a cura diAngiolo Bandinelli, Olivier Dupuis, Luca Frassineti, Silvia Manzi
SOMMARIO: Antologia di scritti radicali sulla nonviolenza.
INDICE:
Nonviolenza, tolleranza laica, rivoluzione liberale
di Angiolo Bandinelli
Preambolo allo Statuto del Partito radicale [149]
La nonviolenza e i demoni del secolo
di Marco Pannella [5557]
Cecoslovacchia, 1968
di Marco Pannella [112]
Aborto, 1977 [4390]
Osijek, 1991 [6094]
Il signor digiuno
Intervista a Marco Pannella [2605]
Diario di un digiuno
di Marco Pannella [5781]
Dove stanno la violenza e il ricatto?
Intervista a Marco Pannella [1027]
Il diritto all'identità e i mass media
di Marco Pannella [2796]
Non siamo disarmati
di Marco Pannella [1047]
L'arsenale del nonviolento
di Marco Pannella [1184]
Deterrenza o nonviolenza
di Marco Pannella [2597]
Pacifismo, nazismo, comunismo...
Intervista a Marco Pannella [4149]
Grazie, compagni assassini
di Marco Pannella [4495]
I nonviolenti e i violenti
di Marco Pannella [1035]
Nonviolenza: la nuova tolleranza laica
di Marco Pannella [840]
La nonviolenza è attiva
Intervista a Marco Pannella [3599]
Si fa presto a dire fame
Intervista a Marco Pannella [2594]
1975: salviamo Plioutch
di Marco Pannella [4491]
1991: appello ai serbi
di Marco Pannella [3820]
Diritti civili e diritto di natura
di Angiolo Bandinelli [4434]
Karl Popper, liberale e nonviolento
Intervista a Marco Pannella [5099]
La lezione del secolo
Intervista a Karl Popper [5114]
La nonviolenza: il cromosoma radicale
di Roberto Cicciomessere [704]
[Il numero tra parentesi quadra indica la scheda dell'Archivio Partito radicale di Agorà Telematica. Per ragioni di spazio e di leggibilità i testi qui presentati sono stati a volte ridotti o hanno subito lievi ritocchi puramente formali. In Agorà Telematica - Archivio Partito radicale si trovano oltre 6.000 testi sul e del Partito radicale dal 1955 ad oggi. Per consultarlo basta un personal computer, un modem e una linea telefonica attraverso cui collegarsi ad uno di questi numeri: 06/69920412 o 06/6990532]
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Bjelovar, 13 ottobre 1991
[...] Per dirti la verità non perdonerò mai loro di avermi costretto a ucciderli. Questo l'ho letto in un libro, e sono d'accordo. Credimi. Devi sapere che non sono un'eroe, sto morendo di paura, ma non posso non partecipare. Non posso crederci, ma è cosi.
Adesso mi è venuta in mente Budapest ed il nostro Partito radicale transnazionale, la lotta per i diritti degli emarginati, per la legalizzazione della prostituzione, per il libero mercato dei narcotici.
[...] Voglio che tu sappia che ho desiderato da sempre un'Europa senza frontiere con rispetto dei diritti dell'individuo, prima di tutto. Io non sono croato, ma la mia patria è la Croazia. Sono serbo di origine, dalla settima o dall'ottava generazione in Croazia. Non mi vergogno di questo. Non rinnegherò mai il mio nome e le mie origini. Mi dispiace che combattiamo proprio contro i serbi, ma non posso farci niente. La mia opinione è che combattiamo contro lo stalinismo più arretrato. In fin dei conti, loro hanno mandato i carrarmati, contro i loro studenti, nel marzo dell'anno scorso.
Ciao, e non rimproverarmi.
Momcilo Vukasinovic
Momcilo Vukasinovic, detto Momo, di nazionalità serba, disoccupato, scrittore per hobby, si era iscritto al Partito radicale nel 1990. Arruolatosi volontario nel 1991 nella Guardia nazionale croata, è' stato ucciso a Komletinci il 4 dicembre 1991.
Questo libro è' dedicato a lui
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NONVIOLENZA, TOLLERANZA LAICA, RIVOLUZIONE LIBERALE
di Angiolo Bandinelli
Verso la fine del secolo scorso un giovane, salito a Londra dalla nativa India per studiarvi da avvocato, sente con stupore coniugare nei circoli d'avanguardia londinesi, insieme ai termini "socialismo", "libertarismo", "democrazia", ecc., il termine "nonviolenza", che quegli intellettuali vengono riesumando dalle culture d'Oriente. Di lì a poco egli si imbatte in Lev Tolstoi, che sta meditando su questi stessi temi, e scambia con lui idee, progetti, utopie. Da allora, per tutta la vita, Gandhi cercherà di approfondire questo inedito intreccio di concetti e valori, mettendoli al servizio della rivoluzione nazionale indiana.
Tra difficoltà, incomprensioni, perfino errori - e anche al di là del linguaggio contingente con cui egli parla ai suoi connazionali - Gandhi riuscirà a introdurre quel termine inconsueto nel lessico della cultura politica moderna. Anzi. Grazie a lui, arriviamo oggi a capire che la "nonviolenza" può essere la chiave di volta di una affascinante, attualissima, sconvolgente interpretazione della Rivoluzione liberale (quella francese, ma anche quella americana...); la sola interpretazione anzi che possa restituire piena vitalità agli ideali con i quali essa accese gli animi di generazioni intere.
Per un paio di secoli - scrive Roberto Cicciomessere (v. pag. 71) -"contraddizioni spaventose hanno ferito la civiltà della tolleranza e della democrazia. In nome della dea Ragione si è ucciso e massacrato, in nome delle Nazioni e delle Rivoluzioni si sono fatte guerre e carnai". Solo con l'integrale, puntuale, rigorosa applicazione dei valori e della prassi nonviolenta - o meglio, solo nello sforzo per tradurli politicamente in concreti comportamenti e in leggi - gli ideali di libertà, di tolleranza, di democrazia sollevati dalla civiltà dei Lumi tornano a splendere ad esprimere il loro enorme, inesplorato potenziale. Come dice ancora Cicciomessere, "la nonviolenza politica può oggi costituire la forma più avanzata e integra della tolleranza laica".
I testi qui raccolti cercano di rendere esplicito questo essenziale nocciolo. Essi sono una sommaria selezione dell'ingente produzione di scritti che hanno accompagnato trenta anni di battaglie nonviolente del Partito radicale e del suo leader Marco Pannella: quelle battaglie con le quali il Pr ha conquistato in Italia (e non solo) eccezionali vittorie sociali, ideali e politiche. Tale origine "militante" rafforza la loro ambizione, di essere spezzone necessario di una "teoria" politica del moderno liberalismo, del dialogo e della tolleranza, della democrazia.
I temi, i problemi che vengono accennati sono enormi. Per affrontarli e tentare - solo tentare! - di risolverli è richiesta però oggi una nuova organizzazione delle lotte nonviolente. Un partito "nazionale" non è più sufficiente. Occorre ormai dare vita a un soggetto politico che sollevi sforzi e strumenti nonviolenti a livello transnazionale, superando gli angusti confini nazionali e confrontandosi attivamente con quei nuclei, o abbozzi, di "società universale" che le Nazioni Unite e i processi di integrazione federale in corso e in progetto su basi regionali (Europa, Africa occidentale, America latina ecc.) vengono configurando.
Solo questa dimensione appare ormai adeguata ad affrontare i tremendi temi politici, sociali, ambientali che sono di fronte a noi, all'alba del terzo millennio e mentre di nuovo sentiamo scatenarsi, minacciosi e arroganti, i demoni della violenza. Solo in un contesto transnazionale riacquistano slancio e significato anche i termini di "destra" e "sinistra", altrimenti logori e inutili.
Ci auguriamo che l'antologia possa costituire un primo valido "breviario" per chi voglia cooperare a far crescere tale partito: il Partito radicale, transnazionale e transpartitico, appunto.
Angiolo Bandinelli
Roma, Marzo 1994
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PREAMBOLO ALLO STATUTO
Il Partito radicale
proclama il diritto e la legge
diritto e legge anche politici del Partito radicale,
proclama nel loro rispetto
la fonte insuperabile di legittimita' delle istituzioni,
proclama il dovere alla disobbedienza,
alla non-collaborazione, alla obiezione di coscienza,
alle supreme forme di lotta nonviolenta
per la difesa - con la vita - della vita,
del diritto, della legge.
Richiama se stesso
e ogni donna e ogni uomo che voglia sperare
nella vita e nella pace, nella giustizia e nella libertà,
allo stretto rispetto, all'attiva difesa di due leggi fondamentali quali
la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo (auspicando che l'intitolazione venga mutata in "Diritti della Persona") e la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo
nonché delle Costituzioni degli Stati
che rispettino i principi contenuti nelle due carte;
al rifiuto dell'obbedienza
e del riconoscimento di legittimità, invece,
per chiunque le violi, chiunque non le applichi,
chiunque le riduca a verbose dichiarazioni
meramente ordinatorie, cioe' a non-leggi.
Dichiara di conferire all'imperativo del "non uccidere" valore di legge storicamente assoluta, senza eccezioni, nemmeno quella della legittima difesa.
approvato al 23· Congresso (straordinario), Roma 1980
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La nonviolenza e i demoni del secolo
di Marco Pannella
Lungo e complesso intervento tenuto nel corso del seminario "Il Partito radicale transnazionale e la nuova Europa" (Praga, 15-16 e 17 giugno 1990). Marco Pannella approfondisce i temi teorici del partito a cominciare dalla rivendicazione intransigente "della libertà e quindi della responsabilità dell'individuo", vale a dire della democrazia politica.
[...] Noi venivamo a farci arrestare per problemi concreti o, nel settembre del 1968, riuscivamo nel vero e proprio miracolo - a livello del partito di trecento o cinquecento iscritti che eravamo - di manifestare alla stessa ora contro l'occupazione della Cecoslovacchia, a Mosca, a Sofia o a Berlino est, in tutti i paesi del Patto di Varsavia che occupavano o aiutavano l'occupazione della Cecoslovacchia. Io ricordo il testo del volantino che distribuivo; ricordo che in bulgaro le copie erano circa tremila, ne distribuimmo 2.600 (voglio recuperare quel testo, attraverso la polizia segreta bulgara, come documento storico). Scrivevamo in bulgaro, a partire da una interpretazione della legalità costituzionale bulgara, per sostenere che vi era oppressione dei bulgari ed era un atto incostituzionale e anticostituzionale, secondo la stessa Costituzione bulgara, essere fra le forze occupanti in Cecoslovacchia o sostenere le forze occupanti in Cecoslovacchia.
Ebbene, in quei giorni sicurissimamente gli ambasciatori degli Stati occidentali, gli uomini d'affari della Fiat, della Volskwagen, della Ford venivano in viaggio d'affari in queste capitali nella assoluta convinzione che l'ordine totalitario nell'impero sovietico era necessario al mondo.
[...] L'indifferenza, identica culturalmente a quella che nel 1938 portò agli accordi di Monaco dell'Inghilterra e della Francia con la Germania nazista e l'Italia fascista, si è ripetuta anche durante la guerra fredda, da parte dell'occidente pacifista. Mai, noi come partito, il partito della nonviolenza gandhiana, mai siamo stati un partito pacifista. Il pacifismo ha prodotto nella storia crimini che vanno ancora illustrati: i pacifisti francesi, i pacifisti occidentali, hanno assunto a lungo, nei confronti del fascismo e del nazismo, una posizione neutrale fra i propri governi e quelli nazisti e fascisti; volevano soltanto il non-armamento dei propri governi, e che non si reagisse in modo armato alle violenze dei nazisti e dei fascisti.
Il pacifismo degli anni '50, di ispirazione comunista, discende nettissimamente da quel pacifismo vile ed irresponsabile; il nonviolento, e noi siamo sempre stati nonviolenti, va invece all'attacco delle radici della violenza e delle manifestazioni della violenza ed è nonviolento perché crede che le armi della nonviolenza sono più forti - potrei dire paradossalmente, tra virgolette, più violente - ma dico più forti, nel medio e lungo termine, delle armi della violenza. Perché le armi della nonviolenza sono le mani nude, i corpi nudi di miliardi di persone, delle donne e degli uomini, mentre la forza della violenza militare si basa sulla riduzione in schiavitù di costoro per mandarli a morire nelle guerre: e la scelta violenta militare si traduce sempre in una catastrofe. Tutti i miti di questo secolo, i miti che nell'occidente sono stati fortissimi, proprio miti da mass-media, da poster - Che Guevara, i martiri, gli eroi - sono il prodotto, il portato della scelta dell'occidente a favore di queste opposizion
i contro quelle, per esempio, dei monaci buddisti che rappresentavano la stragrande maggioranza delle popolazioni e che furono battute perché l'occidente liberaldemocratico e socialdemocratico ha sempre, in questo secolo, creduto e puntato sulle armi tradizionali, su una concezione tradizionale e vecchia dei rapporti internazionali e anche delle guerre di liberazione. In particolare penso, ad esempio, alla dittatura indocinese, con la realtà della Cambogia, del Vietnam...
Per arrivare il più rapidamente possibile a parlare del Partito radicale qui ed oggi, faccio una premessa [...]. Voglio inserirmi in un dibattito che si è aperto qui a proposito della parola "compagno". Quando avevamo quasi tutta la sinistra in Italia su posizioni staliniste, e noi eravamo ferocemente antistalinisti e anticomunisti, noi dicemmo che non volevamo lasciare a quella sinistra nemmeno la parola "compagno", perché "compagno" nella etimologia latina è splendida parola: è chi spartisce il pane con l'altro.
[...] Devo dire che "compagno" non può tradursi in "tovarich", perchè non ha quella matrice, quell'etimologia, ne ha una addirittura di valore di scambio, di socio [...]. Così come non accetto che "compagno" si traduca in "camarade", che ha una matrice più militare, compagno di camera, di camerata; io "camarade" non lo dico: i fascisti si chiamavano camerati.
[...] Cominciamo con lo stabilire che se noi diciamo "compagno", non vogliamo che venga tradotto "tovarich"; bisognerà tradurlo in modo etimologico, semmai, e non politico, perché nel periodo nel quale compagni, camarades, tovarich erano la stessa cosa, si è usato violenza al valore della parola compagno, per motivi di omologazione politica...
[...] Noi oggi abbiamo dinnanzi a noi uno scenario che è tragico: stiamo assistendo a scelte postcomuniste che sono pericolose in termini di libertà e di diritto, anche a breve termine e non solo nel medio termine. In Romania la situazione è chiara: ci sono gli eredi di Ceausescu al potere; per potere restare al potere hanno assassinato "ceausescamente" Ceausescu, lo dicemmo subito, era evidente. Coloro che si presentano come avversari e nemici vittoriosi di Ceausescu sono gli eredi di Ceausescu, che per poter prendere l'eredità hanno ammazzato il padre, secondo le abitudini della loro famiglia che avevano ben acquisito [...]. Non ci illudiamo per quanto sta avvenendo in Cecoslovacchia: la cultura politica del Presidente Havel, e lo dico con immenso rispetto, con immensa simpatia, è la stessa cultura che ha portato l'Europa due volte ai disastri e persone ammirevoli come Havel a morire assassinati.
Noi stiamo, voi state ricostituendo l'Europa del 1919. Non è vero che l'impero austro-ungarico sia morto per disfacimento proprio; è morto perché era l'unica realtà europea plurinazionale, plurietnica, plurireligiosa ed è stata assassinata da un secolo che ha fatto proprio, come proprio demonio, il romanticismo nazionalista, il romanticismo nazionale. Tutto quello che è venuto dopo - nazismo, fascismo, guerra mondiale e comunismo - sono la conseguenza anche di questo.
Perché mai l'Europa del '19, che dopo pochissimi anni ha prodotto fascismo o nazismo o povertà , dittature o comunismo, era un'Europa in gran parte socialdemocratica? Voi credete che non vi sia stata nessuna responsabilità ? Certo, gli assassini erano gli altri, e loro sono stati gli assassinati, ma è sul terreno della loro cultura che gli assassini hanno potuto vincere o che hanno potuto vincere così facilmente: la cultura socialdemocratica e liberaldemocratica dell'occidente ha stabilito che le cose andavano benissimo e che in base ai nuovi trattati di Vienna, Yalta, i popoli dovessero essere della stessa religione civile e statuale dei loro sovrani.
Ebbene, abbiamo visto che cosa ha prodotto la divisione per Stati nazionali, l'abbandono dell'internazionalismo, della internazionalità e della transnazionalità: pensiamo alla Spagna, alla Francia che si fa battere in trenta giorni dai nazisti. Tranne lì dove la democrazia continentale è stata socialdemocratica e monarchica (in Scandinavia, per esempio), conseguenza del crollo degli stati nazionali è stato il comunismo o il fascismo. E adesso che cosa si ricostituisce? Lo Stato nazionale cecoslovacco, lo Stato nazionale ungherese.
Democrazia, per noi, significa superare il divorzio tra politica e potere, possibilità di tradurre questo in politica. Lo Stato nazionale non può farlo; credo che semmai noi dovremo proporre allora lo Stato danubiano, nel senso dell'Agenzia del Danubio, perché allora avrebbe già un senso, sul territorio, sul modo con cui le cose vivono oggi.
Ecco che cosa c'è alla base della nostra posizione federalista europea: vogliamo porre il problema tragico della Seconda Società delle Nazioni. Abbiamo l'ONU, ma se non poniamo il problema della forza di legge, della forza giuridica planetaria, se non riusciamo - vedete i problemi del diritto? - se non riusciamo a fare una lotta perché quello che si approva all'ONU (tra virgolette, perché questa non è più l'ONU) abbia forza cogente, abbia forza di legge, noi riviviamo esattamente, in modo allucinante, lo scenario degli anni '30, e lo stiamo vivendo a Praga.
Dirlo a tempo non basta...
[...] Un partito nonviolento...è un partito di gente che si unisce perché ne ha la felicità, perché ne ha la convinzione, ne ha il senso della necessità. Un partito nonviolento è la risposta giusta - in via teorica - alla società dell'opulenza suicida, perché attraverso le tecniche nonviolente e il vivere nonviolento, attraverso la propria astensione felice, non sacrificale, del cibarsi, attraverso il provocare il potere e dire "mettimi pure in galera, così si cambieranno le leggi", c'è la lotta degli umili, la lotta di coloro che alla fine della giornata non hanno nelle mani bottino di nessun tipo.
[...] Vorrei trattare brevemente altri temi.
Il Sud Africa, innanzitutto. E veramente drammatico o tragico il modo con cui viene affrontata la situazione sudafricana.
Io ho chiesto a Mandela, davanti a tutti i parlamentari [europei, n.d.t.]: "Il fatto che la ANC [African National Congress n.d.r.] rinunci alla violenza, che è iscritta nelle sue carte non solo statutarie, ma anche nelle sue mozioni politiche di due mesi fa - e Mandela la chiama "le ostilità" - con il gioco di dire che la guerra civile è come una guerra eccetera, il passare dalla violenza alla nonviolenza, il tornare alle origini della ANC (che erano gandhiane) è una concessione che voi volete fare all'avversario o è necessario per la crescita della ANC, la crescita del governo nero e dell'alternativa del governo anche dei neri?" Non ha nemmeno risposto, perché non poteva rispondere, perché non vede le cose così. La tesi ufficiale è: solo quando avremo realizzato l'obiettivo noi smetteremo le ostilità. Ma le ostilità tu le fai anche quando sei al potere! E la tesi di Fidel, è la tesi di tutte le dittature del proletariato.
[...] Mandela aveva stabilito che si doveva lottare per liberare il popolo attraverso l'organizzazione militare della resistenza, secondo la cultura di quelle genti, e l'aveva organizzata: è stato arrestato e nel suo processo lui ha rivendicato la moralità della scelta militare e della scelta violenta, e ha detto che questo era necessario: "Voi fate l'apartheid, per liberarci è necessario fare la guerra..." Ora, in qualsiasi paese, in America, in Inghilterra, in Italia, in Francia - non parliamo qui da voi dove c'era la pena di morte - sarebbe stato giustiziato o avrebbe avuto l'ergastolo.
Il problema del Sud Africa è quello, che noi poniamo anche, dei morti neri, dei tremila morti neri - la stragrande maggioranza dei quali è stata ammazzata da altri neri - e una buona parte di questi sono accusati di essere degli assassini perché collaboratori dei bianchi o della tribù zulu, invece che dell'altra.
Se questa classe dirigente va al potere, io non vorrei che noi avessimo la africanizzazione storica anche del Sud Africa, perché se voi andate al di là dei confini dell'area di influenza della tribù bianca (con la perversa, aberrante soluzione storica dell'apartheid) abbiamo molto peggio: tutti gli altri Stati, anche a livello teorico e di diritto, e a livello pratico e di vita, sono l'inferno, e la riduzione a quell'inferno è una cosa che da nonviolenti dobbiamo temere, temere anche da democratici. Dobbiamo porci la libertà e il coraggio di dire l'assioma dei nonviolenti: qualsiasi guerra vede vincere i generali e morire i popoli. La scelta violenta di liberazione, se si compie, lascia sul terreno la morte per sempre di milioni di persone, di milioni - in genere - di contadini.
Ecco, abbiamo rotto e dobbiamo rompere con questa storia.
In Medio Oriene avviene un'altra cosa dolente.
Vengo accusato di essere un feroce pro-israeliano, solo perché io mi preoccupo di porre il problema non solo della Palestina, ma di tutto il Medio Oriente. Non voglio la riduzione del Sud Africa al resto dell'Africa, come non voglio la riduzione della Palestina al resto del Medio Oriente: sono guidato da una visione nonviolenta, concreta, per cui per me chi muore muore, se è nemico o no non mi interessa, non è questo l'elemento fondamentale.
E ancora, sul Tibet.
Un anno dopo Tien An Men, l'occidente vuole togliere le sanzioni alla Cina. Tutti i democratici del mondo si occupano di Mandela o di Arafat o dei loro diritti mentre sul Tibet, come sui cambogiani, non dicono una parola, o dicono "una" parola e non fanno nessuna lotta. Noi rischiamo di avere un mondo nel quale i valori dell'impero sovietico rinnovati diventeranno ancora più generali, di massacro delle libertà e delle persone.
[...] Un altro esempio: il proibizionismo. Oggi in mome del proibizionismo si stanno facendo nel mondo cose che si sono fatte con il nome di fascismo e con il nome di comunismo. In nome del proibizionismo negli Stati Uniti d'America hanno stanziato trecentomila nuovi posti-carcere, e solo per problemi di bilancio ancora non si prevede la formazione di grandi campi di lavoro per milioni di persone: ci andranno i poveri, gli oppositori e i diversi, non quelli che avranno i grandi avvocati o grandi solidarietà internazionali. E così abbiamo l'America Latina, la Colombia e gli altri paesi distrutti dalla guerra [contro il narcotraffico, n.d.r.], perché è guerra fisica e vi si usano o si vogliono usare più o meno i metodi del Vietnam.
In occidente oggi non si fa una campagna contro la pena di morte perché, grazie al proibizionismo, la tesi della estensione della pena di morte trionfa negli Stati Uniti, nel cuore dell'impero occidentale. Bisogna che cominciate, che cominciamo a fare delle manifestazioni a Mosca, e si continui a farle a Praga, dinnanzi alle ambasciate dei paesi occidentali dove si sta praticando la pena di morte e si stanno assassinando delle persone; questo solo con il Partito radicale, forse, tecnicamente possiamo arrivare a farlo.
[...] State attenti, voi che siete magari o più giovani o più lontani, o vi ritenete più digiuni di politica: rispetto a questi problemi siamo tutti ugualmente disarmati. Dobbiamo armarci e l'armarsi è costituire, se è possibile, questo partito radicale nei giorni che vengono, facendo ciascuno qualche miracolo, perché altrimenti sono convinto che per i più "saputi" o per i più esperti, o "intelligenti" (tra virgolette...) di noi, non ci sarà che da ricominciare da zero...
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Cecoslovacchia, 1968
di Marco Pannella (1)
Cari amici,
abbiamo deciso con alcuni compagni romani di iniziare uno sciopero della fame a oltranza per richiedere lo sgombero totale delle truppe sovietiche dalla Cecoslovacchia o comunque per appoggiare nelle trattative in corso i cecoslovacchi. Intendiamo così anche sollecitare il passaggio all'azione del Partito Comunista Italiano, perché le sue positive dichiarazioni non divengano un alibi per non far nulla, o per limitarsi ad azioni di vertice, incontrollabili e a noi stessi estranee, come a tutti i comunisti di base e alle masse.
Forse, quando riceverete questo espresso, tutto sarà già superato. Nel caso contrario, riteniamo che i 'Gruppi spontanei' possano assicurare un contributo serio per democratizzare e concretare il sostegno italiano alla lotta del popolo cecoslovacco.
Ci auguriamo che possiate anche voi far propria questa nuova iniziativa. Non crediate che sia 'inerme' e non-politica. Anche sul piano della efficacia, se le circostanze (come non speriamo) dovessero richiederlo, se in numerose città d'Italia, contemporaneamente, fosse in corso uno sciopero della fame, onestamente e rigorosamente condotto, l'eco giornalistico e politico non potrebbe non essere rilevante, per lo meno in rapporto alle energie che vi avremo impegnato.
Inoltre questa iniziativa non distoglierebbe necessariamente dal lavoro dei Gruppi alcuna energia. Vi preghiamo di farci conoscere le vostre opinioni in proposito. Se doveste decidere di fare anche voi il digiuno, vi invitiamo a mettervi subito in contatto con noi telefonicamente o di informarci telegraficamente.
Agosto 1968
(1) Lettera di Marco Pannella ai "Gruppi spontanei" di impegno politico-culturale per la nuova sinistra. Lo sciopero della fame durò circa 15 giorni. I radicali organizzarono anche manifestazioni a Sofia, Mosca, Berlino est, nel corso delle quali vennero arrestati ed espulsi.
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ABORTO, 1977
[...] Il 9 gennaio 1977, i carabinieri fanno irruzione nella clinica del Cisa (Centro italiano per la sterilizzazione e l'aborto) di Firenze dove venivano praticati gli aborti con il metodo Karmann, arrestando il dottore che la dirigeva e i suoi assistenti ed identificando e denunciando le oltre 40 donne che vi si trovavano. Il 13 gennaio viene arrestato all'alba, nella sua abitazione, il segretario nazionale del Partito Radicale, Gianfranco Spadaccia, che si era assunto tutta la responsabilità politica per la promozione del CISA e per la gestione della clinica di Firenze. Sono colpite da mandato di cattura anche Adele Faccio ed Emma Bonino, del CISA, che però si trovano in Francia. Marco Pannella riceve una comunicazione giudiziaria. Il 15 gennaio in tutta Italia si svolgono manifestazioni per la liberazione di Gianfranco Spadaccia e degli altri arrestati a Firenze. Il 18 gennaio personalità del mondo politico e culturale sottoscrivono un appello per l'immediata liberazione di Spadaccia; fra essi ci sono il
poeta Eugenio Montale, lo scrittore Ignazio Silone e molti altri. Il 21 gennaio Marco Pannella ed Adele Faccio annunciano da Parigi la prossima apertura di altre cliniche CISA in Italia. I giorni 24/25/26 gennaio oltre 7000 persone partecipano alla Conferenza Nazionale sull'Aborto promossa dal Partito Radicale e dal Movimento di Liberazione della Donna. Domenica 26 sul palco del teatro Adriano a Roma, davanti a migliaia di persone, viene arrestata Adele Faccio, rientrata clandestinamente in Italia. Nel suo intervento, che precede l'arresto di Adele Faccio, Marco Pannella afferma: "il nostro primo obiettivo è ottenere che le compagne, le sorelle costrette ogni giorno allo immondo aborto di classe, clericale e di massa abbiano al più presto riconosciuti i loro diritti alla vita e alla felicità". "L'aborto di Stato è una violenza che va interrotta e solo alla donna spetta il diritto di gestire il proprio corpo". C'è oggi uno scontro fra due associazioni a delinquere, quella radicale che con metodi nonviolenti
lotta per modificare le norme liberticide del codice penale "che governi, parlamenti e partiti a trent'anni dalla Costituzione continuano a imporci come legge" e quella formata da governi e parlamenti che hanno omesso di sbarazzare il campo da norme fasciste che si pongono "contro la Costituzione e contro l'umanità". "Da nonviolento che non pretende d'imporre in alcun modo le proprie idee a chi non è d'accordo, esigo che i violenti di Stato, coloro che c'impongono le loro leggi di classe, alle quali devono dare in qualche misura un'apparenza liberale e repubblicana, rispettino almeno la loro stessa legalità". Pannella invita poi il commissario di polizia e il colonnello dei carabinieri di servizio a procedere all'arresto di Adele Faccio nel silenzio totale dell'assemblea: "Adele non va al martirio, va al suo posto di lotta e sa che con questo le cose per le quali si batte sono già acquisite... Allora, arrivano?" (1)
Gennaio 1977
(1) Resoconto dell'arresto di Adele Faccio, radicale, presidente del CISA, avvenuto durante una grande manifestazione a
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Roma.OSIJEK, 1991
[...] Nella notte di Capodanno 1991 i parlamentari Marco Pannella, Roberto Cicciomessere, Alessandro Tessari, Lorenzo Strik Lievers, i membri del Consiglio federale del Partito radicale Olivier Dupuis, Lucio Bertè, Josip Pinesic si affiancheranno, senz'armi, alle forze di difesa croate in tre punti del fronte. Alcuni di loro saranno presenti anche presso le postazioni della brigata internazionale, il cui comandante, Edoardo, è un iscritto al Partito radicale di Budapest. Renato Fiorelli, consigliere comunale di Gorizia, infermiere, presterà il proprio servizio presso le strutture di sanità militare dell'Ospedale di Osijek, che è stato sinora uno degli obiettivi più colpiti dalle artiglierie serbe.
Marco Pannella, nella sua qualità di deputato europeo, si è incontrato con gli osservatori della Comunità europea presenti attualmente a Osijek.
Nella giornata di domani, 1 gennaio, Marco Pannella si recherà a Nova Gradiska, oggetto in questi giorni di violentissimi bombardamenti. (1)
Materialmente e simbolicamente, politicamente e civilmente indosso oggi l'uniforme dell'esercito croato perchè dal buon uso di questa uniforme passa oggi la lotta per il diritto alla vita e la vita del diritto, di tutti noi, di noi serbi, di noi albanesi, di noi macedoni, di noi italiani, tedeschi o francesi, di noi russi o inglesi, di noi europei, degli abitanti del mondo. Passa l'ideale e la speranza di democrazia e di pace.
Sono grato e fraternamente fiero di questo che è evidentemente un atto di fiducia e una volontà di onorarci e onorarci per quel che il Partito radicale della nonviolenza transnazionale e transpartito rappresenta e tenta di costruire nel nostro tempo e nella nostra società.
Se saremo sufficientemente forti, da queste ore e da questa iniziativa comincerà a organizzarsi un sistema di "brigate della nonviolenza", come embrione della forza del diritto internazionale per la tutela dei diritti della persona e dei popoli nel mondo.
Come rappresentante del popolo europeo del Parlamento Europeo, con i miei amici eletti democratici o militanti del Partito Radicale, siamo qui contro il riproporsi dell'Europa della vergogna che negli anni trenta rese possibile, con il suo cinismo e i suoi governanti pseudodemocratici, allora come oggi, l'affermarsi del fascismo del nazismo, del consumismo, il dilagare delle guerre e dei massacri.
Per questa uniforme che oggi porto ho il dovere di testimoniare del nostro essere croati, europei, anche soldati.
Lo faccio augurando in primo luogo alle donne ed agli uomini serbi di tutte le repubbliche ed ovunque oggi residenti, ed a tutti i loro cari, un anno di libertà, di democrazia, di pace, di tolleranza, di felicità, di buona salute.
Noi rispondiamo con amore e speranza all'aggressione di chi li vuole aggressori, oppressi, assassini o assassinati; dalle trincee nelle quali trascorreremo questa notte ed i giorni che verranno noi lottiamo, e lotteremo, anche per loro, da fratelli e sorelle, malgrado lo strazio che ci viene portato e del quale loro sono pressoché obbligati strumenti.
[...] I nonviolenti, gli antimilitaristi, i federalisti democratici, gli europei, gli internazionalisti, le persone di buona volontà del Partito radicale, transnazionale e transpartito, ecologista, rivendicano l'onore, il dolore, la felicità di essere su questo fronte per la libera Croazia, la libera Serbia, il libero Kossovo, la libera Macedonia, la libera Bosnia Erzegovina, la libera Europa. Dove c'è libertà e democrazia lì ci sarà pace e tolleranza, giustizia e fraternità. (2)
(1) Testo del comunicato stampa che annunciava l'iniziativa
(2) Dichiarazione-appello di Marco Pannella
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Il signor Digiuno
Intervista a Marco Pannella
[...] Quando digiunò la prima volta?
"Nel 1968 contro i carri armati di Praga".
Quanto durò al massimo un suo digiuno?
"Sessantadue giorni".
Quando?
"Nell'estate del '74".
Quanti chili perse?
"Trentadue".
L'accusano di digiunare all'Italiana, anzi alla romana, con cappuccini e maritozzi. Più che digiuni insomma le sue sarebbero diete.
"Anche la dieta è digiuno. Che sono centottanta calorie contro le tremilacinquecento di cui abbiamo bisogno? Eppoi gli ultimi scioperi della fame e della sete sono stati totali".
[...] C'è un nesso tra il digiunatore politico e chi non mangia per mancanza di cibo?
"Sì, la differenza atroce è fra libertà e un'immonda violenza che si subisce".
Nei suoi digiuni non c'è un po' di vittimismo?
"No. Quando digiuno mi rado due volte al giorno e indosso lindi 'girocollo'. Non voglio commuovere nessuno".
Se non si parlasse tanto dei suoi digiuni, seguiterebbe a farli?
"Digiuno perché non si parli più dei miei digiuni, ma delle 'nostre' idee. Delle 'nostre' e di quelle 'altrui'".
[...] Quante volte è stato fermato?
"Infinite".
E arrestato?
"Una volta in Bulgaria, al tempo dei carri armati di Praga, e una volta tre anni fa, a causa della droga".
Processato?
"Almeno centocinquanta volte".
E condannato?
"In via definitiva, una".
Siete dunque un partito in libertà provvisoria...
"Provvisoria? Provvisorissima!"
Chi sono i suoi amici politici?
"Tutti i socialisti laici, libertari, umanisti".
E i suoi nemici?
"Personalmente nessuno".
E non personalmente?
"Faccia lei".
Senza di lei, ci sarebbe stato il referendum per il divorzio?
"Senza di 'noi', no".
Chi vi finanzia?
"Noi".
La sovvenzionano anche dall'estero?
"Sì, i nostri immigrati".
Come campa?
"Di collaborazioni giornalistiche ed editoriali".
Quanto spende, al mese?
"Quarantamila lire di affitto e trentamila di sigarette".
[...] Che farebbe se i radicali, minoranza d'elezione, diventassero maggioranza?
"Ci dissolveremmo in una unità libertaria e socialista più ampia. Ma noi radicali siamo già interpreti di maggioranza".
Le piace, andare in televisione?
"A questo costo, no".
[...] Che società vuole?
"Una società libera, socialista, umanista, volteriana. Una società senza violenza, né pubblica, né privata".
In nome della nonviolenza, lei ogni giorno minaccia il suicidio, cioè il digiuno fino alla morte. Ma non è anche questa violenza?
"No, perché ogni volta reagiamo ad un tentativo di assassinio contro di noi e le 'nostre' idee".
L'hanno definita un 'profeta disarmato', come Machiavelli definì Savonarola. Non teme di far la fine del frate domenicano?
"No. C'è in noi un po' di Savonarola, un po' del 'Principe', un po' di Machiavelli, ma siamo gente nuova".
Ottobre 1977
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Diario di un digiuno
di Marco Pannella
Dal 1· ottobre all'8 novembre 1972 Marco Pannella ed altri militanti mettono in atto un digiuno collettivo, all'insegna "Natale a casa per Valpreda e gli obiettori". Pietro Valpreda, anarchico, era imputato della strage compiuta a Milano nel 1969, quando una bomba uccise parecchie persone innescando un lungo periodo di violenze e illegalità; gli obiettori di coscienza non avevano ottenuto la legge per ottenere la quale si mobilitavano da anni. I digiunatori chiedevano al parlamento che si impegnasse per "dibattiti e voti sull'obiezione di coscienza" e per "la riforma di una norma del codice di procedura penale" che consentisse "l'immediata scarcerazione di Pietro Valpreda" e di altri imputati. I presidenti della Camera, il socialista Sandro Pertini, e del Senato, il cattolico Amintore Fanfani (che aveva appena ricevuto da Mosca il Premio Lenin per l'ecologia), interposero i loro buoni uffici affinché le due Camere votassero, alla fine, le leggi.
1· ottobre
Sono al congresso anarchico, a Rimini. Mi raggiunge una telefonata, nella sala dell'Arengario, da Roberto (1): a Peschiera [carcere militare italiano, n.d.r.] i compagni hanno iniziato lo sciopero della fame; sono dunque d'accordo anche loro e dal carcere assicurano il loro contributo militante e di lotta. La nostra decisione diventa ora esecutiva. A Roma cominciano in ventitré; questa volta, da Angiolo, a Gianfranco, da Aloisio e Ennio e Graziana e Lucia a Vincenzo e Enzo (2), medici, professori, giornalisti, studenti, vecchi e nuovi hippy e femministe, ci stiamo tutti. Prevedo che sarà più dura che in passato. Ieri sera, prima di partire, m'è arrivata una lettera di Pietro Valpreda, dal Policlinico, piuttosto disperata e furente [...].
11 ottobre
Domani riparto per un processo a Milano. L'8 i compagni di Reggio Emilia avevano organizzato un comizio in piazza. Era domenica mattina e c'era gente. Abbiamo distribuito molto materiale, cartoline da inviare a parlamentari, gruppi, partiti, presidenze varie. Mi sento abbastanza bene. Rispetto ad altri digiuni sono più attento a prendere regolarmente le vitamine: ho un po' paura per alcuni seri inconvenienti agli occhi avuti in passato. Sei compagni hanno dovuto interrompere, quattro colpiti da collasso. Al Pantheon [famosa piazza romana, n.d.r.] ormai arriva molta gente. Si raccolgono circa ventimila lire al giorno; possiamo così far stampare altre cartoline e documenti, che cominciano ad arrivare in Parlamento. Abbiamo spedito ad ogni deputato una lettera personale per sottolineare la modestia delle nostre richieste: non chiediamo altro che la fissazione di un calendario di lavori parlamentari per dibattiti e voti sull'obiezione di coscienza e sulla riforma di una norma del codice di procedura penale che c
onsentirebbe l'immediata scarcerazione di Valpreda, Gargamelli, Borghese (3). Non entriamo nemmeno nel merito dei progetti di legge: vogliamo solo garantire al Parlamento stesso, oltre che a noi, la fine di questa tragicommedia per cui da venticinque anni non si vota una legge che la Costituzione esige, e da diciassette anni si condannano e incarcerano gli obiettori [...].
20 ottobre
Il segretario generale del Senato ci invia un lungo telegramma annunciando che il 25 ottobre verrà assegnato, con procedura d'urgenza, il progetto di legge sull'obiezione di coscienza alla Commissione difesa. Roberto, che è di nuovo colpito da mandato di cattura, è ancora una volta il perno su cui ruotano tutte le iniziative. Anche Alberto (4), ormai, è latitante: non ha risposto per la seconda volta alla chiamata. Sto viaggiando molto e sono stremato, e spaventato in fondo, dalla sordità che ci viene opposta. "L'Espresso", "Il Mondo", "L'Avanti", "La Voce Repubblicana" [organi di stampa, n.d.r.] tacciono completamente, la cosa non li riguarda. Se vinceremo, non si mancherà certo di scrivere alcune moralistiche e pregevoli cose sull'importanza e serietà della legge sull'obiezione o quella di riforma del codice di procedura penale. Ma intanto, malgrado sollecitazioni, non un rigo su questi obiettori [...].
23 ottobre
Ci siamo riuniti, due sere fa. Ero in crisi, indeciso. Alberto, che ha intanto ricevuto dalla Francia circa duemila firme di solidarietà raccolte dai compagni antimilitaristi nonviolenti, sembra sereno. A questo punto, dice, non abbiamo che da affrontare la realtà che abbiamo dinanzi. Le nostre richieste vengono da tutti ritenute giuste, e modeste; compagni in carcere sono sempre più numerosi e più perseguitati, e si tratta di una pura violenza fascista dello Stato. Allora, mutiamo formula: il digiuno prosegua fino alle estreme conseguenze. Chi conosce la nonviolenza, quella vera, il patrimonio di dibattito, di attualità e di forza politica che ormai la nutrono, non può non comprendere che Alberto ha ragione.
Abbandonare ora significherebbe oltretutto ipotecare e screditare questa forma civilissima e grave di lotta, la più efficace per chi operi dal basso, contro il potere; e significherebbe mollare mentre il Parlamento non può ormai non riconoscere le nostre buone ragioni senza rinnegarsi.
2 novembre
Siamo a Torino, al congresso del Partito radicale [...]. Siamo nei sottosuoli di palazzo Carignano, concessi dall'Unione culturale. In circa un centinaio appollaiati sulle scale, seduti sui tavoli, per terra. Il dibattito è lento, grave. Non un colpo di tosse, un bisbiglio. Ciascuno parla consapevole d'una responsabilità rara, pesante, eccezionale. Ascolto questo silenzio e queste parole con profonda commozione. D'un tratto - da molto vicino - giunge un po' di Albinoni, poi di Mozart. Sono le prove per un concerto di domani sera. Parlano, uno dopo l'altro, senza interrompersi, fratelli e sorelle da più di vent'anni, compagni e amici il cui volto ho scoperto solo da qualche ora.
E anche un momento duro, doloroso. Inconsapevolmente, con il loro affetto, ma anche con la loro intelligenza fanno di Alberto e di me degli imputati, in un dialogo in cui ancora una volta, in questo incredibile partito, il divorzio fra vita pubblica e vita privata viene completamente cancellato. Poi, lentamente, all'ingiunzione di cessare comunque e subito, dalla ricerca appassionata, nasce la decisione di una nuova serie di iniziative immediate. Da venti, coloro che annunciano il loro digiuno fino alle estreme conseguenze, diventano sessanta, poi ottanta. All'appello che, dopo il mio viaggio a Parigi e la conferenza stampa organizzata da Jean-Marie Muller, Nenni, Montale, Silone, Aragon, i premi Nobel Bohl, Jacob, Kastier [personalità francesi e italiane, n.d.r.] i cardinali Lercaro e Alfrink, e tante altre prestigiose persone hanno lanciato, facendo incondizionatamente loro le nostre richieste, s'aggiungono ora le chiese protestanti, parrocchie e comunità ecclesiali.
3 novembre
Il congresso del partito si è aperto con un digiuno collettivo di tutti i partecipanti e la devoluzione delle somme così risparmiate (oltre 300.000 lire) alla lotta per l'obiezione di coscienza [...] Siamo ridotti all'osso [...].
Alberto è dimagrito di 12 chili, io di 19: siamo all'osso entrambi. Sappiamo già che ormai sono e saranno bruciate cellule che non si ricostituiranno, anche se non è valutabile ora l'entità dei danni. So, per precedenti esperienze, che i capelli cadranno, anche i denti e la vista ne risentiranno, come la memoria e altro.
Nel pomeriggio ci comunicano che saremo ricevuti il 7 da Fanfani. Lunghissimi telegrammi ci giungono da alcuni giorni dal segretario generale del Senato, con tutto tranne l'essenziale. Se la commissione Difesa deciderà a tempo, Fanfani annuncia che porterà i due progetti in aula anche prima del 3 novembre, per la discussione e il voto. E molto, ma noi chiediamo date terminali, magari lontane, ma sicure; non date iniziali.
Pertini, che un po' ingenerosamente abbiamo tempestato d'appelli e critiche, ci telefona invece da Nizza. E furente, ci sembra di capire, oltre che addolorato e preoccupato. Nessuno gli aveva mai fatto sapere che intendevamo chiedergli di riceverci: a noi, parlamentari e altri giornalisti ci avevano assicurato di avergli invece trasmesso questa richiesta. Chiede insistentemente della nostra salute, propone di interrompere le sue brevissime vacanze per venirci incontro, l'indomani, anche a Genova. L'indomani lo raggiungiamo a Nizza: il congresso del partito finisce alle 4 del mattino del 4 novembre. Alle sette, partiamo.
4 novembre
Alle 12 vediamo Pertini arrivare sotto i portici delle Galeries Lafayette, pipa accesa, maglioncino beige, pantaloni di fustagno. C'è il sole, ma sento aria di burrasca. Ci guarda, come per accertarsi che possiamo sopportare una lavata di capo, e come premessa, dice che debbo piantarla con i miei metodi: già due anni fa, per il divorzio, non convinto di alcune sue opinioni e consigli gli inviai una lettera aperta che lui ricorda ancora quasi frase per frase. Stavolta gli abbiamo scritto, con Alberto, assieme a Fanfani, un'altra missiva un po' pesante. In un certo senso ha ragione. Entriamo in un caffé. Per un paio d'ore si analizza la situazione. Pertini ci racconta dei suoi digiuni in carcere, le sue azioni proprio da qui, da Nizza, dove investì il suo capitale in una radio emittente e faceva il muratore. Sulle leggi che ci stanno a cuore ci parla francamente, esaurientemente. Alla fine la situazione è chiara. Non gli chiediamo impegni, che non sarebbe corretto pretendere e che egli rifiuterebbe certo di da
re. Sappiamo ora che, se il Senato non perde troppo tempo, è più che probabile che a Natale la Camera avrà terminato il suo lavoro. Nel salutarci, Pertini ha come un attimo d'esitazione. Guarda Alberto, così giovane, così deciso ma anche così stanco: il vecchio compagno è commosso, l'abbraccia con forza e scappa via. Torniamo a Torino, immobilizzata dal salone dell'automobile e dal derby Juventus-Torino: al congresso antimilitarista altri trenta compagni si sono aggiunti al digiuno.
7 novembre
[...] C'è da digiunare ancora un giorno. E evidente che dobbiamo essere ricevuti anche dal senatore Garavelli [presidente della Commissione parlamentare competente, n.d.r.], per essere in coscienza sicuri di aver raggiunto i nostri obiettivi.
Alle 12 siamo di nuovo ricevuti dal presidente Pertini. A quanto pare deve aver già preso contatto con i presidenti dei gruppi, con il governo, con i ministri interessati. Quel che ci aveva detto di sperare, ora può infatti assicurarci d'esserne sicuro. Me ne vado a casa. E tardi. Dopo 37 giorni mi cucino un bel brodo di dadi con burro e parmigiano. Basta che a digiunare resti Alberto fino a domani. Poi glielo spiego.
8 novembre
Il senatore Garavelli è deciso a rispettare l'autonomia della Commissione. Dal 16 novembre, se i commissari avranno molte cose da dirsi, avranno a loro disposizione tutto il tempo che vogliono. Quindi, dice Garavelli che, da buon socialdemocratico, ricorda che Umberto Calosso (5) ed altri suoi compagni di partito sono sempre stati promotori di progetti di legge sull'obiezione, "riunirò la Commissione mattina e sera, sabato compreso, fino al voto".
Dunque, ce l'abbiamo fatta. Perché anche per Valpreda abbiamo una "forchetta" di soluzioni: o libero per decreto governativo entro il 1· novembre o per legge entro il 15 dicembre.
Uscendo comunico ad Alberto che, io, il digiuno l'ho già rotto e gli faccio i miei complimenti [...].
(1) Roberto Cicciomessere: già segretario del Pr, obiettore di coscienza
(2) Angiolo, Gianfranco, Aloisio, Ennio, Graziana, Lucia, Vincenzo, Enzo: militanti radicali
(3) Gargamelli, Borghese: altri imputati per la strage
(4) Alberto Gardin: militante radicale, obiettore di coscienza
(5) Umberto Calosso: scrittore, socialista, esiliato sotto il fascismo
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Dove stanno la violenza e il ricatto?
Intervista a Marco Pannella
Secondo alcuni i tuoi digiuni sono solo atti masochisti che mal si conciliano con le tue dichiarazioni di amore della vita e in genere di lotta "felice" per il socialismo.
Ho una risposta che dò da tempo, come puoi immaginare, ma che vado elaborando sempre di più: la differenza tra il rischiare di vivere e il rischiare di morire. Sono convinto che la gente muore perché ha perduto l'interesse alla vita. Chi invece si rifiuta di vedere amputata la vita, proprio perché non vi ritrova né rassegnazione né castrazione, ma al contrario speranza, può anche rischiare di perderla: succede. Ma se vince, vive veramente meglio e più degli altri. Aggiungo che rischiare la vita senza rischiare quella degli altri è un altro salto qualitativo (anche il suicida sa spesso oscuramente che mette in pericolo gli altri). Facciamo ora un esempio, un altro salto ancora, perché in queste cose si va per approssimazioni successive. Chi rischiava davvero la vita nell'Italia del '37 o del '38 [cioè nell'Italia sotto il fascismo n.d.r.]? Colui che intuendo la logica della dittatura e sapendo perciò che "la guerra è vicina" s'impegnava in una lotta certo pericolosa per cercare di evitare milioni di morti; op
pure chi, per timore di un rischio immediato, finiva per farsi distruggere dopo, insieme a milioni di altri?
Masochismo? Ma il dato masochismo può esserci quando c'è sofferenza, sentirsi male più che star bene, cioè la consapevolezza del dolore. Invece la mia esperienza e quella di tutti i compagni, è che il digiuno non dà sofferenza, al più fastidi. C'è però qualcuno che, scartando il dato masochistico, parla di una tendenza autodistruttiva. Beh, tutto può essere, anche morire di gioia: ma so bene che anche essendo diverso non potrei star meglio di oggi, e sarebbe invece facile che stessi anche fisicamente peggio, come la maggior parte della gente che paga la rinuncia forzata agli elementi di interesse nella vita. Non dimentichiamo poi che i nostri digiuni sono sempre fatti collettivi, esperienza di crescita politica.
C'è un altro dato infine che non è per niente secondario: questo metodo è vincente, funziona: ed è omogeneo al nostro discorso politico libertario e nonviolento. Noi diciamo infatti che se la lotta per il socialismo è violenta, prefigura un movimento e quindi una società organizzata in maniera violenta, autoritaria.
Eppure ti hanno accusato di esercitare con i digiuni un ricatto, di fare cioè, anche tu, violenza agli altri.
Noi non digiuniamo per protestare o per soffrire, ma per raggiungere un obiettivo. In genere l'obiettivo è inerente alla moralità altrui, non alla nostra; non chiediamo cioè attraverso il digiuno di privilegiare una specifica proposta di legge, ma che vengano attuate le leggi che altri hanno imposto o proposto. Mi spiego meglio: non cerchiamo di far accettare i nostri principi e le nostre impostazioni, esigiamo il minimo, esigiamo cioè dal governo della città il rispetto della sua legalità, la reintegrazione delle regole della democrazia violate. In realtà è l'unica risposta che possiamo dare, al di là della distruzione, a una città che tradisce le proprie leggi. Dove sta allora la violenza, dove sta il ricatto?
Come spieghi che questi metodi non hanno una pratica di massa?
Perché siamo un dato non conformistico, assolutamente minoritario, rispetto ai valori prevalenti oggi. Ma non è vero che in linea di principio non siano metodi di massa; dipende dalla maturazione di certi processi. Lo sciopero operaio, voglio dire, può essere considerato la prima, grande manifestazione nonviolenta di massa, perché avviene nel momento in cui gli operai scoprono che è più produttivo incrociare le braccia piuttosto che rompere i macchinari o ammazzare il padrone.
Partendo dunque dai digiuni, siamo arrivati alla nonviolenza in generale: un'altra delle scelte che vengono contestate ai radicali.
Ora molto meno che in passato, come è rientrata un'altra accusa ridicola, che si tratti cioè di metodi "poco virili"... Ma parliamoci chiaro: questi nostri critici chiamiamoli violenti perché perdono sempre? [...] Perdono perché adottano tattiche opportunistiche, attivistiche; perché rappresentano il dato della sommossa pura e semplice, il dato plebeo, non ancora proletario, se è vero che il proletariato è la plebe nonviolenta.
Che cosa c'è dietro questa differenza di metodi tra noi e le altre forze della sinistra? Loro credono nel "potere"; noi puntiamo invece sul "deperimento del potere", cioè del quoziente di violenza delle istituzioni. Un processo che può compiersi solo storicamente, non con la distruzione violenta del potere, come pensano gli anarchici. C'è dunque, da parte nostra, una posizione anticentralizzatrice, antigiacobina, antiscorciatoie, con tutti i possibili rischi, certo, di utilizzazione giacobina. E questo che intendiamo per libertario, il deperimento del potere come effetto della crescita della classe e del socialismo, non il rinvio al momento successivo alla presa del potere.
Il nostro dunque è un modo diverso di far politica, di vivere, di lottare.
Rivendichi insomma ai metodi nonviolenti una valenza di prassi "socialista", e di prassi vincente, che non riconosci ai metodi tradizionali della sinistra.
Che cosa comunicano all'esterno le forme di lotta che chiamiamo tradizionali? Le molotov comunicano l'attacco, la violenza, e anche se noi sappiamo che non fanno male, possono giustificare agli occhi della gente che la polizia risponda sparando. I cortei che bloccano le strade non infastidiscono Agnelli (1), ma il lavoratore, l'operaio; e perché questi dovrebbero avere un riflesso positivo? Mancano di coscienza di classe? Penso invece che hanno coscienza dei loro diritti, e se dicono "vaffanculo", è un riflesso giusto.
Andare incolonnati per strada, è l'occupazione della città, la parata militare, il possesso. Si è in tanti, c'è l'esaltazione della folla, dell'aggressione, il potere che si afferma sugli altri, perché è forte e violento. E quindi chi li vede passare cosa sente? Il brivido delle bandiere rosse, certo, ma è identico a quello che si prova alle parate militari. Oltre a ciò non vedo altro nella logica del corteo. Invece, andare in fila indiana sui marciapiedi, sul ciglio della strada, con un cartello a testa (è già un dato che ti gestisci personalmente mentre nei cortei neanche comunichi con gli altri compagni), significa scrivere un romanzo lungo e leggibile. Alle marce antimilitariste la polizia ci raccomandava di stare in fila indiana davanti al Sacrario militare di Redipuglia; e noi eravamo d'accordo; una sfilata di trecento cartelli, la gente passava e leggeva. Chi digiuna comunica: "Mi state sfottendo, sono disarmato e non posso fare altro che evidenziarlo, denunciarlo".
Maggio 1976
(1) Presidente della Fiat
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IL DIRITTO ALL'IDENTITA E I MASS MEDIA
di Marco Pannella
[...] Se democrazia presume, in qualche misura almeno, la fiducia nel metodo del dialogo, della polemica e del dramma, presume sempre anche - nell'agorà - una sorta di rappresentazione scenica: tra opposizione e governo, tra maggioranza e minoranza. Non necessariamente tragedia. In questo io non sento tutto il fascino del "diverso" del "differente" come nell'arco che va da Fortini a Pasolini (1). Lì, per loro, la dimensione della esistenza e anche dell'esistenza democratica e civile è tragica; per me è drammatica, con quindi degli scioglimenti del nodo scenico diversi, che possono essere - appunto - quelli non letali, non fatali, di un destino necessariamente negativo. Se democrazia è questo, o presume questo, credo si possa meglio comprendere quel che noi radicali intendiamo dire quando, avendo affermato che per noi non esiste "perverso" e non intendiamo recuperarlo nella politica, abbiamo a lungo ripetuto che all'interno di qualsiasi "perversione" è la diversità che va colta, se si vuole superare il fatto
"perverso" (secondo la morale o il buon senso comuni). Ecco, se noi questo ci gloriamo di fare, da laici, non possiamo evidentemente recuperare nella politica il concetto di perversione, di perverso; la demonologia, se volete, o il soggettivismo demonologico, o l'iconografia demonologica.
Ebbene, noi abbiamo cercato di sottolineare il trattamento del "perverso" (perverso per gli altri), del diverso, della vera minoranza sotto l'"antifascismo". Premetto, anche, che se è tale, una minoranza lo è innanzitutto a livello di linguaggio o di modulo di pensiero, o espressivo. Una minoranza o è tale anche nel senso - se volete - dell'antropologia culturale, o altrimenti resta un dato interno alla maggioranza del sistema, interno alle sue prospettive storiche; diverso nella cronaca, ma uguale nella prospettiva della storia, al di là, appunto, di un'epoca, di un momento estremamente circoscritti. Da questo punto di vista da 25 o 20 anni, quotidianamente, abbiamo cercato di fornire una chiave di lettura diversa da quella dell'arco dei partiti postfascisti.
[...] E allora diciamo: è vero! L'organizzazione nonviolenta, con il suo metodo di disobbedienza civile programmatica, con il suo metodo socratico di accettare fino in fondo la legge nella sua logica, per farne esplodere la nequizia dinanzi a coloro che si presume siano i soggetti formatori della legge di domani, questo metodo che, appunto, è il nostro, ha dimostrato di avere, mi pare, una grossa forza politica. Possiamo pur dirlo, siamo unici, a sinistra degli statolatri, a sinistra dei giacobini di un certo tipo, a sinistra dei violenti per senno, per assennatezza, cioè di coloro che sono violenti solo perché debbono salvare un programma, la "programmazione". Chi pensa davvero che milioni di contadini del Volga o del Don morirono fra carestie e deportazioni solo per Stalin o perché la burocrazia comunista era stalinista o leninista?
[...] Un uomo come Aldo Moro (2) non muore perché è assassinato in un momento. Muore - certo - la persona Moro per noi, soprattutto per noi radicali più che per lui, noi che sappiamo che vale quello che prende corpo, tutto quello che ha corpo, noi che temiamo la dialettica sbagliata degli spiritualismi e dei materialismi assoluti da una parte e dall'altra. Eppure, ecco, noi sappiamo che nulla vale la morte, nemmeno il sacrificio, nulla. Ma comunque, quando si è un uomo che ha scelto il dialogo pubblico, ha una funzione pubblica, quando si è voluto dare, si è preteso, si ha avuto la superbia - magari - di sperare di poter dare il corpo il proprio, quello di Aldo Moro, alle proprie idee... Ecco dicevo: guardate che lo state ammazzando voi! Ma vi rendete conto che in questo momento Moro può guardare la televisione e sentire Pellegrino, Ferrara (3), quelli che lui riteneva vicini, i suoi allievi, i suoi clienti, la gente della corte dire: "Ma non sei più tu, sei peggio di un qualsiasi ragazzino preso dai nazisti
, che aveva coraggio di tacere, perché a quelli, tutt'al più, gli si estorceva una firma: tu scrivi ogni giorno pagine e pagine; sei indegno, sei un verme, non rappresenti più nulla..."
Eravamo lì, ricordo, quando è giunta la prima lettera: lo sdegno, la rabbia che ho avuto, il dolore verso Trombadori (3) e gli altri, che guardavano esterrefatti e dicevano: "Questo ormai lo possono ammazzare perché tanto è morto; dopo aver scritto questo è finito. Non esiste più". E sono corso su, a scrivere una dichiarazione: mai come in questo momento, con questa lettera, il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro testimonia, anche a chi fra noi non lo aveva compreso, della sua potenzialità umana e politica; e se sarà - come dovrà - essere liberato noi oggi per la prima volta comprendiamo e riterremo che potrà, attraverso questa sua vicenda, probabilmente avere titoli maggiori per divenire presidente della Repubblica.
Ottobre 1979
(1) Franco Fortini, Pierpaolo Pasolini, scrittori italiani.
(2) Aldo Moro, presidente del Consiglio italiano, sequestrato e assassinato dalle Brigate Rosse nel 1978. Durante la prigionia, scrisse lettere indirizzate al suo partito (la Democrazia Cristiana) e ai suoi amici politici; ma questi, e in generale i partiti al potere, negarorno la loro autenticità, o sostennero che Moro scriveva sotto dettatura per costrizione dei suoi carcerieri.
(3) Pellegrino, Ferrara, Trombadori, docenti universitari, esponenti culturali italiani
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NON SIAMO DISARMATI
di Marco Pannella
[...] Chi pensa che i nonviolenti siano degli inerti e dei disarmati, sbaglia. C'è una cosa, almeno, che unisce profondamente nonviolenti e violenti politici: gli uni e gli altri giudicano che la situazione storica e sociale nella quale vivono esiga da loro di dare - letteralmente - 'corpo' alle loro speranze e ai loro ideali, di ritenere comunque in causa la loro esistenza e di trarne le conseguenze.
C'è una sorta di integrità che li unisce. Ma gli uni ritengono che i mezzi prefigurano e determinano i fini; ed essendo dei libertari e dei socialisti, la vita è per loro sacra, innanzi tutto quella dei loro nemici; gli altri credono che i fini giustifichino i mezzi, e scendono sullo stesso campo dell'avversario, alzano anch'essi il vessillo dell'assassinio e della guerra giusti e sacri.
L'ideologia stessa che presiede alla vita del nostro Stato, retto con leggi fasciste e incostituzionali per volontà degli antifascisti al potere da trent'anni, fa scegliere 'il partito armato', il terrorismo, come interlocutore privilegiato. La stampa e la Rai-Tv fanno di costoro gli antagonisti politici e i protagonisti della cronaca politica. Censurano invece, soffocano, deturpano ferocemente i nonviolenti, referendari, costituzionali, che si muovono fra la gente e ne rappresentano le aggregazioni maggioritarie.
Come nonviolenti, denunciamo ogni giorno la violenza assassina di un potere che ha al suo attivo la strategia delle stragi e la strage di legalità.
Siamo processati, condannati. Ma come nonviolenti sappiamo che la scelta del cosiddetto 'partito armato' è non solamente assassina sul piano della proclamazione teorica e della prassi, ma è suicida se e quando davvero partecipa alle speranze della sinistra e non sia anche soggettivamente espressione di 'servizi paralleli' [servizi segreti, n.d.r.] nazionali e internazionali.
Marzo 1978
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L'ARSENALE DEL NONVIOLENTO
di Marco Pannella
[...] Perché mai lo sciopero dal lavoro del lavoratore dovrebbe essere arma democratica, lecita ed efficace, e non esserlo invece lo sciopero fiscale del contribuente, lo sciopero degli acquisti del consumatore, lo sciopero da pagamento dei servizi pubblici o privati resi inaccessibili o non forniti, lo sciopero elettorale del cittadino, lo sciopero generale di una comunità aggredita nella sua indipendenza e nella sua esistenza?
Non pagare l'intera tariffa del biglietto di trasporto, l'intero affitto di casa, le tasse comunali perché la 'Città' non fornisce servizi essenziali, le imposte corrispondenti al bilancio della cosiddetta 'difesa-nazionale' che serve per essere spiati, discriminati, assassinati, tutto questo è reato? E probabile. Ci si processi, allora, uno per uno. Malgrado la giustizia di regime sarà un'occasione di ricerca della verità, della responsabilità di queste situazioni.
L'arsenale nonviolento di lotta è appena esplorato. L'uso scientifico della legalità borghese ne fa esplodere la contraddizione fondamentale: quella fra idealità che solo, ormai, il nuovo 'terzo stato' proletario o proletarizzato può raccogliere e affermare, e il potere che i partiti borghesi interclassisti esercitano da rinnegati, nella direzione opposta, per serbarlo.
Disobbedire agli ordini ingiusti, violare provocatoriamente la legge incostituzionale, elevare obiezioni di coscienza contro pretese di comportamenti moralmente intollerabili, autogestire liberamente e responsabilmente i perimetri sociali, economici e politici nei quali viviamo, prefigurare una società nonviolenta, laica, libertaria, socialista anche nei metodi, nei mezzi, sono stati finora le armi di difesa e di attacco delle minoranze radicali.
Settembre 1974
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DETERRENZA O NONVIOLENZA?
di Marco Pannella
[...] Il problema di una difesa popolare nonviolenta, come strategia alternativa alla grottesca e inesistente 'difesa militare' degli Stati nazionali minori, sta oggi trovando, in Europa e non solo qui, studi ed elaborazioni molto autorevoli; non solamente quelle, ad esempio, del prestigioso generale francese Paris de la Bollardière (1), ma anche di sottogruppi di studio di "multinazionali militari", chiamiamole così. Quindi non si tratta di ripetere la storia o il mito di qualcuno che brandendo la croce (oggi: gli emblemi radicali e socialisti) paralizzi e disarmi i barbari alle frontiere, ma quello di una riflessione teorica, di un'alternativa di difesa e di una lotta politica che percorra vie adeguate alla salvezza dei territori, delle popolazioni che li abitano, in una parola per la difesa della vita. In definitiva, le possibilità di sopravvivenza di un paese disarmato sul piano militare ma armato di strutture, strategia e tattiche di difesa popolare nonviolenta, sono comunque maggiori sin da ora di quel
le di quei paesi che hanno attualmente armamenti e eserciti marginali e subalterni, privi di deterrenze reali per annientare l'avversario ma bersaglio tattico utile o necessario in scontri internazionali tra le massime potenze fra le quali, non a caso, oggi si configurano solo ipotesi di conflitti indiretti, cioè di massacro tattico delle parti periferiche dell''impero'.
[...] Sul piano immediato, la risposta nonviolenta appare sempre come 'evangelica' o perdente. Anche nei rapporti interpersonali in crisi, il padre che schiaffeggia il figlio, o l'amante l'amato, sul momento sembra vincere, alla lunga perde sia il figlio che l'amato o un rapporto positivo con loro. Lo stesso in politica nazionale e internazionale, dove l'uso della violenza interna o esterna è indice dell'impotenza ad usare altre armi. Sarebbe interessante tornare a lungo e seriamente su questo argomento: sono venti anni che i radicali in Italia vedono andare in crisi intorno a loro, e scomparire, ondate di 'sinistra violenta', ogni volta considerata anche dagli avversari come più pericolosa. Ogni due anni, poi, bisogna constatare che quelli scompaiono e noi cresciamo nella coscienza di tutti. D'altra parte i militari sanno che in Spagna, in Russia, Napoleone fu vinto non tanto dalla forza degli eserciti, ma da quella successiva di Stati e popolazioni che seppero usare il fattore natura e il fattore tempo con
tro il genio e la potenza dell'imperatore...
Marzo 1978
(1) Famoso generale francese che negli anni '60 si dimise per protestare contro la politica di difesa del governo francese.
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Pacifismo, nazismo, comunismo...
Intervista a Marco Pannella
[...] Pannella, come mai, anche nei suoi discorsi in congresso, tanta polemica contro il pacifismo?
Perché i giovani sappiano, i vecchi ricordino e si cessi di ingannarli: il pacifismo in questo secolo ha prodotto effetti catastrofici, convergenti con quelli del nazismo e del comunismo. Se il comunismo e il nazismo sono messi al bando, il pacifismo merita di accompagnarli.
E il disarmismo, l'antimilitarismo, la nonviolenza?
Non sono omologabili al pacifismo. La linea che va da Gandhi a Bertrand Russell, da Luther King a Aldo Capitini (1), deve organizzarsi finalmente nel mondo. Il Partito radicale questo progetta e comincia ad attuare, in Italia e nel mondo. E impresa ragionevole. Lasciarsi sconfiggere è la follia.
Resta il fatto che, con la guerra, l'idea stessa di nonviolenza è stata sconfitta...
No, e nemmeno la forza politica nonviolenta, visto che non è mai esistita in modo organizzato con una strategia politica dell'oggi per l'oggi. Nonviolenza e democrazia politica devono vivere quasi come sinonimi. Da un secolo non vi sono guerre tra democrazie, diritto e libertà sono la prima garanzia. E il pacifismo storico, nei fatti, lo ha sempre ignorato.
Febbraio 1991
(1) Aldo Capitini, italiano, teorico della nonviolenza, seguace di Gandhi.
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GRAZIE, COMPAGNI ASSASSINI
di Marco Pannella
[...] Per la verità, la riconoscenza massima la dobbiamo, e portiamo, proprio a Vincenzo Andraous, e a Giuseppe Piromalli (1). Il primo condannato per tre assassini commessi in carcere dove era entrato per imputazioni ben minori; l'altro "presunto" boss di una "famiglia" della "ndrangheta", con cinque ergastoli addosso o in arrivo. E a questi due compagni, infatti, ed a pochi altri, che dobbiamo lo "scandalo" che stiamo vivendo, la possibilità ancora esistente che una chiusura decretata e di già pressoché attuata dalla violenza, dalla discriminazione e dal boicottaggio della partitocrazia, grazie all'assenza di regole e della fellonia di tanta parte dell'ordine giudiziario, venga evitata e trasformata nel suo contrario.
Senza l'immediata decisione di offrire al Partito radicale - loro! - l'obolo delle iscrizioni, della dichiarazione di volontà che esso viva; senza le reazioni ipocrite e violente che la notizia della loro decisione provocò, permettendo di conseguenza a molti altri di conoscere la situazione, e di decidere di assumersi la stessa responsabilità e di praticare la stessa scelta, il Congresso del Partito sarebbe stato altro, e questa lotta di oggi probabilmente non sarebbe stata nemmeno immaginata.
A loro dedico queste righe. Perché sappiano meglio quanta forza è in loro, quanta forza è in qualsiasi persona, quale sacrilegio e quale bestialità sia spegnere una qualsiasi esistenza, che non esistono "perversi" ma solamente dei "diversi", e quanto sia possibile rovesciare quasi in un attimo il senso della vita, propria ed altrui. Sappiano ch'io mi auguro, dal più profondo del cuore e dell'intelligenza, ch'essi restino per sempre, se non compagni di un Partito che potrebbe fra pochissimo non esserci più, compagni d'amore, di nonviolenza.
Confrontino il "valore" - per sé e per gli altri, per coloro che amano e per tutti - degli assassini e delle violenze (comunque motivate o "necessitate") che hanno commesso o concorso a commettere, e quello delle due lettere che hanno inviato, un giorno, in Via di Torre Argentina.
Dicembre 1986
(1) Vincenzo Andraous, Giuseppe Piromalli, assassini, ergastolani, hanno preso la tessera del Partito radicale in occasione della campagna straordinaria di iscrizioni del 1986/7.
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I nonviolenti e i violenti
di Marco Pannella
[...] Diciamolo chiaramente: ogni volta che negli anni passati qualcuno nel nostro partito ha fatto un digiuno, era perché vi era costretto dall'assenza di un impegno più largo e collettivo della generalità dei compagni. Siamo stati costretti a farlo nel momento in cui lo imponevano fatti di sopravvivenza, direi addirittura fisica, del partito, o quando alcune nostre lotte e obiettivi essenziali della nostra iniziativa politica rischiavano altrimenti di essere messi in crisi.
Non solo i partiti, ma anche le idee muoiono, possono morire, al contrario di quel che sostiene la retorica culturale prevalente. Non è vero che "se cade un compagno e a ogni compagno che cade dieci si rialzano, e l'idea che lui incarnava...". Credo invece che la storia sia fatta di assassinii di idee, attraverso l'assassinio del corpo collettivo delle organizzazioni politiche non meno che dell'assassinio delle persone fisiche. Ogni volta che siamo ricorsi a questa arma di lotta che abbiamo sempre definito l'estrema arma di lotta per un nonviolento è stato perché abbiamo dovuto fare i conti con problemi di vita, di esistenza, di sopravvivenza del partito, del significato e quindi della legittimità della sua presenza.
[...] Non ho moralismi nonviolenti. Ritengo al contrario che i più vicini, esistenzialmente e politicamente, a noi nonviolenti - se e quando sappiamo esserlo davvero - siano i violenti e non gli altri. Perché? Perché chi sceglie la nonviolenza sceglie l'illegalità della disobbedienza civile: sceglie di "dare corpo" al "no" di fronte alle leggi e agli ordini ingiusti: si mette in causa; usa fare violenza, con la propria nonviolenza, al meccanismo obbligato che lo Stato cerca di proporre. Il nonviolento rompe i piatti tutti i giorni. Rompe qualcosa di più delicato delle vetrine dei negozi e delle porte delle armerie, soprattutto se riesce a suggerire gli obiettivi e a fornire i mezzi e gli strumenti della lotta nonviolenta alle masse, alla generalità della gente. Quindi il violento ha in comune con noi quasi tutto l'essenziale, a parte la schizofrenia di ciascuno. Ma si può essere anche nonviolenti per schizofrenia o paranoia.
Si dice che il nonviolento, quando per esempio digiuna, accetta di far violenza a se stesso, ma anche il violento deve fare violenza a se stesso per far violenza, perché ritiene necessario rispondere con la violenza organizzata alla violenza delle istituzioni. E la vicinanza è addirittura drammatica; il nonviolento, se registra di volta in volta la sconfitta e l'insuccesso della propria teoria e della propria prassi, non è spinto a scegliere come alternativa la rinuncia, la rassegnazione e l'inerzia, ma è spinto a scegliere come alternativa - per disperazione - il ricorso alla violenza. Così, io credo, nella stessa maniera il violento, se riesce a liberarsi di questo carico enorme di mistificazione culturale totalitaria che privilegia la violenza, perché in termini ideologici la violenza del rivoluzionario è legittimata dall'ideologia dominante (appartiene all'ideologia di massa dominante, all'ideologia borghese, l'idea che alla violenza non si possa rispondere che con la violenza), se arriva a riflettere su
lle eventuali sconfitte dei propri metodi e delle proprie lotte, può capire che oggi il punto massimo di forza rivoluzionaria è rappresentato dalla illegalità e dalla radicale diversità della provocazione e dell'azione nonviolenta.
[...] Lo ripeto una volta di più. Con la nostra nonviolenza Gandhi c'entra nulla o ben poco. Non c'entrano le "tradizioni" orientali. Caso mai è Gandhi che ha innestato in quelle lotte di liberazione i metodi di liberazione occidentale. Il proletario diventa tale, cessa di essere plebe, nel momento in cui scopre il fatto apparentemente gestuale, nonviolento di incrociare le braccia e di fermare la produzione, invece di ammazzare il padrone delle ferriere o il suo funzionario e di bruciare la fabbrica.
Marzo 1977
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Nonviolenza: la nuova tolleranza laica
di Marco Pannella
[...] Il Gandhi "rigoroso", il Gandhi dei problemi del sesso, il Gandhi che si cuce l'abito, si fa la stoffa... il Gandhi della nipote, delle altre simili questioni: tutte queste aspirazioni fondamentaliste sono state marginali, marginalissime; indubbiamente sono suggestive, perché rispondono pur sempre a problemi di una umanità che - dinanzi ai problemi dell'amore, del sesso, dell'esistenza - per fortuna avrà (fino a quando vivrà) il suo tormento, la sua parzialità, perché onore dell'individuo, della persona, è il suo destino di incompiutezza, e non quello di soddisfare il mito della compiutezza divina, che si raggiunga attraverso l'amplesso o altre cose... Ma l'essenziale della nonviolenza è stata la prosecuzione della cultura del secolo dei Lumi, il dare coerenza politica e civile e storica ai motivi iniziali della Rivoluzione francese e di ogni altra rivoluzione, non a caso sempre, invece, poi divenute il loro contrario: la Ragione che diventa dea, gli olocausti, i sacrifici, la morte come cura per la vi
ta, di sé e degli altri.
[...] Leggevo l'altro giorno su un giornale nonviolento, appunto, che quello che è mancato in Italia, rispetto all'America e all'India, è il "leader". Ecco, questa è la spiegazione che ho letto sul giornale nonviolento... lì c'era Martin L. King, là c'era Gandhi... Costoro evidentemente avevano guardato la fotografia di Gandhi e la fotografia di King, e aspettavano di incontrare anche da noi King e Gandhi: e ogni tanto qualche vaga rassomiglianza l'hanno anche trovata, ma poi, però, no...; non c'era il magrore, non c'era la morte, poi! Ecco, non c'erano soprattutto queste altre cose, non c'erano gli errori di inadeguatezza nonviolenta che ha commesso Gandhi, per cui trenta o quarantamila persone sono morte di questo errore nello spazio di pochi giorni: non c'era il senso di quanto drammatico sia tutto quello che è creazione...; ma quanti errori (altro che Cicciolina! (1)) Gandhi storicamente, in termini di vita e di morte, ha provocato! L'abbinamento politico di questo ideale (senza abbastanza salvaguardia,
pur sentendo il dramma del Pakistan) con quello della indipendenza nazionale... con l'illusione - anche questa tutta occidentale - dello Stato nazionale: lo Stato nazionale è lo Stato anti-nazionale per definizione, perché riduce ad una quella che non può essere "una" in nessun territorio: perché solo a livello di piccoli territori e di piccole tribù abbiamo l'unanimità etnica o nazionale e di linguaggio, che sia in Africa o qui.
[...] Ma, allora, sempre la raccomandazione a me stesso è: quando vogliamo dar corpo alla speranza nonviolenta, alla forza, al dramma nonviolento, in quel momento - più che mai - dobbiamo essere donne, uomini, "persone", di Legge, persone di Diritto, ed essere associati in questo cammino, [...] uniti non tanto come comunione di Santi che sentano comunione di sentimenti, ma invece come partito, come "la parte" che si costituisce in modo nonviolento per assicurare una Società di Diritto e quindi, poi, uno Stato di Diritto diverso, con questi valori. Io credo di avere una storia, che finché sarà la "mia" storia (se c'è ancora il singolare) è storia di questa convinzione; per lo meno a me pare di una quasi scontata - a volte ne resto lì attonito - evidenza: che Gandhi e la nonviolenza sono il completamento senza il quale i Lumi, l'illuminismo, il laicismo, sono mera astrazione, sono una schumanniana incompiuta, bella di per sé ma, insomma, un pezzo e non un'opera, una sonata e niente di più.
(1) Ilona Staller, pornostar, eletta in Parlamento dall'87 al 92 nelle liste del Partito radicale.LA NONVIOLENZA E ATTIVA
Intervista a Marco Pannella
[...] La nonviolenza politica, oggi, costituisce la forma più avanzata e integra della "tolleranza laica", su cui si fonda la civiltà di una società e di uno Stato, se è tradotta nelle leggi e nei comportamenti della classe dirigente non meno che delle opposizioni storiche. Per un paio di secoli, dopo la rivoluzione borghese, contraddizioni spaventose hanno ferito la civiltà della tolleranza e della democrazia. In nome della dea ragione si è ucciso e massacrato, in nome delle nazioni e delle rivoluzioni si sono fatte guerre e carnai e si è anche pensato che tolleranza e violenza potessero e dovessero convivere, quando la violenza diventava di Stato o "rivoluzionaria''. Purtroppo la Chiesa cattolica, nei secoli, ha subito anch'essa, e in certi periodi ha imposto, massacri e violenze fra le più atroci. Nei processi stalinisti la matrice da "Inquisizione'' (1) è facilmente riscontrabile.
La nonviolenza mette al centro della vita sociale la persona, il dialogo, come Socrate, non solamente come Gandhi. La nonviolenza presuppone il fatto che non esistono demoni, ma solo persone: e che la peggiore fra di esse, se aggredita con la forza della nonviolenza, che è sempre "aggressiva" al contrario dell'apparente mitezza del pacifismo, può corrispondere con quella parte di sé che è migliore...
La vera nonviolenza politica, per esempio, non ha nulla a che vedere con certe forme di sciopero della fame, come quelle dei militari irlandesi dell'IRA. Se non si vuole che la nonviolenza costituisca una forma di violenza, occorre usare la sue forme estreme, come quella appunto dello sciopero della fame, solamente per chiedere al potere, con fiducia, di attuare quello che ha promesso e che la legge stessa gli impone...
[...] Comunque la tolleranza, la civiltà laica deve temere come la peste uno Stato e leggi che pretendano di imporre valori etici e morali: il diritto positivo deve solamente garantire che nessuna morale individuale e collettiva si sviluppi ai danni di altri, faccia loro violenza.
Intervista di Milovan Erkic, giornalista di "Politcki Svet" (Belgrado)
Novembre 1988
(1) Tribunale medioevale della Chiesa cattolica contro gli eretici.
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Si fa presto a dire fame
Intervista a Marco Pannella
Dì la verità, Pannella, non ti vergogni un pochino a iniziare questo ennesimo digiuno a base di cappuccini dopo che in Irlanda i militanti dell'Ira sono andati fino in fondo?
Fino in fondo alla loro follia di terroristi o di soldati... Ma non accetto il tono della domanda né la domanda stessa. Non si tratta di vergogna o di fierezza. Quel che so è che i grandi nonviolenti, Gandhi, Martin Luther King non sono morti di digiuno, ma di piombo, piombo di pistola e piombo di stampa. Rischiavano la vita contro la morte, non la morte contro la vita.
Ma gli irlandesi...
Rispettiamoli e aiutiamoli, per le ragioni che hanno, non per il loro sacrificio. Essi accettano l'assassinio politico e lo praticano, arruolati in un esercito sia pure clandestino. Per la causa, se viene ritenuto necessario, se non possono più immolare corpi di altri, immolano il loro. Per convinta disciplina di soldati, per l'indipendenza, per quel che vuoi...
Sono episodi cupi, tragici, veri inni alla morte come strumento di vittoria contro gli altri. Ma anche una dimostrazione...
Quale?
I violenti ridicolizzavano, fino a pochi anni fa, la nonviolenza, i digiuni, come espressioni di anime imbelli. Oggi si rendono conto, che la nonviolenza può essere un'arma efficace, e tremenda. Un estremo ricorso quando la violenza si rivela inutile. Ma in realtà usano in modo violento armi nonviolente: così continuano a dover morire e a dover ammazzare.
Che cosa comprova il digiuno?
I digiuni hanno una sola, incontrovertibile prova evidente: le fotografie, e un'altra lo è meno ma è altrettanto e ancor più scientifica: le analisi e le diagnosi dei medici. I bollettini medici li abbiamo sempre resi pubblici. Noi ma non la stampa. Quanto alle foto vi prego di pubblicarne qualcuna. Ripeto: se la serietà dei digiuni nonviolenti si misura con la morte, allora Gandhi, Martin Luther King non erano seri, non digiunavano, non erano nonviolenti. La verità è che un digiuno è innanzitutto il bruciare delle cellule, l'invecchiamento accelerato di tutti gli organi, a cominciare da quelli cerebrali. Gli occhi, i capelli, i denti, il cervello e tutti, tutti gli organi a ogni giorno di digiuno "vivono" ben altro che un giorno. E più si va avanti e più accelerato è il processo. Vi sono poi vari tipi di digiuno, tutti egualmente seri: i prigionieri nelle carceri, lo stesso Gandhi, Danilo Dolci (1), in genere digiunavano a letto, risparmiando al massimo le energie. Noi invece raddoppiamo gli sforzi, non ris
parmiamo energie ma anche non ci debilitiamo a letto, abbiamo una attività straordinaria proprio per ottenere ogni volta gli obiettivi che ci prefiggiamo e che consistono sempre nell'esigere che il potere rispetti la sua propria legge, non che subisca la nostra volontà.
Se poi prendiamo tre cappuccini il conto è presto fatto: 40 calorie di latte, cento di zucchero. Se mettiamo nel conto la nostra attività siamo più che pari. Perché allora li prendiamo? Tentiamo di evitare che il primo organo colpito sia il cervello, il sistema che ha più bisogno dello zucchero. Di evitare il rischio di restare "non-morti" oggetti con la sola parvenza di vita: dei morti che si ignorano. Vogliamo fino all'ultimo, se possibile, essere coscienti di quel che facciamo, continuare o smettere. E vogliamo resistere nella lotta al meglio e più a lungo possibile.
Oltre allo zucchero prendi anche qualcos'altro?
Vitamine, sali minerali, l'ho già detto...
Ma allora che digiuno è?
Lo sciopero della fame nonviolento non è suicidio. Non è autodistruzione. Per i nonviolenti non è una sorta di olocausto, come per gli irlandesi.
Smettiamo di cibarci, nutrirci, non di curare in ogni modo possibile la nostra esistenza, il nostro stesso organismo. Tutto quel che non è cibo, che non è caloria, che non nutre energeticamente, minerali, vitamine, acqua in particolare, che aiuta la resistenza del corpo, della vita, tutto questo è giusto e doveroso prenderlo. Gandhi prendeva sale. Cerchiamo, speriamo di resistere per battere la violenza contro la quale stiamo letteralmente "dando corpo", oltre che parola, scritti, dialoghi, lotta, attività, organizzazione, predicazione anche. Le nostre lotte presuppongono e nutrono speranza, non disperazione...
Quale tipo di speranza?
Di convincere, non di vincere. Ma non certo quella di convincere gli altri a subire le nostre tesi. Chiediamo in genere al potere di rispettare lui per primo le leggi che impone. Le nostre battaglie per i diritti civili, il divorzio, l'aborto, mai una volta sono state fatte sfidando il Parlamento. Abbiamo sempre lottato per far applicare leggi e regolamenti già esistenti, per esempio rispettare il regolamento delle Camere che esigeva di discutere in 40 o 80 giorni, o in un anno, sull'aborto. Insomma, si trattava per noi di esigere il dovuto e per loro di rispettare le regole.
Agosto 1981
(1) Danilo Dolci. Studioso italiano. Fece vari scioperi della fame per combattere la mafia in Sicilia.
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1975: SALVIAMO PLIOUTCH
di Marco Pannella
[...] Quando giungevano a Roma, all'inizio degli anni sessanta, i monaci nonviolenti dell'opposizione nazionale e civile nel Vietnam del Sud, i buddisti il cui sacrificio e la cui lotta imposero più d'ogni altro, allora, l'attualità di quel conflitto alla coscienza internazionale, non trovarono nessuno ad ascoltarli.
Furono un po' usati dalla propaganda comunista, e totalmente soffocati e irrisi politicamente dalla nostra nobile cultura laica e repubblicana. Neppure se ne accorsero i nostri leaders storici, repubblicani, socialdemocratici, ecc. (i 'laici', insomma), pontefici del partito-chiesa americano in Italia, correi di estrema destra quali sono stati anche rispetto alla realtà nazionale statunitense, elogiatori degli sbarchi a Suez (1) e neutrali spettatori dei massacri e delle torture europee e francesi in Algeria, tetragoni alleati "atlantici" di turchi, greci e portoghesi.
Ricordo quei monaci, quei letterati, quegli studenti chiederci dove fosse mai l'Europa verso la quale erano accorsi fiduciosi, l'Europa cristiana, l'Europa della tolleranza; l'Europa di Voltaire, soggiungeva qualcuno... Molti di loro sono morti, o tacciono ormai per sempre; sono morti anche di quella loro illusione. La mancata solidarietà europea, il mancato ascolto europeo uccisero un'alternativa politica e storica di sicuro valore per l'Asia intera, per tutti noi.
Ma chi mai aveva per decenni raccolto l'appello dell'APRA (2) e degli altri movimenti democratici di liberazione dell'America Latina, poi quello del presidente Bosch di San Domingo? E chi, finché fu in vita, fra i nostri predicatori di libertà e di giustizia, di intransigenza (allora) "anticomunista" e "antifascista", udì l'ingenuo, drammatico, coraggioso, antico richiamo del patriota cileno, del borghese massone e socialista, del nonviolento Salvador Allende?
Dovunque il potere imperialista e capitalistico delle multinazionali, facendo scempio innanzitutto della stessa legalità statunitense, è andato in questi anni e decenni imponendo la più feroce difesa del profitto selvaggio al Dipartimento di Stato e alla CIA, innalzando la bandiera americana su macerie di civiltà e di umanità; i gestori politici della cultura laica europea, i suoi gestori in Italia non hanno mai visto, mai udito, mai giudicato.
[...] E L'URSS? Sinjawski e Solgenitsin sono difesi, compresi, aiutati? No. Sono ormai tra noi, con quelli di noi che trovano. E con chi altri, se no? Sakharov? Sua moglie è perfino riuscita a farsi curare da medici italiani. E parla tanto...
E il matematico Plioutch? Condannato a sette anni per reati di opinione, da più di tre lo stanno annichilendo, giorno dopo giorno, in manicomio specializzato a curare le deviazioni politiche.
Da più di un anno duemila matematici di tutto il mondo con ogni mezzo, suppliche, lettere, tentativi rispettosi di richiesta di grazia, qualche campagna di stampa, cercano di ottenerne la vita, di strapparne la grazia, e il diritto all'esilio per lui e la sua famiglia. E un caso, un esempio: ma è anche una persona, come ciascuno dei fucilati di Madrid.
[...] Salviamo Plioutch, intanto. Operiamo ogni giorno, con pubbliche iniziative e dichiarazioni, perché una campagna adeguata, umile ma fiduciosa, strappi al potere anche questa vittima, anche se non è spagnola, cilena o vietnamita. Ma russa, sovietica, europea, insomma.
La violazione dei diritti dell'uomo proclamati a San Francisco è patente. Le violazioni allo stesso trattato di Helsinki, anche; come pure alla convenzione europea.
Il nostro governo deve intervenire, in qualche modo; ma concretamente e subito. Agnelli e Cefis, Berlinguer (3)... e, più che ogni altro, e adeguatamente, con dibattiti di alto ascolto e visione, la RAI-TV di Stato. O, di fronte alla storia, sarà difficile sostenere anche lo sguardo tragico ed omicida dei Franco e dei Pinochet, oltre che quello spento dei ministri anticomunisti-criptocomunisti, anticlericali-criptoclericali, antifascisti-criptofascisti che ci governano.
Ottobre 1975
(1) Nel 1956 un corpo di spedizione franco-britannico sbarcò a Suez, contro l'Egitto che aveva chiuso il canale di Suez.
(2) Sigla di uno dei movimenti di liberazione sudamericani.
(3) Gianni Agnelli, Presidente della FIAT; Eugenio Cefis, Presidente dell'ENI; Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano.
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1991: Appello ai serbi
di Marco Pannella
Cari amici serbi,
noi sappiamo, e ripetiamo in ogni occasione, con il massimo di convinzione e di passione, che voi siete oggi le prime, maggiori vittime della politica che il regime di Belgrado e gran parte del mondo, hanno convertito in guerra, violenza, intolleranza, antidemocrazia. Non solamente perché muoiono per questo migliaia di ragazzi arruolati nell'esercito divenuto golpista - serbi, macedoni, bosniaci, montenegrini - ma perché muoiono, soffrono, piangono, odiano la loro stessa vita mentre sono costretti a mettere a ferro e fuoco territori abitati da loro fratelli e sorelle, ad ucciderli, a costringerli a esodi che ricordano le pagine più nere della storia di questo secolo.
Noi sappiamo che, oggi, in Serbia, chi dissente rischia di essere linciato come un traditore, che la sfrenata demagogia incute paura e odio, per ora rivolto verso "nemici" esterni inventati, ma che rischia di costituire una spaventosa Santabarbara per la stessa vita civile della Serbia.
Noi sappiamo che l'anelito verso la democrazia delle donne e degli uomini di Serbia, identico a quello nostro e di tanta parte del mondo, è oggi soffocato e irriso. La stessa pretesa "serba" di esigere garanzie per le minoranze serbe nelle altre repubbliche, e di negarle in radice per le minoranze albanesi, croate e di ogni altra lingua e storia, nel vostro paese, è espressione di una visione violenta, aggressiva, intollerante che non manca di manifestarsi con sempre maggior forza anche all'interno della normale vita politica, sociale, culturale del vostro paese.
Democrazia ed Europa, in tal modo, sono tornate ad essere le nemiche del potere di Belgrado, come durante i peggiori periodi della dittatura comunista, a cominciare da quello precedente la rottura fra Tito e l'Urss.
La guerra minacciata come un ricatto su scala sempre più vasta e crudele è l'arma dei vili e dei barbari, di ogni colore, rosso, bruno, nero. Oggi come ieri.
Il Partito radicale per anni è stato fra di voi, clandestinamente, per animare e affermare la sua fraternità con gli oppressi da una dittatura per forza di cose incompatibile con la tolleranza, con la democrazia politica, con una Europa della libertà e della giustizia, della nonviolenza e della pace.
Oggi - secondo gli insegnamenti di Gandhi - il Partito radicale sceglie di essere accanto ai popoli aggrediti con la guerra, a fianco della violenza delle vittime contro la violenza degli aggressori. Alcuni di noi, per questo, saranno in servizio di prima linea non armato fra i difensori delle città e delle popolazioni croate, animati da solidarietà e da amore per la vita, i diritti anche di coloro che sono costretti ad ammazzare, a usare violenza, abusivamente in vostro nome e per vostro conto.
Come voi, noi speriamo (e lottiamo) per una Serbia, grande per civiltà, per democrazia, per tolleranza, per cultura, per giustizia, per rispetto degli altri, europea, confederata con gli altri liberi popoli dell'ex-jugoslavia, associata all'Unione Europea.
Viva il popolo democratico serbo, viva la democrazia politica, viva l'Europa federata e pacifica, viva l'amicizia e la fraternità nella libertà, nell'interdipendenza democratica e europea, di serbi, croati, sloveni, albanesi, macedoni, montenegrini, di italiani, tedeschi, ungheresi, rumeni, austriaci, bulgari, greci, bosniaci, voivodini, del Kossovo...
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Diritti civili e diritto di natura
di Angiolo Bandinelli (1)
[...] In un suo recente saggio (2), il filosofo e politologo Norberto Bobbio dichiarava che "rispetto ai diritti dell'uomo, il problema grave del nostro tempo è non già quello di fondarli, ma di proteggerli". "Il problema che ci sta davanti - aggiungeva - non è filosofico, ma giuridico, e in più largo senso politico". Perché? Ma perché - sottolineava il filosofo - il problema del fondamento "ha avuto la sua soluzione con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948". Tale dichiarazione si regge sull'unica prova "con cui un sistema di valori può essere considerato umanamente fondato e quindi riconosciuto: e questa prova è il consenso generale circa la sua validità".
Tale universalismo non ha le sue solide radici in una eterna natura originaria o "razionale", dell'uomo, ma solo, come dice Bobbio, in una "lenta conquista" della storia. Non è però una conquista astratta, che resta nel limbo di iperurani princìpi. A quella dichiarazione altre ne sono poi seguite, rafforzandola e ampliandone la giurisdizione, intrecciandola in un sistema di valori, e ormai anche di comportamenti, in settori i più diversi, da quello del lavoro a quello dell'infanzia, fino - e cito non casualmente - alla "Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio" approvata dalla Assemblea Generale il 9 dicembre 1958; e su di esse si è dispiegato un ventaglio spettacoloso di lotte, di avanzamenti, che formano parte imponente della storia di liberazione dei popoli, delle classi come degli individui, in questo dopoguerra. E non è un caso se, accanto alla crisi negli Stati, nello Stato, oggi noi constatiamo anche la crisi profonda di queste istanze internazionali e sovrannazionali - ONU in tes
ta - la cui esistenza avviò il dialogo tra gli uomini che ha reso possibile la definizione di quei princìpi quali obiettivi di un progresso non impossibile. La crisi è voluta dal risorgere prepotente degli egoismi nazionali più pericolosi e retrivi, per colpa dei quali rischia di essere disperso un patrimonio di certezze e di speranze importanti per la crescita del diritto e dei diritti dell'uomo; rischia di diventare grottesco anche il ricordo del Tribunale di Norimberga, che condannò i responsabili dei delitti nazisti; rischia di saltare, in definitiva, l'ONU e rischiano quindi di regredire al più primitivo bellum contra omnes i rapporti tra Stati.
Dicembre 1992
(1) Angiolo Bandinelli: tra i fondatori del Partito radicale. Segretario nel 1970, 1972 e nel 1973, già deputato. Ha diretto molte pubblicazioni radicali, dalla Prova radicale a Notizie radicali.
(2) Norberto Bobbio: "Il problema della guerra e le vie della pace", Il Mulino, 1979.
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KARL POPPER, LIBERALE E NONVIOLENTO
Intervista a Marco Pannella
[...] Siamo alla fine di un secolo, e all'ora dei bilanci. Uno che ha l'età del secolo è Karl Popper (1), la cui opera principale, "La società aperta e i suoi nemici", in Italia restò pour cause inedita per quasi mezzo secolo, fino al 1974.
Cinque anni fa ne avevo letto l'apologia dell'uninominale a un turno anglosassone. Ho scoperto da poco che questo ultraliberale è anche uno studioso appassionato della nonviolenza e di Gandhi. Ricordo viceversa lo sconcerto che provai quando Ralph Dahrendorf (2) mi comunicò candidamente di non aver mai pensato che ci fosse una distinzione fra nonviolenza e pacifismo.
La lettura del pacifismo è univoca, e se ne traggano le conseguenze: nelle catastrofi, nelle mostruosità del secolo esso ha pesato tragicamente a vantaggio dei dittatori e a costo degli oppressi; a vantaggio degli stati totalitari militaristi e contro le democrazie da riarmare; è stato un fattore psicologico influente della politica di Monaco, e dell'avversione all'occidente. E stato portatore di atteggiamenti messianici e irenici. Gandhi era altra cosa. Ho trovato in uno scritto l'affermazione gandhiana che la violenza per una causa giusta è più lodevole di una vile adesione all'ingiustizia.
(1) Karl Popper: eminente esponente del pensiero liberale contemporaneo.
(2) Ralph Dahrendorf. Politologo, già direttore della London School of Economics.
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La lezione del secolo
Intervista a Karl Popper
[...] Il primo punto è la pace. [...] Questo è il primo punto della lista e richiede la cooperazione di tutti i partiti. E non dovrebbe più essere considerato un punto ideologico. Dobbiamo poi fermare l'espansione demografica. Anche questo, il secondo della lista è un punto capitale per il mondo intero. Tutto questo parlare del problema dell'ambiente non serve a nulla se non si affronta la questione reale, la crescita spaventosa della popolazione. E questa la causa della distruzione dell'ambiente [...]. Anche su questo problema fondamentale dovrebbero cooperare tutti senza distinzioni ideologiche. Il terzo punto è l'educazione. E anche per questo penso che occorra un programma sul quale ci sia la cooperazione di tutti[...]. Lo Stato di diritto consiste prima di tutto nell'eliminare la violenza. Io non posso, in base al diritto, prendere a pugni un'altra persona. La libertà dei miei pugni è limitata dal diritto degli altri di difendere il loro naso. Quando consentiamo che venga abbattuta e tolta di scena la g
enerale avversione alla violenza, davvero sabotiamo lo Stato di diritto e l'accordo generale in base al quale la violenza deve essere evitata. In quel modo sabotiamo la nostra civilizzazione[...]. Lo Stato di diritto esige la nonviolenza, che ne è il nucleo fondamentale. Quanto più trascuriamo il compito di educazione alla nonviolenza tanto più dovremo estendere lo Stato di diritto, cioè le norme delle leggi nei campi dell'editoria, della televisione, della comunicazione di massa. E un principio molto semplice. E l'idea è sempre la stessa: massimizzare la libertà di ciascuno nei limiti della libertà degli altri. Se invece andiamo avanti come stiamo facendo ora, ci troveremo presto a vivere in una società in cui l'assassinio sarà pane quotidiano.
Ora sappiamo quali sono le priorità fondamentali che lei vorrebbe stessero in testa all'agenda politica. Si tratta di punti - la pace, l'arresto dell'esplosione demografica, l'educazione alla nonviolenza - che richiedono la cooperazione di tutti senza distinzioni di parte, Queste indicazioni secondo lei sono di destra o di sinistra?
Né di destra né di sinistra. Quelle priorità indicano qualcosa che potrebbe prendere il posto della distinzione destra-sinistra. Vale a dire che noi dobbiamo pensare a quali fatti sono necessari per realizzare quegli obiettivi [...]. Dovremmo insomma soppiantare questo orribile sistema dei partiti, in base al quale la gente che sta in questo momento nei nostri Parlamenti è prima di tutto dipendente da un partito e solo in seconda istanza sta per usare il proprio cervello per il bene della popolazione che rappresenta. La mia opinione è che questo sistema deve essere sostituito e che noi dobbiamo tornare, se possibile, ad uno Stato in cui gli eletti vadano in Parlamento e dicano: io sono il vostro rappresentante e non appartengo a nessun partito. Credo che il crollo del marxismo offra una opportunità di procedere in questa direzione. Quanto alle priorità che ho indicato spero davvero che intanto qualche partito, non importa quale, le accetti, che dichiari di accettarle per sé. In questo modo spingerebbe anche
altri ad accettarle e si determinerebbe così una situazione nuova.
Conosciamo la sua concezione dell'interventismo democratico e adesso anche delle sue priorità. Su questa base, qual è il tipo di modello che ritiene più soddisfacente per i nostri tempi?
Un buon modello politico è essenzialmente quello della democrazia, di una democrazia che, in fin dei conti, non veda come proprio compito quello di stabilire una leadership culturale. In altre parole, adesso si tratta di operare per la pace e per gli altri punti che ho detto, ma la caratteristica fondamentale della democrazia deve essere che la gente sia culturalmente libera, non diretta dall'alto. Il che non è semplice [...]. Il nostro mondo è minacciato da un'educazione folle. Su di essa credo che dobbiamo davvero agire e una volta che avremo provveduto a realizzare un'educazione molto responsabile, potremo tornare ai giorni in cui la violenza era un fatto raro. [...]
Ma come impostare un'azione politica per raggiungere gli obiettivi che lei indica? Con quali energie? Come mobilitare i consensi della gente per quelle priorità? Ci troviamo di fronte l'obiezione tradizionale che si muove al liberalismo: è troppo debole per avere la meglio sulle forze avverse, sulle passioni, gli interessi e le convinzioni contrarie.
All'obiezione tradizionale, rispondo con la tradizionale risposta liberale: dobbiamo opporci alla violenza. [...]
Una delle cause più gravi di violenza e di guerra sembra essere ora il nazionalismo. Lei come guarda alle aspirazioni crescenti a dar luogo a Stati indipendenti, anche in Europa? Ci vede di più un pericolo di regressione nella civilizzazione e di guerra o un diritto di popoli omogenei, per lingua, etnia, religione ed avere il proprio Stato?
La questione essenziale è che in un mondo così densamente popolato tutti questi problemi sollevati dai nazionalismi devono essere considerati pericolosi. Si tratta di un pericolo che riguarda lo Stato di diritto. Bisogna dire qui prima di tutto una cosa che, a quanto mi risulta, non viene considerata a sufficienza nel dibattito europeo sulle nazionalità, e che da sola contiene l'intera questione politica delle nazionalità: si tratta del fatto che le minoranze devono essere protette. La stessa idea di uno Stato-nazione è impossibile da realizzare se non si accetta prima di tutto questo principio.
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La nonviolenza: il cromosoma radicale
di Roberto Cicciomessere (1)
Se qualcuno volesse definire il "pensiero" del Partito radicale, se volesse cioè isolare il "cromosoma" di cui è rilevabile l'impronta in ogni sua espressione politica e scoprire la ragione essenziale e costitutiva del "fenomeno" radicale - nel suo esatto significato scientifico, di manifestazione degna di osservazione e di cui si studiano le cause - dovrebbe soffermarsi in primo luogo sul significato della scelta nonviolenta. Dovrebbe chiedersi perché un partito di rigorosa osservanza laica e a pieno titolo testimone della cultura occidentale abbia scelto di rischiare il ridicolo affidando all'immagine un po' naif di Gandhi la sua rappresentazione esterna, facendone il proprio simbolo.
Scoprirebbe così che la "posta" della scommessa radicale, quella che ha spinto - quasi trent'anni fa - persone di diversa estrazione politica, ma con identica fede nel socialismo liberale, ad associarsi nell'impresa radicale, era quella di dare compiutezza alla "democrazia politica". Erano convinti che ciò sarebbe stato possibile solo se fossero riusciti a far penetrare nella civiltà del nostro tempo la cultura della nonviolenza politica; se fossero cioè riusciti ad affermare l'urgenza politica di non rassegnarsi ad accettare la violenza, verso la persona, la società e lo Stato, o anche verso il suo ambiente naturale, come tributo storico obbligatorio da pagarsi in nome della civiltà, della rivoluzione o del "progresso".
Per vincere questa scommessa dovevano interrompere la continuità storica con quei filoni prevalenti, sia della cultura liberale che della socialista, che postulavano il "dovere" di prendere le armi contro il nemico della patria o di classe, e che associavano indissolubilmente alla affermazione della giustizia la decapitazione dell'ingiusto.
Con sofferenza, i migliori esponenti di queste culture vivevano la contraddizione fra i motivi ideali e iniziali della Rivoluzione - quelli di fratellanza, di uguaglianza, di libertà e di tolleranza - e la dura necessità di doverli negare nella lotta armata, nell'esaltazione della violenza giusta, spesso nel terrorismo. Ma si rassegnavano a pagare il tributo di sangue e l'amputazione di valori perché accettavano come insuperabile la contraddizione ideale fra mezzi e fini, in quanto l'unica alternativa concepibile appariva essere un'altra forma di rassegnazione, ancora più violenta: l'accettazione passiva dell'ingiustizia, del totalitarismo, dello sfruttamento.
Riconciliazione dei mezzi e dei fini
Radicale eccezione allo scandalo della giustificazione della violenza in nome degli ideali della Ragione, la nonviolenza gandhiana dimostra all'Occidente che è invece possibile concepire lo scontro politico più duro - la stessa liberazione di un popolo dalla più grande potenza coloniale del momento - senza essere costretti a rinunciare ai principi di tolleranza e di rispetto della vita per i quali ci si batte. Nella nonviolenza mezzi e fini si riconciliano, gli uni diventano adeguati agli altri, i primi prefigurano i secondi. Se il fine, l'ideale è costruire una società più giusta, a misura d'uomo, il mezzo non può essere la prevaricazione della persona, il suo annullamento fisico. Per questo Gandhi deve lottare non solo contro l'oppressore inglese ma innanzitutto contro l'intolleranza e la violenza che rischia in ogni momento di prevalere negli oppressi; per questo antepone alla stessa conquista dell'indipendenza nazionale il superamento dell'intolleranza religiosa fra indù e musulmani. E consapevole infatt
i che lo Stato indiano esploderà e si frantumerà all'indomani della liberazione se non saranno stati smantellati prima i privilegi di casta e di classe, se non sarà riuscito a riconciliare le due comunità religiose.
Gandhi giunge perfino ad annullare una grande manifestazione di disobbedienza di massa - un "satyagraha" - preparata da mesi, e ad iniziare un lungo digiuno d'espiazione quando gli giunge la notizia che soldati inglesi sono stati massacrati dai suoi concittadini. Gandhi non vuole infatti sostituire all'ingiustizia e alla violenza dei colonizzatori inglesi una identica ingiustizia e violenza di una classe dirigente indiana cresciuta nell'odio e nell'intolleranza.
Gandhi non lotta solo per la libertà e l'indipendenza del popolo indiano ma anche perché la grande cultura democratica dell'Inghilterra, alla quale si è formato e che mai rinnegherà, non sia umiliata e mortificata né in Sudafrica né in India. La nonviolenza di Gandhi infatti, anche se si nutre del sentimento religioso della cultura induista, è in molta parte interna alla cultura europea e anglosassone, da Lev Tolstoj a David Thoreau e Charles Dickens. La sua prima aspirazione è quella di suscitare un movimento politico universale capace di proseguire e sviluppare la cultura illuminista, di dare coerenza politica, civile e storica ai motivi fondanti della rivoluzione francese e di quella socialista, di superare gli errori che le hanno portate, al pari delle altre rivoluzioni, a negarsi nell'intolleranza e nella violenza.
Nonviolenza: la forma più avanzata della tolleranza laica
Il "pensiero" radicale è tutto in questa intuizione: la nonviolenza politica può, oggi, costituire la forma più avanzata e integra della tolleranza laica, su cui dovrebbe fondarsi la civiltà di una società e di uno Stato democratici. E ciò può divenire possibile solo se la nonviolenza è tradotta nelle leggi e nei comportamenti delle classi dirigenti non meno che delle opposizioni storiche. Per un paio di secoli, dopo la Rivoluzione borghese, contraddizioni spaventose hanno ferito la civiltà della tolleranza e della democrazia. In nome della dea Ragione si è ucciso e massacrato, in nome delle nazioni e delle rivoluzioni si sono fatte guerre e carnai. Si è anche pensato che tolleranza e violenza potessero o dovessero convivere, quando la violenza diventava "di Stato" o "rivoluzionaria".
La nonviolenza invece mette al centro della vita sociale la persona, il dialogo. La nonviolenza presuppone che non esistono "démoni", nemici da abbattere, ma solo persone: e che la peggiore fra di esse, se aggredita con la forza della nonviolenza - che è sempre "iniziativa" - può corrispondere con quella parte di sè che è migliore, invece che con la peggiore: "una vittoria può definirsi tale soltanto se tutti in egual misura sono vincitori e nessuno è vinto" sostiene una famosa massima buddista. Ma per molti anni la nonviolenza gandhiana sembra emblematicamente sconfitta dall'assassinio, quaranta anni fa, del suo leader da parte di un fanatico indù, dallo smembramento dell'India, ma ancor più dall'affermarsi, nel mondo, della cultura della violenza e dei regimi totalitari, che ne sono la più tragica e compiuta espressione.
Non che non siano esistiti dopo Gandhi grandi personalità e importanti azioni politiche, anche di massa, di carattere nonviolento. Negli stessi anni in cui si afferma il Partito radicale in Italia, Martin Luther King sceglie i metodi della nonviolenza per il movimento dei diritti civili dei neri americani. Obiezioni di coscienza di massa si sono registrate in Francia contro la guerra d'Algeria e in Usa contro la guerra nel Vietnam. Ma il Partito radicale è l'unica forza politica organizzata che ha fondato, non in termini ideologici ma di teoria della "prassi", la propria azione politica sulla nonviolenza.
Negli anni sessanta, quando ad est e nel sud del mondo nulla sembra poter contrastare la magnifica potenza e l'espansione del totalitarismo sovietico, quando la democrazia europea prima, e quella americana poi, sembrano umiliate - prima che dalle scelte delle proprie classi dirigenti - dall'affermarsi delle rivoluzioni nazionali e socialiste in Africa come nel Vietnam, quando in occidente le moltitudini studentesche ed operaie innalzano il libretto rosso di Mao o inneggiano al Che, un gruppo sparuto di radicali si pone contro corrente e inizia a sperimentare in Italia la nonviolenza politica.
Per la piena affermazione dello stato di diritto
E un gruppo che proviene da una tradizione e da una esperienza politica di classico liberalismo e radicalismo, ma che - anche in dialogo e confronto con altre esperienze pacifiste, antimilitariste e di nuova sinistra europee e americane - ritiene indispensabile coniugare metodi ed obiettivi tipici della democrazia politica con quelli della nonviolenza. La "scoperta" da cui i radicali muovono, in termini di teoria e di prassi concreta, e che via via approfondiranno e meglio definiranno lungo gli anni, è che proprio la nonviolenza - ispirata al rispetto assoluto della persona, a partire da quella dell'avversario-interlocutore - costituisce la via maestra per l'affermazione piena e senza riserve di quello Stato di Diritto senza il quale democrazia e libertà sono illusione; mentre tutte le "vie violente" per conquistare Stato di Diritto, democrazia e socialismo contengono sempre elementi che per se stessi negano e inficiano il conseguimento dell'obiettivo.
Il Partito radicale vuole dimostrare che la violenza non paga e che con la forza del dialogo è possibile non solo vincere ma convincere l'avversario. La prima sfida é contro la pretesa dello Stato italiano di imporre, per legge, l'indissolubilità del matrimonio. Mentre buona parte della sinistra, e in particolare quella "rivoluzionaria" extraparlamentare che emerge dal moto del '68, ignora questa battaglia per l'introduzione del divorzio e lo fa in nome dell'imminente rivoluzione che abolirà la famiglia, il matrimonio e ogni altro orpello borghese, per la prima volta centinaia di migliaia di persone - per lo più anziane, "separati" che da anni si sono ricostituiti nuove famiglie "illegali" - imparano che è possibile manifestare pubblicamente per i propri diritti anche senza lanciare pietre, senza scontrarsi con la polizia. Imparano a conoscere l'efficacia delle azioni nonviolente, del digiuno e del dialogo. Divengono capaci di intervenire nei processi legislativi e riescono, nell'Italia di quegli anni, chius
a, provinciale e clericale, a coagulare una maggioranza parlamentare che alla fine approva la legge sul divorzio.
Satyagraha, nonviolenza dei forti
E poi la volta dell'aborto: lo scontro è più duro e per la prima volta si sperimentano in Italia le azioni di disobbedienza di massa. L'aborto è infatti vietato, e milioni di donne sono costrette alle pratiche più umilianti e pericolose per interrompere la gravidanza, rischiando la propria vita nelle mani di medici disonesti o ostetriche che usano sistemi medioevali. Il Partito radicale, attraverso l'organizzazione federata CISA, (Centro Italiano per la Sterilizzazione e l'Aborto) organizza allora pubblicamente molte cliniche dove si pratica, con tutte le garanzie mediche, l'aborto. Centinaia, migliaia di donne sfidano la legge, facendo uscire dalla clandestinità una drammatica realtà che tutti volevano rimuovere e che perfino le forze politiche "progressiste" non affrontavano, per cinici calcoli elettorali. Quella che Gandhi chiama la nonviolenza dei forti, la resistenza passiva munita di un metodo che le consenta di non essere complice con l'avversario - il "Satyagraha" (cioè Sat=verità, Agraha=fermezza) -
si manifesta finalmente in un paese occidentale come assunzione collettiva ed individuale della responsabilità di violare pubblicamente la legge e di subirne le conseguenze. Ma non è una rottura della legge che neghi l'idea di legge; al contrario, è il rifiuto di un'ipocrisia, di una "non-legge", per affermare invece il diritto. In realtà in Italia, come dovunque, il divieto dell'aborto - assolutamente inapplicabile - non è applicato; lo Stato non cerca di reprimere davvero l'aborto, si limita a proclamarne il divieto; mentre la pratica dell'aborto è ampiamente tollerata, è "libera", ma nella condizione infame e degradante della clandestinità. I radicali disobbediscono a una legge ridotta a non-legge per conquistare vera regola, vera legge, l'unica possibile se si vuol rispettare la dignità della persona: una legge che affidi la decisione della maternità alla responsabilità libera della donna.
Disobbedienza civile
Approfondendo i motivi della nonviolenza radicale, il grande scrittore e regista Pier Paolo Pasolini comprese in quegli anni che in ogni disobbedienza civile c'è obbedienza a un valore superiore che è la premessa di una futura obbedienza a una legge giusta. In ogni obiezione di coscienza alla legge ingiusta c'è una affermazione di coscienza.
Nel momento in cui la magistratura e la polizia intervengono, arrestando tutta la dirigenza radicale per complicità in pratiche di aborto, la battaglia è già vinta: con tutta evidenza si manifesta lo scontro a viso aperto tra la forza inerme della coscienza e della responsabilità e quella ottusa e irresponsabile di un potere che avendo rinunciato ad applicare le sue leggi si accanisce su chi, proprio nel rispetto del diritto, chiede che siano modificate le norme che lo Stato non può e non vuole applicare. Dopo pochi mesi il Parlamento italiano approva la legge che consente l'interruzione di gravidanza nelle strutture pubbliche.
"Conoscere per poter giudicare"
Ma la "forza della verità", per potersi esplicare e manifestare, deve essere conosciuta. La nonviolenza insomma è una efficace alternativa alla violenza solo se la gente può conoscere i motivi della protesta; solo se è messa in grado di giudicarli può esprimere il suo consenso o dissenso. Se manca il presupposto della circolazione dell'informazione, la scelta disperata della violenza, del terrorismo, dell'uccisione emblematica del "nemico" diventa una tentazione tragicamente forte. Ecco quindi che la maggiore fermezza nonviolenta del partito radicale si esprime nella difesa del diritto dei cittadini di "conoscere per poter giudicare". La democrazia politica - unico sistema che consente a forze che rappresentano interessi antagonisti di prendere il potere senza spargimento di sangue e senza l'uso della violenza fisica - diviene pura finzione nel momento in cui è sottratta ai cittadini la effettiva possibilità di esercitare la propria sovranità, cioè di scegliere. Se è negata la possibilità di conoscere e giud
icare le ragioni dell'opposizione, viene negata la stessa possibilità dei cittadini di scegliere davvero con il voto fra proposte di governo alternative. E oggi l'invadenza e la dimensione totalizzante dei mezzi di comunicazione consentono a ristretti gruppi di esercitare un potere enorme, quello di cancellare - letteralmente - la verità o di modificarla, alterarla a proprio piacimento.
Democrazia e diritto all'informazione sono quindi per il Partito radicale sinonimi: la prima non può esistere senza l'effettivo esercizio del secondo e, viceversa, il secondo è concepibile solo in uno Stato di diritto. L'arma estrema della nonviolenza - lo sciopero della fame prima, poi quello della sete - viene utilizzata dal Partito radicale non per imporre la propria verità ma per esigere dall'avversario il rispetto di quella che egli stesso proclama essere sua propria legge. Quella cioè che in tutti i paesi democratici sancisce la libertà di stampa e la completezza dell'informazione: beni questi che giustamente l'Occidente esibisce per marcare la propria differenza "strutturale" con i regimi totalitari.
Dopo 70 giorni di digiuno di Marco Pannella, nel 1974, la televisione di stato italiana, che fino ad allora aveva negato ai cittadini la possibilità di essere informati sul ruolo e sulle ragioni dei radicali nella battaglia per l'introduzione del divorzio, deve concedere - come atto di riparazione nei confronti della censura operata - molte ore d'informazione e di dibattiti alla Lega Italiana per il Divorzio.
Diritto all'immagine e all'identità
Ma la nonviolenza non è uno schema rigido da applicare con ossessione liturgica. E un metodo, certo con sue regole rigorose, che deve essere calato nella realtà storica e nella concreta soggettività di protagonisti ed interlocutori. Ecco quindi che essa deve trovare nuove forme di espressione e di dialogo quando la violenza del Quarto Potere (la stampa, l'informazione) diviene più sofisticata. Oggi non si nega infatti più l'informazione ai movimenti d'opposizione, ma questa viene manipolata al fine di deformare la loro immagine e quindi la loro stessa identità politica. E quanto accade in Italia al Partito radicale nel momento in cui promuove, nel 1978, alcuni referendum, abrogativi delle leggi speciali di polizia che hanno abolito "l'habeas corpus" e le altre garanzie poste a tutela dell'imputato, su cui gli elettori sono chiamati a votare. Al Partito radicale non viene negato l'accesso alla televisione pubblica, ma esso viene concesso per un tempo di pochi minuti e nelle fasce orarie di minor ascolto. Inta
nto nei telegiornali la totalità degli altri partiti afferma, senza contraddittorio, che i radicali vogliono favorire i terroristi e indebolire la capacità della polizia di reprimere il crimine. E questa la menzogna che si afferma indisturbata come verità.
Accettare di parlare in queste condizioni significherebbe divenire complici della violenza perpetrata contro la verità. Per questa ragione i radicali decidono di comunicare con il silenzio e, nei pochi minuti concessi dalla TV di Stato durante la campagna elettorale, s'imbavagliano e rimangono muti davanti alla telecamera, di fronte a milioni di spettatori attoniti. La disarmante semplicità del messaggio è più forte di un urlo, di una bestemmia o di una imprecazione. Non è un gesto di rivolta che esprime disperazione e impotenza di fronte al sopruso subito, è invece la espressione della forza di chi non si rassegna alla violenza. E l'esempio, la dimostrazione che per respingere con efficacia la sopraffazione non servono i sassi, è sufficiente la compostezza del silenzio, come nelle lotte operaie dell'ottocento era sufficiente incrociare le braccia. Le urla infatti si perdono fra le tante altre grida di disperazione della società; quel silenzio, quel bavaglio s'installano invece nella memoria collettiva come
un dubbio sempre presente di fronte alle "verità di Stato".
Un silenzio ancor più spaventoso copre oggi il più insopportabile tributo che la società dell'opulenza ha deciso di pagare in nome delle "ferree leggi del progresso e del mercato": 30 milioni di sterminati per fame ogni anno nel sud del mondo.
Società capitaliste e comuniste, rivoluzionari o conservatori, tutti sono concordi, per motivi diversi, nell'accettare come inevitabile che, nel duemila, milioni di vite umane siano sacrificate per la semplice mancanza di cibo. Siamo al centro della sfida nonviolenta, dell'impegno di chi, come i radicali, ha proclamato come proprio imperativo - ragione stessa della sua esistenza politica - di non rassegnarsi a consentire che anche una sola vita umana possa essere sacrificata in nome di interessi "superiori".
Il dovere alla disobbedienza
Nell'intraprendere questa battaglia, nel misurarsi dunque con il grado e il livello della violenza e della negazione del primo diritto - il diritto alla vita - nel mondo contemporaneo, il congresso di Roma del 1989 del Partito radicale adotta un Preambolo al proprio Statuto che solennemente dichiara la connessione inscindibile tra diritto, nonviolenza, e diritto alla vita. "Il Partito radicale - afferma il preambolo - proclama il diritto e la legge diritto e legge anche politici del Partito radicale; proclama nel loro rispetto la fonte insuperabile di legittimità delle istituzioni; proclama il dovere alla disobbedienza, alla non-collaborazione, alla obiezione di coscienza, alle supreme forme di lotta nonviolenta per la difesa - con la vita - della vita, del diritto, della legge... Dichiara di conferire all'imperativo del "non uccidere" valore di legge storicamente assoluta, senza eccezioni, nemmeno quella della legittima difesa".
Dura cinque anni il Satyagraha radicale contro lo sterminio per fame, con l'obiettivo di "salvare milioni di vite subito". Leggi che concedano stanziamenti consistenti finalizzati non al generico sviluppo ma alla salvezza di coloro che stavano per morire vengono approvate in due paesi europei. Il dibattito sul sottosviluppo esce dagli ambiti ristretti delle Agenzie specializzate per divenire oggetto di confronto delle classi politiche e della più vasta opinione pubblica. Ma l'obiettivo di una grande mobilitazione della comunità internazionale per la "difesa della vita e per la vita del diritto" è per ora mancato. La consapevolezza che la difesa della vita delle immense moltitudini del sud coincide con la difesa delle ragioni originarie dello Stato di diritto non è divenuta cultura del nostro tempo.
Scopriamo così quello che già sapevamo: tutto ciò non poteva e non può realizzarsi nel quadro politico e storico degli Stati nazionali e delle attuali istituzioni nazionali. Perché la cultura politica della nonviolenza presuppone Legge e Diritto, perché una cultura della vita che non sia cultura del diritto, che non aspiri a creare o modificare la legge, può produrre forse martiri non attori della storia.
E oggi Diritto e Legge per poter esistere, per poter essere riconosciute e rispettate o sono transnazionali e sovranazionali, o si collocano all'interno dei meccanismi di effettiva interdipendenza economica e politica fra le regioni del mondo o, semplicemente, non sono.
Il Partito transnazionale, nello sviluppo del "pensiero radicale", è oggi l'utensile necessario della nonviolenza politica.
Aprile 1989
(1) Roberto Cicciomessere: Deputato per molte legislature e parlamentare europeo. E stato in carcere come obiettore di coscienza e proprio in seguito a tale iniziativa, nel 1972, è stato riconosciuto il diritto all'o.d.c. al servizio militare. Già segretario del Pr e segretario organizzativo della Lid (Lega Italiana per il Divorzio). Ha promosso e dirige "Agorà telematica".
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