di Massimo TeodoriSOMMARIO: Il successo alle elezioni del 1979 chiudeva "la fase eroica dei quattro radicali in parlamento". Le liste della "rosa nel pugno" ebbero 18 deputati, 2 senatori e 3 parlamentari europei. Era finita l'epoca della "solidarietà nazionale" e si intensificava anche in modi "sotterranei" la lotta per il potere. Il successo radicale espresse la "reazione" dei ceti "progressisti liberali" al consociativismo DC-PCI. I parlamentari radicali si dedicarono ad "iniziative di contrasto alla maggioranza ed all'opposizione comunista", giungendo a forme di forte ostruzionismo, fino allo scontro sul "caso D'Urso".
Nel 1980, con la richiesta di nove referendum di cui quattro soli vennero poi sottoposti al voto popolare, si "concludeva la stagione referendaria"; veniva lanciata la campagna "mondiale" sulla fame nel mondo che si sviluppò per un "quinquennio" con varie iniziative, fino all'approvazione della Legge Piccoli del 1982. Mentre nel gruppo radicale affioravano dissensi, alle elezioni del 1983 il PR si presentava dando però indicazione di "non-voto". Si ricordano quindi le vicende di Toni Negri e di Enzo Tortora e le denunce (1984) di quei "caratteri del regime" che solo più tardi vennero riconosciuti come reali.
(IL PARLAMENTO ITALIANO, Storia parlamentare e politica dell'Italia, 1861 - 1992 - Volume 23·, 1979 - 1983 - Nuova CEI Informatica, Milano - dicembre 1993)
Il successo alle elezioni politiche del giugno 1979 chiudeva la fase eroica dei quattro radicali in Parlamento e ne apriva una nuova. Le liste della "rosa nel pugno" passarono alla Camera dall'1,1% del 1976 al 3,4% del 1979 per complessivi 1.259.352 voti con 18 deputati eletti a cui si aggiungevano 2 senatori e 3 parlamentari europei eletti in liste che ottennero il 3,7% dei voti. La nuova rappresentanza parlamentare rispecchiava la direttiva delle liste aperte (definite omnibus) che avevano ospitato molte personalità non iscritte al PR: oltre ai radicali Adelaide Aglietta, Emma Bonino, Roberto Cicciomessere, Marcello Crivellini, Adele Faccio, Mauro Mellini, Marco Pannella, Gianfranco Spadaccia, Sergio Stanzani e Massimo Teodori entravano a Montecitorio lo scrittore Leonardo Sciascia, i giornalisti Gianluigi Melega e Maria Antonietta Macciocchi, gli ex socialisti Aldo Ajello e Franco Roccella, l'ex repubblicano Franco De Cataldo, Mimmo Pinto e Marco Boato, provenienti da Lotta continua, e la cattolica M
aria Luisa Galli.
Nessun dubbio che i radicali dovessero essere considerati tra i vincitori della prova elettorale che si teneva in un momento di crisi profonda degli equilibri politici. Si era interrotta la solidarietà nazionale con la caduta del governo Andreotti che ne era l'espressione parlamentare. Il Terrorismo delle Brigate rosse o di coloro che agivano in loro nome, era ancora attivo mentre scandali (ENI-Petromin, petroli...) e trame di ogni tipo (attacco alla Banca d'Italia di Baffi e Sarcinelli, Sindona, assassinio Pecorelli...) segnalavano l'intensificazione della lotta sotterranea per il potere. Restavano aperti, a meno di un anno, i molti interrogativi sullo svolgimento e la soluzione del caso Moro ed ancora bruciavano le gravi ferite politiche di quell'assassinio. In questo clima di duro scontro, la rinvigorita presenza radicale parlamentare si segnalava per la contrapposizione agli equilibri politici dell'unità nazionale gestita da DC e PCI e per l'estraneità all'esercizio del potere fondato sull'emergenzi
alismo reso permanente. Il successo elettorale delle liste radicali, particolarmente accentuato nelle aree metropolitane, era il segno della reazione all'unanimismo della solidarietà nazionale ed esprimeva l'esigenza dei ceti progressisti liberali di svincolarsi dal consenso affidato ad un PCI che non aveva saputo proporre un'alternativa alla DC ma, al contrario, si era alleato con essa nella gestione consociativa a scapito dei diritti individuali e delle autonomie sociali. Per questo i radicali erano considerati l'alternativa al corso prevalente delle sinistre egemonizzate dal PCI ed alla sua politica di compromesso storico.
Quella rinnovata presenza radicale in Parlamento, se era sufficientemente significativa per mettere in crisi i vecchi equilibri consociativi, non era tuttavia abbastanza forte per imporre una svolta politica. Pertanto, nell'VIII Legislatura, i parlamentari radicali si segnalarono soprattutto per iniziative di contrasto alla maggioranza ed all'opposizione comunista. Si contrapposero, quasi da soli, alla moltiplicazione della legislazione straordinaria per affrontare il terrorismo attuando in due sessioni, nel febbraio 1980 e nel gennaio 1981, veri e propri ostruzionismi (con interventi fino ad oltre 16 ore consecutive), tesi ad ostacolare l'approvazione delle norme ritenute liberticide che prevedevano violazioni delle libertà personali, la possibilità di perquisizioni senza vincoli e l'aumento della carcerazione preventiva.
Furono in prima linea nell'attività di controllo e di inchiesta che era divenuta centrale in Parlamento nel contesto della crescente degradazione della vita pubblica ed in assenza di una vigorosa opposizione. Sciascia partecipava alla commissione d'inchiesta sul "caso Moro" e pubblicava una breve ed incisiva relazione che contestava la versione ufficiale dei tentativi per salvare il leader DC. Teodori proponeva l'inchiesta parlamentare sulle responsabilità politiche del "caso Sindona" all'indomani dell'omicidio Ambrosoli e, successivamente, un'altra sulla "Loggia P2" subito dopo il ritrovamento delle liste di Castiglion Fibocchi: commissioni delle quali entrava a far parte redigendo rapporti di minoranza fortemente polemici con le conclusioni accettate dalla maggioranza degli altri partiti. Melega era attivo nel far emergere con l'indagine parlamentare lo scandalo ENI-Petromin; e Roccella insieme ad altri deputati si contrapponeva frontalmente ai vari provvedimenti sull'editoria tesi a sancire con fin
anziamenti pubblici l'intreccio perverso tra padrinaggio partitico e controllo dell'informazione. Altre iniziative legislative furono assunte per la legalizzazione della droga, per la destatalizzazione dell'aborto, per l'allargamento dell'obiezione di coscienza, sulla giustizia penale e sulla questione carceraria.
Nella stessa linea di rottura dei mille fili che costituivano la politica di unità nazionale perdurante anche oltre la fine delle intese politico-parlamentari, si collocò l'aspro conflitto sviluppatosi intorno al "caso D'Urso", il magistrato sequestrato il 12 dicembre 1980 dai tardi epigoni delle Brigate rosse e liberato il 15 gennaio 1981. Si fronteggiarono, come al tempo del caso Moro, il "partito della fermezza", sostenuto dalla sinistra comunista non meno che dagli apparati dello Stato che si sarebbero poi rilevati fortemente infiltrati e la "linea del dialogo" senza trattative con le BR, realizzata dai radicali e poi risultata, con il rilascio di D'Urso, vincente anche di fronte ai progetti di governi tecnico-autoritari d'emergenza che avrebbero potuto prender corpo nel caso di una tragica conclusione del sequestro.
Si conclude la politica referendaria
Il referendum era da un decennio lo strumento principe della politica del PR per la capacità di aggregare direttamente cittadini su specifiche proposte al di là delle appartenenze partitiche e per la forza di provocare mutamenti istituzionali su temi generalmente ostici alla politica ufficiale.
Così era stato usato nel 1978 chiedendo un voto per l'abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti e così veniva riproposto nel momento di crisi del rapporto tra DC e PCI, con la promozione, nella primavera 1980, di nove nuove richieste referendarie: caccia, smilitarizzazione della guardia di finanza, norme autoritarie del codice penale, nucleare, depenalizzazione della marijuana, liberalizzazione dell'aborto, "legge Cossiga", porto d'armi, ergastolo. Si trattava di un vero e proprio programma riformatore, alternativo a quello della sinistra del compromesso storico, in cui si potevano leggere i tratti antiautoritari, liberali e libertari, antimilitaristi ed ambientalisti delle proposta politica radicale. Ma l'isolamento politico che colpì i radicali e la singolarità dei contenuti dei quattro referendum giunti al voto nella primavera del 1981, dopo la cassazione di cinque richieste da parte della Corte Costituzionale, portarono alla sconfitta delle richieste con risultati modesti: da un massimo del
22,8% di sì per l'abrogazione dell'ergastolo ad un minimo dell'11,5% per l'ulteriore liberalizzazione dell'aborto. Si concludeva pertanto la stagione referendaria e veniva neutralizzata l'arma più importante fino ad allora usata dai radicali nel Paese e nelle istituzioni.
La difficoltà di trovare modalità d'azione adeguate a trasformare la politica di una minoranza attiva in campagne maggioritarie, spinse Marco Pannella a tentare nuovi e più vasti orizzonti, mentre in Parlamento si dipanavano battaglie radicali di diritto e di libertà confliggenti con la prevalente impostazione del PCI ed in assenza di un ruolo attivo dei socialisti e dei laici. Tra gli anni Sessanta e Settanta il PR era cresciuto con la politica dei diritti civili imponendo con movimenti di opinione pubblica temi ed obiettivi a lungo emarginati dal mondo politico. Il salto qualitativo proposto dal leader radicale tendeva a spostare il centro degli interessi dal quadro nazionale a quello mondiale. E' così che la questione della "fame nel mondo" venne assunta come obiettivo centrale del Partito radicale all'insegna del "diritto alla vita" quale priorità nazionale e orientamento della politica estera.
Nel febbraio 1979 Pannella denunciò con uno sciopero della fame il carattere politico dello sterminio per fame accusando i Paesi ricchi di complicità con l'olocausto, risultato del disordine economico internazionale. Al governo veniva chiesto di adeguarsi alla "risoluzione 2626" delle Nazioni Unite che impegnava i governi industrializzati a versare almeno il 7% del loro GNP come aiuto pubblico allo sviluppo. La campagna radicale si sviluppò quindi per un quinquennio secondo un ritmo crescente: con marce pasquali annuali indirizzate alla Roma politica ed a quella cattolica, con un manifesto appello firmato da 54 premi Nobel (giugno 1981), con una risoluzione del Parlamento europeo ed un appello di Willy Brandt (settembre 1981), quindi con petizioni di sindaci italiani al presidente della Repubblica (marzo 1982), il tutto sostenuto da azioni non violente, scioperi della fame e della sete.
Nel novembre 1981, il congresso del PR, riaffermando il valore generale dell'obiezione di coscienza, da tempo praticata dai radicali non solo in campo militare, si dava un documento politico-programmatico per il futuro sotto forma di preambolo alo statuto del partito. In esso si sanciva l'imperativo morale oltre che politico dell'azione contro la fame e si proclamava il dovere di usare mezzi di lotta non violenta: "Proclama il diritto e la legge, diritto e legge anche politica del PR; proclama nel loro rispetto la fonte insuperabile di legittimità delle istituzioni, proclama il dovere alla disobbedienza, alla noncollaborazione, alla obiezione di coscienza, alle supreme forme di lotta non violenta per la difesa - con la vita - della vita, del diritto, della legge". L'impegnativa campagna trovò infine sbocco nell'approvazione da parte del Parlamento di una nuova legge per gli interventi straordinari contro lo sterminio per fame (primo firmatario il DC Flaminio Piccoli) che stanziava 1900 miliardi di lire per u
n periodo di 18 mesi e prevedeva l'istituzione di uno specifico sottosegretario-commissario.
La sconfitta referendaria del 1981 e l'assunzione di un tema di grande portata ma di difficile realizzazione quale la fame nel mondo, provocarono una divaricazione fra l'azione radicale in Parlamento e quella nel Paese. Nel corso del 1982, alcuni parlamentari eletti nella lista della "rosa nel pugno" lasciavano il Gruppo radicale della Camera che non riuscì a trasformarsi in un raggruppamento politico-parlamentare nuovo a partire dalle diverse provenienze degli eletti. Il Partito radicale, del resto, affermava nel suo congresso "che il regime partitocratico si era sostituito al sistema democratico costituzionale attraverso la consolidata violazione, negazione e sovversione dei principi costitutivi della legge fondamentale della Repubblica". Su queste basi, alle elezioni politiche anticipate del maggio 1983, furono sì presentate le liste del Partito radicale, ma contestualmente venne rivolto agli elettori un appello per lo sciopero del voto. Nonostante ciò le liste radicali conseguirono il 2,2% dei voti con l
'elezione di 1 senatore e di 11 deputati tra cui Toni Negri, capo di Autonomia operaia ristretto da quattro anni in carcerazione preventiva.
Negri che professava credenze tutt'altro che radicali e non violente venne tuttavia assunto come un caso dell'iniquità della carcerazione preventiva e delle distorsioni illiberali della giustizia italiana a danno dei diritti del cittadino, chiunque esso fosse. Successivamente, la sua fuga all'estero, una volta che la Camera ebbe votata l'autorizzazione all'arresto, impedì ai radicali di fare del "caso Negri" un più generale simbolo. La cosa fu invece resa possibile con la vicenda del popolare presentatore televisivo Enzo Tortora. Arrestato ingiustamente nel maggio 1983 con l'accusa di appartenere alla camorra, Tortora venne candidato dai radicali alle elezioni europee del giugno 1984 e, dopo l'ottimo risultato delle liste radicali (3,4% e suo personale (oltre 500.000 voti di preferenza), si fece arrestare rinunciando all'immunità e dimettendosi da parlamentare europeo. Potè così condurre da presidente del Partito radicale una esemplare battaglia giudiziaria coronata dal riconoscimento della sua completa inno
cenza. La campagna per la "giustizia giusta", perseguita dai radicali attraverso l'esemplare "caso Tortora", divenne di portata nazionale riguadagnando una larga attenzione popolare al Partito radicale che indicava già allora quei caratteri del regime che in seguito sarebbero stati da tanti riconosciuti come reali. "La crisi della democrazia italiana - si affermava nella mozione del congresso del novembre 1984 - si chiama partitocrazia. Lo sconvolgimento delle regole del gioco, l'esautoramento delle istituzioni rappresentative, la degradazione dello Stato di diritto, e il ristringimento delle libertà del cittadino, trovano origine nella patologica espansione dei partiti e nella eclissi della politica come conflitto dei valori e di legittimi interessi nel quadro delle regole democratiche e parlamentari. Di questa trasformazione della democrazia di partitocrazia e della degenerazione della politica in potere portano la responsabilità le forze politiche sia di destra che di sinistra, quelle di preteso governo e
quelle di cosiddetta opposizione".