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Strik Lievers Lorenzo - 1 aprile 1993
Se l'unica riforma è una riforma in peggio: il caso delle elementari.
Lorenzo Strik Lievers

SOMMARIO: Lorenzo Strik Lievers osserva come, mentre tutto attorno il mutamento politico è in atto, nel mondo della scuola questo non si avverta: "il confronto politico-parlamentare sulle riforme scolastiche resta improntato ai modi, ai criteri, ai riti e ai timori d'un tempo". I progetti in discussione sono ancora quelli nati nel clima dell'egemonia culturale del "socialismo reale all'italiana". In questa ottica si muove in Senato il dibattito sull'"ormai più che ventennale progetto di riforma della secondaria superiore", ed è stata approvata la "riforma della scuola elementare del 1990". Strik Lievers passa quindi ad esaminare questa riforma, avvalendosi - avverte - dell'esperienza maturata come senatore eletto nelle liste radicali, e come "uno dei pochissimi oppositori", autore anche di una relazione di minoranza.

Passa quindi ad esaminare le caratteristiche della riforma, tra cui la principale è la "sostituzione dell'insegnante di classe tradizionale con il cosidetto 'modulo': un gruppo di tre insegnanti...". Tale riforma va in senso contrario alle esperienze in atto in Europa, dove la figura del maestro viene solo affiancata da insegnanti di sostegno per le diverse discipline. Secondo l'autore, la riforma è stata fatta sopratutto per soddisfare ad una "esigenza sindacale-occupazionale" degli insegnanti, colpiti dalla riduzione della natalità e della scolarità.

Vengono quindi analizzate le conseguenze negative della riforma ("secondarizzazione" della scuola elementare) gravi sopratutto perché imposta obbligatoriamente e senza flessibilità a tutta la scuola pubblica. Viene seguito l'iter della legge ed elencati i sostenitori e le opposizioni ed infine si traccia un quadro della sua appolicazione nel periodo trascorso dall'approvazione.

(IL MULINO n.346, marzo-aprile 1993)

Una strana e singolare separatezza ha contraddistinto negli ultimi anni, e ancora contraddistingue, la vita della scuola, ma ancora più la politica scolastica. Crolla, intorno, il regime dei partiti, dopo che il comunismo si è dissolto, la sua egemonia culturale è divenuta un ricordo fino un poco irreale, nessuno sa più dire se esista e dove e che cosa sia la sinistra; la stessa sinistra ex-comunista, alla ricerca di una nuova identità, agita le insegne del privato, del profitto, della democrazia occidentale, e il peso del sindacato è l'ombra di quello di una volta. Solo nel campo della scuola l'orologio sembra essersi fermato. Quasi che nulla intorno fosse accaduto, il confronto politico-parlamentare sulle riforme scolastiche resta improntato ai modi, ai criteri, ai riti e ai timori di un tempo. Ancora lo occupano, inossidabili, i criteri e i progetti nati, magari decenni fa, sul terreno e come espressione dell'egemonia culturale del socialismo reale all'italiana e del suo lunghissimo '68; progetti tuttora

perseguiti, senza sforzi di ripensamento, da una sinistra rimasta uguale a se stessa e variamente appoggiati o subiti - non si sa con quanta convinzione - da tanta parte del mondo scolastico cattolico-democristiano e sindacale. Così, è l'esempio più vistoso, è tornato ora tal quale in discussione al senato, per iniziativa convergente di PDS e DC, l'ormai più che ventennale progetto di riforma della secondaria superiore incentrato sull'idea di rendere in gran parte "unico" il primo biennio, estendendo in sostanza ad esso la logica della scuola media; progetto che dai primi anni settanta è stato sempre riproposto, legislatura dopo legislatura, anche nell'ultima, fortunosamente (e fortunatamente) mai arrivando in porto. Come anche va aggiunto che - almeno fino al recentissimo decreto sul pubblico impiego, le cui conseguenze è difficile valutare - per tutti questi anni nella scuola han continuato a dominare indisturbati dinamiche e poteri sindacali felicemente coniugati con poteri e dinamiche burocratiche.

A questo contesto occorre riferirsi per comprendere le origini, il carattere e le conseguenze della riforma della scuola elementare del 1990, che di questo clima, di questa "formula politica" ha rappresentato, negli anni recenti, la più compiuta manifestazione, il più cospicuo (l'ultimo?) successo. Si tratta di un evento che merita molta più attenzione di quella che gli sia stata finora dedicata all'infuori degli ambienti specializzati: sia perché è la prima e unica rilevante riforma scolastica giunta all'approvazione dopo quella, antica ormai di un trentennio, della scuola media, e modifica radicalmente il settore della scuola più determinante per la formazione delle nuove generazioni; sia, soprattutto, perché essa implica scelte gravi e di grande momento, in termini di fatto e sul piano dei principi. Mette in gioco, infatti, la funzione stessa della scuola elementare, il posto della scuola italiana nel quadro europeo, e insieme la figura dell'insegnante e della libertà di insegnamento nell'ordinamento ital

iano. Questo, almeno, è quel che vorrei mettere in luce. Non senza avvertire il lettore, per debito di chiarezza, che nella vicenda chi scrive è stato in qualche misura parte in causa, durante la scorsa legislatura, come uno dei pochissimi oppositori della riforma in parlamento, da senatore eletto nelle liste radicali, ed estensore di una relazione di minoranza; alcune linee della quale verranno qui riprese perché alla luce dei primi due anni di attuazione della legge (la 148 del 1990) mi sembra abbiano mantenuto tutta la loro validità.

Una soluzione tutta italiana: cioè antieuropea.

La novità sostanziale della riforma, come è ben noto, sta nella sostituzione dell'insegnante di classe tradizionale con il cosiddetto "modulo": un gruppo di tre insegnanti che, come contitolari, insegnano in due classi (in alcuni casi, il modulo è di quattro insegnati per tre classi). Basta, si dice, con il vecchio e sdolcinato mito della maestra-mamma, della maestra-chioccia: nel lavoro di gruppo la "nuova" maestra può manifestare tutta la sua professionalità e rispondere ai bisogni nuovi dei bambini di oggi.In questo caso l'innovazione non è di facciata, lo si intende: diventando interamente altro il rapporto bambini-insegnanti, ossia il cardine primo dell'insegnamento elementare, quella che così nasce è davvero un'"altra" scuola.

Proprio questo carattere indiscutibilmente innovativo della riforma è uno dei grandi argomenti addotti per rivendicarla come moderna e progressista, e per denunciare come retrivi i suoi oppositori; secondo quella così diffusa, un po' grottesca, caricatura del riformismo che ritiene l'innovazione comunque progressista in quanto tale, e inconcepibile che un'innovazione possa risultare magari regressiva. Ma quanto distorcente sia la pretesa di ridurre il confronto pro o contro i "moduli" a una disputa fra modernità riformatrice e conservazione nostalgica risulta da un dato di base: la novità, la rottura che la riforma comporta non è solo nei confronti del passato, del modello della "maestrina dalla penna rossa" di deamicisiana memoria, come si è cercato di far credere. La rottura è con quanto accade intorno a noi in Europa, è frattura con l'Europa. In nessun altro paese nella Comunità infatti si è immaginato di percorrere una strada come quella imboccata dall'Italia.

Certo, un po' dovunque sempre più si avverte, a ragione, l'esigenza di non rimanere fermi alla vecchia figura del maestro unico: difficilmente, e tanto più oggi, una sola persona è in grado di insegnare in modo adeguato tutte le discipline, comprese la lingua straniera, l'educazione musicale o artistica, e così via. Come anche è indubbio che costituisce un'esperienza positiva per il bambino quella di confrontarsi con più voci adulte, ed è prezioso e stimolante per l'insegnante lavorare in costante confronto con altri. La questione è: se queste sono istanze che la società contemporanea fa sentire assai più che un tempo, il sistema delle "tre maestre" costituisce la risposta necessaria ad esse, o anche solo la più adeguata? Il confronto con le altre realtà europee da questo punto di vista si rivela decisivo. Se grande è la varietà degli ordinamenti della scuola elementare nei vari paesi, un aspetto in ogni modo li accomuna: dappertutto, senza eccezioni, esiste la figura forte dell'insegnante di classe, semmai

variamente coadiuvato in molti casi da insegnanti di materie specifiche o di sostegno; appunto la figura che il "modulo" sopprime.

Nessun altro in Europa avverte le ragioni della modernità? Solo l'Italia, sotto la spinta di uno schieramento sindacal-catto-comunista, avrebbe saputo cogliere le esigenze di una scuola al passo coi tempi, mentre tutti gli altri sarebbero schiavi di nostalgie conservatrici? L'assurdità stessa di un simile interrogativo è sufficiente di per sé a mostrare risibile la pretesa che quella del "modulo" sia la via obbligata della modernità, un equivoco che pure invece ha pesato, e molto, nel confronto intorno alla riforma, utilizzato a fondo come è stato dallo schieramento finora vincente. La questione vera, piuttosto, appare un'altra: che ragioni, che senso, implicazioni e conseguenze ha l'abbandono di quella che tutti gli altri considerano la via maestra o meglio la strada naturale e ovvia per la scuola elementare? (E in verità si potrebbe aggiungere l'altro interrogativo: se sia saggio e responsabile distaccarsi così drasticamente dall'Europa, proprio ora e proprio su un terreno così delicato).

Il punto è che questo "allontanamento dall'Europa" non riguarda un fatto tecnico di organizzazione scolastica ma, ne fossero o meno consapevoli i suoi promotori, comporta una pesante e grave, ancorché confusa, opzione pedagogico-culturale; di quelle che danno forma e sostanza a un sistema educativo e formativo, e perciò investono caratteri di fondo di una società. In effetti, il significato ultimo della riforma sta nella "secondarizzazione" della scuola elementare, ossia nell'anticipazione ad essa del modello della scuola media (peraltro, come meglio si vedrà più oltre, in modo incoerente all'interno).

Per quanto i fautori del nuovo assetto cerchino di negarlo, questo accade, per forza di cose, nel momento in cui si suddivide l'insegnamento per ambiti disciplinari, assegnati ciascuno a un insegnante diverso, come la legge prescrive. Oggi in una classe elementare i bambini non incontrano "la maestra": nella prima ora vedono "quella di italiano", poi "quella di storia", poi "quella di matematica", con un susseguirsi rigido di monadi orarie in cui ciascuna insegnante, "sovrana" nella propria ora, insegna la sua disciplina con i suoi propri criteri e i suoi propri ritmi. Come avviene, appunto, nelle scuole secondarie. Basta parlare con chi vive od osserva la vita della scuola elementare per rendersi conto di quanto questo aspetto l'abbia mutata in profondità, determinando problemi e difficoltà nuovi.

Che portata abbia tutto ciò lo si intende se appena si riflette alle ragioni profonde, di intima sostanza, per cui da nessun'altra parte si è compiuta una scelta del genere: "secondarizzare" la scuola elementare significa né più né meno che mutarne la centralità e le finalità. E' da una sostanziale diversità di scopi, infatti, che deriva la differenza nelle strutture fra i due tipi di scuola.

Per parte sua, la scuola elementare deve intanto rispondere al bisogno del bambino, particolarmente quello delle prime classi, di trovare un punto di riferimento che sia per lui fonte di forza e di sicurezza di sé; e innanzi tutto da questo punto di vista è essenziale il ruolo dell'insegnante di classe. Ma esiste poi anche un problema di priorità: soprattutto nei primi anni, l'insegnamento elementare deve avere come fine primo l'educazione, la formazione della personalità del bambino; le singole discipline vanno insegnate in questo contesto, in qualche modo anche come strumenti per questa finalità. Quel che conta è il bambino, il complesso generale e armonico della crescita, della formazione e dell'apprendimento, non certo la specializzazione disciplinare. E appunto ad assicurare l'impostazione unitaria dell'insegnamento indispensabile a questo scopo è decisiva la funzione dell'insegnante di classe; integrato quanto si voglia, e utilmente, dalla presenza di altre figure, ma pur sempre robustamente presente.

La scuola secondaria, invece, e tanto più quanto più i ragazzi crescono, conosce come priorità quella di portare all'approfondimento, con la conquista di capacità critiche e di abilità che esso comporta. Di qui la necessità dei diversi insegnanti specializzati nei vari rami del sapere.

Diversa struttura corrispondente a diversa finalità, dunque; e anche diverso atteggiamento di fondo degli insegnanti. Il maestro elementare di classe è non un "tuttologo", secondo la sciocca irrisione dei fautori del modulo, ma un educatore che ha davanti a sé il problema del bambino, prima che quello delle singole materie; mentre al contrario il professore delle secondarie ha innanzi tutto il compito di insegnare bene la propria materia. Stravolgendo come si è fatto la struttura "naturale" della scuola elementare, si inducono necessariamente nelle maestre mentalità e scale d'attenzione da scuola media: la "maestra di matematica", che per di più lavora con i bambini non di una, ma di due o tre classi, e ha dunque un rapporto molto meno intenso con ciascuno, sarà portata dalla logica delle cose a preoccuparsi prima dei risultati nella sua materia che dell'equilibrio formativo complessivo (e probabilmente perciò, dato che di bambini si tratta, risultando meno efficace anche nell'insegnamento specifico della ma

tematica).

Questi insomma i termini di fondo. Con la riforma si compromette, e tendenzialmente si fa venir meno, lo specifico e il proprio della scuola elementare: opzione sulle cui conseguenze si tornerà tra poco, ma di cui ciascuno intende quanto sia di ampia e grave portata. Ma da che spinte, con che motivazioni si è giunti a una simile scelta? Cercar di rispondere a questa domanda significa mettere in luce orientamenti, tendenze, attitudini cruciali nella vita scolastica italiana degli ultimi decenni.

Diminuiscono i bambini, aumentano gli insegnanti.

La riforma, va detto subito, è stata realizzata sull'onda di una forte spinta "dal basso", richiesta com'era intensamente da una parte molto consistente delle organizzazioni degli insegnanti. L'argomento fondamentale con il quale la si reclamava come indispensabile era la necessità di adeguarsi alle esigenze derivanti dall'avvenuta adozione, nel 1985, dei nuovi programmi per la scuola elementare, assai più impegnativi e vasti di quelli precedenti. Impossibile - si diceva - applicarli davvero senza estendere congruamente l'orario; nel qual caso non bastava più un solo insegnante a reggere la classe. Si aggiungeva poi la crescente difficoltà per un singolo di padroneggiare a fondo tutte le conoscenze e capacità richieste dai programmi.

Icto oculi è evidente la fragilità di queste motivazioni per giustificare un rivolgimento di tanta portata; se non altro (e senza qui discutere del significato di quei programmi) perché a far fronte a quei problemi si sarebbe potuti tranquillamente arrivare con soluzioni molto meno traumatiche. Prima fra tutte la via regia, adottata in tanti paesi, di affiancare la maestra di classe con altri insegnanti per alcune specifiche discipline. Non intendo certo affermare - sarebbe un falso - che quegli argomenti non siano stati sostenuti da tanti con autentica convinzione e passione; il punto è che se non ci fosse stato anche altro, ossia una molto robusta corrente di interesse, quegli argomenti non avrebbero avuto un simile riconoscimento e peso.

L'"altro", che inevitabilmente campeggia preminente, sottolineato da gran parte dei commentatori che hanno seguito la vicenda, e ben colto dall'opinione pubblica, è una molto concreta urgenza a carattere sindacale-occupazionale. Certo, gli interessati ne hanno sempre respinto con indignazione anche solo il sospetto; ma, come si dice, davvero in questo caso i fatti parlano da soli. Neppure occorre citare le cifre: quando, con il crollo della natalità, le scuole si svuotano e si chiudono, un sistema che su due classi richiede la presenza non di due ma di tre insegnanti sembra (è) fatto apposta per eliminare un problema di disoccupazione obiettivamente imposto dalle circostanze, o addirittura per consentire che - come è puntualmente accaduto - si realizzi il "miracolo" di un'espansione degli organici insegnanti a fronte di una continua diminuzione del numero dei bambini. Non per nulla anima, cardine e motore del processo che ha portato alla riforma sono stati i sindacati scuola confederali e l'associazione dei

maestri cattolici. E' sotto la loro costante spinta e pressione, e con il fattivo sostegno su un altro piano delle strutture burocratiche centrali del ministero della pubblica istruzione, che i nuovi ordinamenti della scuola elementare sono stati voluti e votati da uno schieramento politico-parlamentare imponente, più da unanimità che da unità nazionale; schieramento che comprendeva come soggetti principali il PCI nella veste di ala "avanzata" e intransigente, la DC e il PSI (entrambi con alcune significative "obiezioni di coscienza" personali) nonché, proprio così, il PRI.

In questo senso, intanto, la riforma è figura e emblema della storia della scuola in questi decenni: ultima e macroscopica manifestazione della capacità della ragion sindacale, dei criteri sindacali (in simbiosi con quelli burocratici) di occupare progressivamente ogni spazio, soffocando, stravolgendo ragioni e criteri propri della scuola, ossia fondati sul primato del rapporto educativo e della sua logica. Come è stato, in così larga misura, per quel che riguarda la questione cruciale del reclutamento degli insegnanti, o tanti aspetti delle relazioni interne alla vita della scuola; e come del resto è reso evidente dal fatto in sé clamoroso che il mondo della scuola delega così ampiamente la rappresentanza e l'espressione di sé alla sola forma dell'organizzazione sindacale, anche negli ambiti che nulla hanno a che fare con la natura di questa. Con la legge 148 del 1990 per la prima volta la ragion sindacale impronta radicalmente di sé una "grande" riforma scolastica trionfando sulla logica della scuola, fino

a cancellare, appunto, la specificità del rapporto educativo nelle elementari.

Una scelta carica di conseguenze.

Non è questione solo di forza politico-elettorale dei sindacati, naturalmente. La riforma è la risultante dell'incontro fra la spinta sindacale e un insieme di impostazioni, di concezioni culturali, politiche e di cultura politica. Sui modi, il senso e gli esiti di questo intreccio è il caso di soffermarsi.

Che sia apparsa accettabile la sostanziale "secondarizzazione", intanto, è segno significativo di una distorsione culturale di fondo che ha preso ampio piede, e non certo solo in Italia: la difficoltà di cogliere le differenze, le profonde diversità fra i bisogni delle diverse età. (Qualcosa del genere si ritrova, del resto, anche nelle aspirazioni a riformare le secondarie superiori secondo criteri validi per quelle inferiori). Non si capisce, molto spesso, l'importanza di saper trattare i bambini come bambini e non come piccoli adulti non ancora cresciuti. E' il tema del profondo allarme e del dibattito sulla "scomparsa dell'infanzia" in corso soprattutto in America, dove il fenomeno è ancora più drammaticamente vistoso che da noi.

"Secondarizzare" la scuola elementare significa appunto confondere bisogni di età fra loro assai diverse. Se è vero che per un adolescente misurarsi con metodologie, impostazioni e punti di vista anche molto differenti da parte dei vari insegnanti può essere molto importante anche in termini di rafforzamento della personalità e d maturazione di capacità critiche, ben altro effetto ha la stessa situazione su un bambino di sei o sette anni. Trovarsi alle prese con metodi, criteri di valutazione e opinioni contrapposte non può non avere per lui effetti di sconcerto, turbamento, o magari interna lacerazione, provocando stati di insicurezza tali da poter pesare con effetti di lungo periodo sullo sviluppo della sua personalità. E' un'illusione catastrofica ritenere che così si affretterebbe lo sviluppo del suo autonomo senso critico. Al contrario: illudendosi di accelerarlo, lo si mina e lo si compromette. Proprio per maturare in sé progressivamente, col crescere, autonomia e capacità critica il bambino delle elem

entari - e tanto più nelle prime classi - ha bisogno di solidi punti fermi, di certezza di sé, insomma di forza interiore. Non è sulla base di interiore fragilità che l'adolescente o l'adulto trova i migliori fondamenti per affermare la propria autonoma personalità e capacità di scegliere criticamente.

A questi giudizi, certo opinabili, qualcuno oppone i vantaggi di avere maestri specializzati nei diversi settori, con capacità didattiche specifiche nelle diverse materie. E' un'impostazione diametralmente opposta a quella qui sostenuta, ma cui non si potrebbero negare dignità e coerenza. Occorre notare però che non a questa concezione hanno avuto la coerenza, appunto, di ispirarsi le forze che hanno voluto la legge 148. Sono tanto rilevanti le evidenze contrarie alla "secondarizzazione" che quelle forze non solo non hanno avuto il coraggio di percorrerne in modo conseguente la strada, ma hanno sempre dichiarato di rifiutarne l'ipotesi; cacciandosi in tal modo, però, in un groviglio di contraddizioni. Così, gran parte dei sostenitori della legge (tutti forse salvo i repubblicani, che hanno però approvato il risultato finale) hanno sempre respinto ogni idea di settorializzazione; e a ribadire che si guarda pur sempre alla globalità dell'azione educativa - non si osa negarne la necessità per le elementari - la

legge chiarisce che le maestre si dividono sì gli insegnamenti, ma non sono specialiste o specializzate per materie, tanto che assumono gli ambiti disciplinari secondo un'"opportuna rotazione nel tempo" (art.5, comma 3). Scelta obbligata, forse, giacché gli specialisti non si improvvisano e le maestre attuali non sono preparate a essere tali. Il risultato, comunque, è il danno con le beffe: si frammenta l'insegnamento, inducendo nelle maestre una negativa ottica settoriale, ma senza neppure garantirsi i vantaggi della competenza che soli potrebbero essere addotti a giustificare una tale scelta.

Collegato a questo, ma ancor più gravido di conseguenze, un ulteriore equivoco. Si è minata strutturalmente la possibilità di garantire l'unitarietà dell'insegnamento cancellando l'insegnante centrale, ma non si è osato affermarne il principio. Anzi: all'articolo 5, comma 2, la legge consacra come criterio cardine dell'attività didattica "l'unitarietà dell'insegnamento" chiamando gli insegnanti del modulo ad assicurarla. Ora, non c'è dubbio che l'unitarietà possa realizzarla - oltre che l'insegnante di classe - anche un gruppo di insegnanti fra cui esista piena armonia. Ma la questione cui non si può sfuggire, e cui invece la legge non dà risposta, è: che cosa accade se e quando quest'armonia non esiste?

Il problema, probabilmente, sorgerebbe solo marginalmente se a organizzarsi con la formula del "modulo" fossero solo gli insegnanti che lo scegliessero, e che si aggregassero sulla base di comuni intenzioni e di un accordo di base tra loro su criteri, metodi, obiettivi pedagogici; come avveniva quando si sperimentava questa formula, prima dell'approvazione della legge. Divenuto il "modulo" obbligatorio per tutti, accade inevitabilmente in molti casi - se ne sentono continue testimonianze - quello che era perfettamente prevedibile: che l'imposizione burocratica metta insieme persone con forti divergenze tra loro. Sui metodi, sulle regole e i criteri con cui condurre la vita della classe, su quel che può essere o non essere opportuno pretendere dai bambini...

La gravità di simili situazioni non potrà mai essere sottolineata abbastanza. Per i bambini, innanzitutto. Senza avere ovviamente la maturità critica che permette ai ragazzi più grandi di affrontare senza traumi i contrasti fra gli insegnanti, in un clima di tensione, sottoposti facilmente a sollecitazioni contraddittorie, i bambini si trovano a vivere in uno stato di incertezza, insicurezza, probabilmente di ansia o comunque di confusione.

Gravissime, su un altro piano, le conseguenze anche per gli insegnanti. Che succede in caso di contrasto tra loro sulle scelte di fondo, dove la coerenza e il rigore sono essenziali per dare credibilità all'azione educativa? Fra il maestro dall'impostazione autoritaria e quello permissivo? In quale condizione si trova l'insegnante le cui convinzioni siano minoritarie all'interno del modulo? Senza accordo, due sono i casi. O ciascuno procede secondo le proprie convinzioni, e allora l'"unitarietà" non esiste, con gli effetti che si sono appena ricordati. Oppure, per senso di responsabilità verso i bambini che gli sono affidati, chi è in minoranza garantisce l'unitarietà subendo punti di vista e criteri che non condivide. Accetta, insomma,di insegnare "contro coscienza".

L'insegnante dimezzato.

E' chiara a questo punto la portata davvero straordinaria, senza precedenti sul piano dei principi, di ciò che è accaduto. La riforma "avanzata", "innovativa", "progressista", frutto della vittoria dei sindacati è giunta a questo risultato: di creare, per la prima volta, la figura dell'insegnante privo per legge della libertà di insegnamento.

Rendersi conto di questa realtà aiuta a cogliere intero il senso della partita ideale che si è giocata e si gioca intorno alla riforma delle elementari; ché a ben considerare nel suo insieme la legge, il processo che ha portato alla sua approvazione, il modo in cui essa è stata finora applicata si avverte come su questo terreno si misuri appieno il ruolo di un certo sindacalismo, e quanto pesi, e in che senso, il singolare sopravvivere nella scuola di un certo modo di essere a sinistra e della sua egemonia, come si diceva all'inizio. In effetti, non è solo l'aspetto che ho appena evocato - l'esaltazione del "gruppo", del "collettivo" che si risolve in umiliazione e negazione di libertà - a connotare nel senso di una demagogia intimamente illiberale la riforma: essa solleva una grande questione di principio intorno al posto da assegnare alla libertà nella vita della scuola.

Anni di dibattito sulla riforma degli ordinamenti delle elementari hanno dimostrato ad evidenza che il sostenere l'una o l'altra formula (il maestro unico, il "modulo" o quant'altro) riflette anche diversi modi di vedere il bambino, la sua realtà, i suoi bisogni. Un problema si impone: è ammissibile, risponde a un criterio laico, non ideologico della democrazia, è conciliabile con l'idea di una vita culturale, e dunque anche scolastica, che abbia come regola e criterio ultimi il principio di libertà la pretesa di imporre a tutti una sola "immagine" del bambino?

Implica appunto questo, infatti, generalizzare come rigidamente obbligatoria una struttura didattico-organizzativa che riflette un determinato modo di considerare il bambino, o che solo con esso può armonizzarsi, mentre risulta incompatibile con altri. Come, del resto, quando si sono introdotti i nuovi programmi per la scuola elementare. Si era detto allora da ogni parte che con essi si abbandonava un'immagine del bambino che aveva fatto il suo tempo per adottarne una nuova, rispondente a una visione più moderna. Ma, questo il problema: e chi per avventura avesse condiviso tuttora la vecchia immagine del bambino, quella "legale", iscritta nei programmi ministeriali fino al giorno prima? O chi ne avesse coltivato un'altra ancora, com'era possibile e anzi accade? Costoro devono avere un diritto di cittadinanza dimidiata? A titolo di esempio: sulla base di una certa interpretazione dei bisogni del bambino, la pedagogia montessoriana, almeno come molti la interpretano, comporta un rapporto maestra-bambino che in

sostanza non praticabile con la formula del "modulo". E' accettabile che si vieti per legge a una maestra di seguire la pedagogia montessoriana, o a dei genitori di scegliere un'educazione montessoriana per il proprio figlio?

In realtà siamo sempre ancora alle prese - sia pure in termini meno appariscenti di un tempo - con l'idea, questa sì vecchia, autoritaria e giacobina, di una verità pedagogica di stato che la maggioranza, o piuttosto chi controlla le leve del potere, si ritiene legittimata a imporre uniforme a tutti nella scuola di stato: in nome, di volta in volta, del progresso, delle idealità nazionali, del socialismo, o non importa di che altro.

Davvero significativo in questo senso: nel testo votato in prima lettura dalla Camera, praticamente all'unanimità, la riforma estendeva rigidamente anche alle scuole private programmi e ordinamenti di quella pubblica, come neanche il fascismo aveva fatto. In sostanza, anche lì si rendeva obbligatoria la pedagogia di stato: voleva dire chiudere ogni spazio, anche estremo, di libertà di insegnamento. Fortunatamente, almeno questa norma è poi caduta come risultato - posso rivendicarlo? - di una mia tenace e solitaria iniziativa al Senato; ma nonostante il tentativo di ristabilirla condotta fino all'ultimo da PDS e repubblicani, in bella gara di giacobinismo.

Colpiscono e sconcertano - lo si diceva all'inizio - i caratteri della cultura e della lotta politica sul terreno scolastico che tutto ciò mette in luce. Clima, nel 1989-90!, da anni settanta: trionfo della ragion sindacale su quella pedagogico-educativa, dibattito tutto dominato dai temi, dalle impostazioni e quasi vien da dire dalle imposizioni di una sinistra per nulla preoccupata di rinnovarsi in senso liberale, ma ferma agli antichi riflessi statalisti-assemblearisti e da socialismo reale sui temi del ruolo dello stato, del pubblico e dello spazio per le libertà individuali nel campo educativo. Ciò negli aspetti e sui temi che ho ricordato finora, ma poi anche sulla questione, divenuta a un certo punto cruciale, del tempo-scuola. Il leit-motiv dell'iniziativa comunista e dei sindacati su questo stava, oltre che nella sacrosanta difesa della scuola a tempo pieno per chi ne ha bisogno, nella rivendicazione, come di obiettivo in sé democratico, dell'estensione più ampia possibile non della possibilità, ma

dell'obbligo di permanenza a scuola per i bambini. La linea insomma era quella della richiesta per lo stato, per il "pubblico", di sempre più ampi poteri di decisione e gestione degli spazi educativi; con quel che ne consegue in termini di limitazione delle possibilità e del diritto per i genitori di gestire essi, in base alle proprie scelte, il "tempo educativo" dei propri figli.

Il tutto fra il consenso o l'acquiescenza generalizzata della stragrande maggioranza dei partiti e dei gruppi parlamentari. Alla Camera, lo dicevo, approvazione sostanzialmente unanime. Al Senato solo il veto opposto da chi scrive, a nome del proprio gruppo, impedì che la legge fosse trasferita alla sede deliberante in commissione e lì approvata in poche sedute nel testo della Camera, secondo gli accordi già presi dagli altri gruppi. Poté aprìrsi così un vero e serio confronto politico, giacché in commissione accanto alla mia opposizione si manifestarono alcune importanti "obiezioni di coscienza" personali dal gruppo DC, come quelle dei senatori Franca Falcucci e Ortensio Zecchino. Fuori dal parlamento, intanto, scendevano in campo contro la legge Salvatore Valitutti sulla "Stampa" (il PLI, contrario anch'esso, non era rappresentato in commissione), Angelo Panebianco sul "Corriere", Federico Orlando sul "Giornale", Giovanni Gozzer, "Il Sabato" e il Movimento Popolare. Dichiarazioni critiche rilasciavano anch

e i socialisti Covatta e Aquaviva; e in aula fece una ferma dichiarazione di voto contraria Bossi. Non bastava certo a rovesciare o a fermare la legge; ma un risultato rilevante lo si raggiunse, oltre a quello sulle scuole private. Dopo un braccio di ferro drammatico, a tutelare per un minimo dai guasti peggiori almeno i più piccoli venne introdotta - battendo l'opposizione aspra di PDS e sindacati confederali - la norma sul cosiddetto "maestro prevalente": nelle prime due classi "di norma" un insegnante del modulo deve essere presente in classe per un numero di ore nettamente superiore rispetto agli altri due, perché in lui, o lei, i bambini possano trovare l'indispensabile punto di riferimento centrale. E con questa formula la legge entrò in vigore.

Si trattava indubbiamente di una soluzione di compromesso, insoddisfacente per molti versi. La formula "di norma", peraltro, era stata infine accettata dai sostenitori dell'insegnante prevalente nella consapevolezza che un numero consistente di insegnanti preferivano il "modulo" paritario e perché, appunto, non volevano mettersi anch'essi sulla strada dell'imposizione di una verità pedagogica uguale per tutti.

Legge discutibile, applicazione arbitraria.

Ho cercato, nell'analisi svolta sin qui, di mettere in luce le grandi questioni di principio e di più ampio interesse generale poste dalla riforma delle elementari, rinunciando a toccare aspetti anche assai rilevanti di essa. Per le stesse ragioni non è possibile tentare in questa sede un esame adeguato circa l'attuazione della legge, come pure sarebbe interessante: basti ricordare la questione del modo a dir poco singolare con cui si è proceduto per l'introduzione della lingua straniera, o quella dei costi della riforma e dei suoi effetti sulla dimensione degli organici (basti dire che per il 1991-92 abbiamo avuto un insegnante per 9,8 alunni, contro i 12,8 nel 1988, e i 17,0 in Francia o i 21,4 nel Regno Unito). Anche per quel che concerne l'attuazione mi limiterò a sottolineare quella che mi pare la più rilevante questione di principio.

Il dato più clamoroso è rappresentato dal fatto che la riforma applicata in concreto non è quella approvata infine dal parlamento, comprendente le modifiche del Senato, ma il primo testo, votato dalla Camera; quello, per intendersi, che piaceva di più ai sindacati. Nei loro bollettini, in effetti, all'indomani del varo della legge, risuonavano impegni combattivi a battere "sul campo" la figura del maestro prevalente. Proprio questo, puntualmente, è accaduto.

A dimostrare ulteriormente chi, letteralmente, detta legge nella scuola, una manovra a tenaglia condotta dai sindacati e dagli organi centrali del ministero ha fatto sì che la "norma" stabilita con tanto dibattito dal parlamento sia rimasta clamorosamente disattesa, "non legge". Clamorosamente contra legem infatti il ministero ha interpretato la dizione "di norma" come equivalente a "in modo facoltativo"; ha emanato decreti e circolari applicativi della legge non solo "dimenticando" la norma dell'insegnante prevalente, ma dando indicazioni rigide (e anche qui forzando la legge) sull'assegnazione degli ambiti disciplinari senza distinguere fra primo e secondo biennio, e anzi in modo tale che risulti praticamente impossibile organizzare un orario che veda la presenza prevalente di un insegnante in una classe; infine, contra legem, ha assegnato il diritto di decidere non agli insegnanti, cioè nella loro responsabilità ai componenti di ciascun "modulo", e al direttore didattico, bensì al collegio dei docenti, la

cui maggioranza decide per tutti. Sicché sia per l'attiva iniziativa dei sindacati nei collegi, sia perché per gli insegnanti quella del "modulo" paritario è obiettivamente la soluzione più semplice e comoda, quasi dovunque questa è stata adottata a maggioranza, senza alcuna giustificazione; e a molti insegnanti che nonostante tutto avrebbero voluto organizzarsi secondo l'indicazione della legge - e, presumibilmente, della loro coscienza pedagogica - a maggioranza ciò è stato impedito. Con tanti saluti, come si voleva dimostrare, per la libertà di insegnamento.

Un ultimo dato. Del tutto spontaneamente in molte città sono sorti comitati di genitori, e talora di insegnanti e genitori, per contestare la legge e soprattutto la rigidità della sua applicazione. Rivendicando libertà; di insegnare, e di esercitare sacrosanti diritti circa l'educazione dei propri figli. Che sia, anche per la scuola, il preannuncio del nuovo?

 
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