppo del Manifesto non ottenne alcun quorum. Il M.S.I. ebbe un aumento inferiore alle aspettative.

Il governo Andreotti a maggioranza centrista, che nacque dopo le elezioni, avrebbe dovuto indire il referendum per la primavera successiva. Senonché il governo, confortato dal parere favorevole del Consiglio di Stato (richiesto il 30 gennaio 1973 e emanato il 24 febbraio) riuscì, con un cavillo giuridico, a far slittare il referendum di un altro anno, cioè al 1974, un rinvio utile al fine di cercare un compromesso. Le prese di posizioni sul divorzio delle diverse forze politiche erano fortemente condizionate da una situazione politica instabile, anche a causa di due avvenimenti internazionali, che caratterizzarono il 1973: il golpe in Cile e la guerra arabo-israeliana del Kippur con la conseguente crisi petrolifera.

Soprattutto il P.C.I. trasse conseguenze importanti da questi avvenimenti. Berlinguer annunciò proprio all'indomani della crisi cilena la tesi del "compromesso storico": la proposta di un accordo D.C.-P.C.I. per evitare uno sbocco a destra, come era avvenuto in Cile, della crisi economica e sociale italiana.

Impostata questa svolta politica, il P.C.I. naturalmente mostrava una maggiore disponibilità, rispetto anche al passato prossimo, ad accordarsi con la D.C. sul referendum.

I radicali scelsero, a questo punto, di battersi perché il referendum, che prima avevano osteggiato e poi accettato, si effettuasse il più presto possibile, perché questo strumento di democrazia diretta era l'unico mezzo per difendere una volta per tutte la legge Fortuna. La scelta radicale non era contingente, cioè limitata alla questione del divorzio, ma si inseriva in una nuova strategia politica del partito che in quel periodo lancia una campagna per la raccolta delle firme per otto referendum: si attuava così la metodologia radicale di usare nella lotta politica nuovi strumenti.

»Il modo in cui rischiamo di essere battuti nella battaglia del referendum è quello di non riuscire a combatterlo , così si esprimeva la "Prova radicale" a proposito di quanti sostenevano che il referendum sarebbe stato una guerra di religione, un salto nel "buio" (121).

L'offerta comunista non trovò una risposta concorde nel mondo cattolico: mentre una parte tentennava ed era sul punto di accettare, quella più sicura di sé e più ideologizzata era per lo scontro aperto e definitivo, in quanto si pensava che il fronte laico fosse diviso, debole e rappresentasse una minoranza vivace, ma sempre una minoranza. L'intransigenza democristiana, impersonata dal senatore Amintore Fanfani, tornato alla segreteria della D.C. dopo il Congresso del giugno 1973, portò al referendum, che fu indetto per il 12 maggio 1974.

Nella campagna elettorale per il referendum si poterono cogliere le differenze di impostazione tra le varie componenti del fronte divorzista. Il partito comunista, quello che poteva mobilitare le masse, cominciò la campagna elettorale tiepidamente; sembrava privo di ogni spinta ideale, si impegnò solo verso la fine, salvaguardando sempre la sua strategia di avvicinamento ai cattolici. Non si parlava di divorzio, che era il tema del referendum, ma si trasformò il si o il no sul divorzio in una campagna contro la Democrazia cristiana, perché si era alleata con i fascisti. L'atteggiamento comunista era determinato dal timore di creare conflitti con le gerarchie cattoliche. I radicali colsero con prontezza il pericolo insito nel modo di condurre la battaglia referendaria dei comunisti. Pannella osservava in un editoriale su "Liberazione" che, appunto, la battaglia portata avanti così rischiava di perdere la sua specificità, quella per cui molti milioni di elettori, per la prima volta, sembravano disposti a votar

e contro la D.C., per la quale, invece, continuavano a pronunciarsi su altri temi, ed alle elezioni politiche (122). I radicali avevano colto le possibilità offerte da una consultazione diretta e su di un unico tema, rispetto alle elezioni. Insomma, la specificità dello strumento era il modo per spostare gli elettori da un voto ideologico, espressione delle indicazioni dei partiti, verso una scelta più laica che, in definitiva, si traduceva in una maggioranza progressista, di fatto di sinistra, al di là delle confessioni di appartenenza.

Gli strumenti di informazione esclusero il partito radicale, che fu, quindi, senza voce: soltanto il settimanale "Il Mondo" ospitò l'opinione radicale in una intera pagina gestita dallo stesso partito e dalla LID settimanalmente (123). I radicali usarono Il "Mondo" per esporre le loro posizioni che, con l'avvicinarsi del referendum, diventavano sempre più estremiste anche contro le ingerenze delle gerarchie. Organizzarono anche dei comizi, ma secondo moduli nuovi, in coerenza con la loro filosofia sul rapporto tra cittadini e partiti. Esempio ne fu il comizio-concerto tenuto al palasport di Roma nel marzo 1974, con cui smitizzarono l'immagine del comizio politico tradizionale.

Il risultato del referendum abrogativo fu il seguente: 40,9 per cento per il "sì", il 59,1 per cento per il "no".

NOTE

(88) Cfr. AA.VV. »Il divorzio in Italia , Firenze, La nuova Italia 1969.

(89) Cfr. ALESSANDRO COLETTI, »Storia del divorzio in Italia , Savelli Roma 1970, p. 134.

(90) Cfr. MASSIMO TEODORI, »Il movimento divorzista in Italia, origini e prospettive , "Tempi moderni" n. 3, estate 1970.

(91) Cfr. MAURO MELLINI, »Le sante nullità , Savelli, Roma 1974, p. 13 e ss.

(92) Cfr. MAURO MELLINI, »Così annulla la Sacra Rota , Samonà e Savelli, Roma, 1969.

(93) Cfr. TEODORI »Il movimento divorzista... , op. cit. Per la "filosofia radicale" cfr. anche Marco Pannella, prefazione al libro di ANDREA VALCARENGHI »Underground pugno chiuso! Arcana Editrice 1973, oltre che numerose interviste concesse dal leader radicale ad es. quella concessa a "Playboy" nel gennaio 1975 oppure quella ad AMICA nel marzo 1975.

(94) MARCO PANNELLA in "Notizie Radicali", luglio 1971, scriveva: "Detestiamo i sacrifici, i nostri quanto quelli degli altri; dobbiamo ad altri - e ci debbono - non altro che vita e serenità; quel che si costruisce con il sangue o anche con il "sudore della fronte", ferendo o essendo feriti, non l'amiamo..."

(95) TEODORI, »I nuovi radicali , op. cit. p. 78-83; TEODORI »Il movimento divorzista in Italia , op. cit.; A. COLETTI, op. cit..

(96) Relazione di Mauro Mellini al dibattito tenuto il 12 dicembre 1965 al teatro Eliseo di Roma, citato da ALESSANDRO COLETTI, »Storia del divorzio in Italia , cit., p. 135.

(97) TEODORI, »I nuovi radicali , op. cit., p. 80.

(98) A. COLETTI, op. cit., p. 136.

(99) COLETTI, Ibidem, p. 137.

(100) TEODORI, Il movimento divorzista in Italia, cit.

(101) TEODORI, »I nuovi radicali , cit., e »Il movimento divorzista cit.

(102) Lettera al settimanale "L'Astrolabio" di Marco Pannella: "L'Astrolabio" n. 34, 30 Agosto 1967, p. 16 (»Lettera di un divorzista. Divorzio e lotta democratica ).

(103) A. COLETTI, op. cit., p. 145.

(104) TEODORI, »Il movimento divorzista , cit., p. 92.

(105) TEODORI, »Il movimento divorzista , cit. p. 90.

(106) A cura di M. MELLINI, »L'annullamento facile del matrimonio , ed. Partito

Radicale 1967, MAURO MELLINI, »Così annulla la Sacra Rota , Samonà e Savelli, 1969; M. MELLINI, Le sante nullità, Savelli 1974.

(107) Cfr. CARLO GALANTE GARRONE, »Profili politici della battaglia , in AA.VV. "Il divorzio in Italia", a cura di L. Piccardi, La Nuova Italia, Fi, 1969.

(108) Cfr. CARLO GALANTE GARRONE, op. cit., pp. 77-88.

(109) La questione di legittimità costituzionale riguardava l'estensione dello scioglimento ai matrimoni concordatari, in relazione all'art. 7 della Costituzione che avrebbe determinato invece la recezione nell'ordinamento italiano dell'indissolubilità del matrimonio, un principio proprio del diritto canonico. Più in generale si sosteneva l'incostituzionalità del progetto Fortuna, anche in relazione agli articoli 2, 3 29, 30, 31 della Costituzione.

(110) Le vicende che precedettero l'approvazione della legge sul divorzio sono state ricostruite sulla base delle informazioni ricavate da articoli di esponenti radicali pubblicati sul settimanale pubblicato a Parma "L'opinione Pubblica", e di articoli pubblicati su quotidiani e settimanali.

(111) Cfr. GIUSEPPE CATALANO, »E lasciateli divorziare , "L'Espresso" n. 42, 18 ottobre 1970, pp. 4-5

(112) Cfr. GIANFRANCO SPADACCIA in »Un'ondata di referendum per battere un parlamento clerico-fascista , "La prova radicale" n. 4 estate 1972.

(113) Cfr. MARCO PANNELLA »Difendere il divorzio, abrogare il Concordato , "Notizie Radicali" n. 107, 10 dicembre 1970.

(114) Cfr. GIANFRANCO SPADACCIA »La paura di aver vinto , Notizie Radicali n. 107,10 dicembre 1970.

(115) La ricostruzione dell'atteggiamento dei radicali in questo periodo è stata svolta principalmente dalla lettura del trimestrale "La prova radicale" 1971-1973, redatto interamente da radicali. In particolare cfr. G. SPADACCIA »Il comportamento dei laici: LID, LIAC, PR e partiti democratici , "La prova radicale", n. 1, Autunno 1977, pp. 167-192.

(116) G. SPADACCIA, ult. art. cit., p. 171

(117) G. SPADACCIA, ult. art. cit., p. 175.

(118) G. SPADACCIA, ult. art. cit., p. 176.

(119) Cfr. pp. 124-125.

(120) GIANFRANCO SPADACCIA »Dove porta la paura del referendum , "La Prova radicale", n. 2, Inverno 1972, pp. 17-22.

(121) Cfr. »Rapporto sul referendum , a cura del Collettivo Radicale di studio sul referendum sul divorzio, e di Mauro Mellini, "La prova radicale", n. 5 marzo 1973, p. 80.

(122) MARCO PANNELLA, »Uniti sì ma contro la DC , "Liberazione", n. 7, 27 gennaio 1974.

(123) "Il Mondo", 21 febbraio - 12 maggio 1974.

 
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