AL 37· CONGRESSO DEL PARTITO RADICALE7 aprile 1995
A. Testo pronunciato dalla tribuna congressuale.
B. Testo scritto e distribuito
SOMMARIO.[Viene seguita la traccia del testo effettivamente pronunciato (A). Per quel che riguarda il testo B - quello scritto, cioè, e distribuito - non ne diamo il sommario, ma avvertiamo che i temi che vi sono svolti corrispondono a quelli esposti dalla tribuna, con ovvi mutamenti e variazioni, formali e di disposizione ma non sostanziali].
All'apertura dei lavori del 37^ Congresso del PR (Hotel Ergife di Roma, 7/9 aprile 1995) Luca Frassineti leggeva la relazione introduttiva, che recava la firma di Emma Bonino dimessasi dalla segreteria nel gennaio per incompatibilità con l'incarico, appena assunto, di Commissaria all'Ue. Alla fine della stessa mattinata, Emma Bonino interveniva personalmente al Congresso nella sua veste di Commissaria. Dopo aver porto il suo saluto ai congressisti, Emma Bonino sottolineava l'importanza di quel "desiderio di Europa" che dichiarava di avvertire sia in Europa che in altre parti del mondo: è il desiderio - ha detto - di una Europa forte e politicamente attiva, non di un'Europa solo mercantile. Per questo è importante che si arrivi all'Europa autentico soggetto politico: occorre dunque vigilare che la Conferenza intergovernativa del 1996 non eluda il problema. Bonino ha messo poi il luce come l'Europa sia oggi il maggior erogatore di aiuti nel mondo, anche se questo primato non le è riconosciuto. Ma la politica
degli aiuti umanitari, ha avvertito la Commissaria, esige una politica estera comune, come anche l'utilizzo unitario e concordato delle strutture e dei servizi che l'Europa dedica alla difesa senza però utilizzarli appieno. Ancora sulla politica degli aiuti, Bonino sottolineava quindi come si avverta la necessità di tornare a idee che furono proprie del PR e della campagna contro lo sterminio per fame nel mondo; e cioè che gli aiuti non servono, se non in parallelo accordo con una politica di sviluppo dei diritti civili. Occorre che il PR di oggi tenga fede a quelle sue antiche scelte, valide anche nei confronti delle NU e dei suoi problemi.
Per poter meglio crescere e affrontare questi problemi, il PR deve oggi saper correre il rischio di una profonda riorganizzazione. Bonino avverte tra l'altro che, in parallelo con quanto accadde con radio radicale negli anni '70, è necessario oggi reinventare i modi della partecipazione politica, aprendosi alle nuove tecnologie dell'informatica.
A. Testo pronunciato dalla tribuna congressuale.
Cari amici radicali,
Anche se a molti di voi italiani - immagino lettori del "Corriere" o della "Repubblica", del "Messaggero" o del "Giornale", utenti della Rai o anche della rassegna stampa di Radio Radicale - può sembrare che io sia stata in vacanza per tre mesi (suppongo alle Bahamas, o non so dove) tengo a informarvi che non è così. E' vero che "nemo propheta in patria", però credo che siamo arrivati a dei limiti e a delle soglie di intollerabilità preoccupanti. In realtà sono qui tra voi dopo una breve ma intensa esperienza fatta nelle istituzioni europee; e non solo negli uffici di Bruxelles o di Strasburgo ma nelle situazioni più diverse - da Sarajevo a Kigali, a Rennes - dove, appunto, il compito che mi è stato assegnato mi ha portato. Ed un filo conduttore c'è e si trova, nel perché ho visitato tutti questi posti o nel perché ho incontrato determinate persone, siano esse europee o non-europee; il filo conduttore è uno, grande e potente: un enorme bisogno di Europa. Un enorme bisogno di chiarezza europea, di decisioni e
uropee, di presenza europea.
L'assenza dell'Europa, della sua voce, delle sue possibilità, delle sue prerogative credo sia una delle cause della instabilità, dell'inquietudine, delle difficoltà che non solo gli Stati membri dell'Ue ma credo il mondo intero sta attraversando.
Sono qui tra voi per un dialogo e un confronto che spero possa essere utile a me e a voi. Questo mio intervento sarà diviso in due parti: una, su quel che io penso della situazione politica, europea e non, a livello internazionale; e una seconda su come rivedere e rileggere una serie anche di successi che pure abbiamo ottenuto in questi ultimi anni, e quindi sui compiti, i doveri, le sfide, i rischi, le possibilità, ma anche la necessità, del Partito (di 'quale' partito...).
Di analoghi dialoghi sulla situazione europea, e sulla 'carenza' europea, molti vorrei averne, a Parigi o a Londra o dovunque i problemi dell'Europa sono oggetto di attenzione. Meglio se questi dialoghi potrò farne anche con e tra 'non' radicali. Perché di voi l'Europa sa che siete suoi amici fedeli, ma oggi è necessario far sì che altre energie, altre potenzialità, altre risorse si muovano, non solo a sua difesa ma a sua costruzione. I tempi, infatti, stringono: e vi dico subito che, al di là delle questioni relative al mio mandato di Commissario e alle mie specificità, c'è un problema e una scadenza che non è affatto una scadenza da ultima spiaggia ma certo è importante, e che è nostra responsabilità, in qualche modo, non far finire nel burocratese o nel nulla. E' la Conferenza del 1996. Una Conferenza che dovrebbe essere di revisione del Trattato di Maastricht, e che corre il rischio profondo di essere una Conferenza puramente intergovernativa o diplomatica; una semplice Conferenza di analisi dello status
quo o di descrizione dello status quo, per perdere invece qualunque connotato di spinta, foss'anche solo un millimetro di spinta, verso la costruzione di un'Europa federalista; lo dico da spinelliana, come si è stati tutti quanti negli ultimi vent'anni.
Anche da dentro le istituzioni, ogni giorno, mi si conferma la necessità di un'Europa politica e federale; di un'Europa cioé che sappia in qualche modo superare il campo, il limite economico in cui sembra avvilupparsi ed essere condannata. Perciò la Conferenza non è un appuntamento da ultima spiaggia (nessun appuntamento l'abbiamo mai visto così) ma certamente la preoccupazione c'è ed è forte tra i cittadini europei. La domanda di Europa di cui ho parlato deve trovare dunque, deve riuscire a trovare forza, organizzazione e quindi sbocco intanto in questa Conferenza.
Vi farò solo qualche esempio per farvi capire da quale punto di vista guardo al problema. Ho parlato di 'bisogno' d'Europa: ma solo di un'Europa economica? Davvero siamo in una situazione in cui i cittadini si muovono solo in base al loro portafoglio? Io non nego affatto l'importanza di questo volano, ma credo che la persona umana sia più complessa del suo puro e semplice conto in banca; credo che anche bisogni, valori e ideali facciano parte della persona e della vita in quanto tale. Da questo punto di vista la costruzione attuale, quella della moneta unica, del mercato unico, del libero scambio e circolazione dei capitali o delle persone, seppure è un successo ovviamente da non sottovalutare, è appunto un inizio; ma manca l'altra Europa, un'Europa che pensi di voler essere una potenza economica per poter e saper essere più aperta e più solidale verso chi nei confini dell'Europa non è.
Faccio l'esempio a partire da alcune esperienze di questi mesi. Un'indagine svolta dall'Eurobarometro dimostra, per esempio, che la stragrande maggioranza dei cittadini europei pensa che l'Europa debba essere più presente, più generosa, più efficace in ciò che riguarda l'aiuto umanitario. La stessa percentuale di persone, l'80%, non sa che l'Europa già lo fa, tutto questo, che l'Europa è il primo donatore mondiale di aiuto umanitario, in Ruanda così come a Sarajevo, in Cecenia così come ad Haiti, sotto le bandiere della Croce Rossa, dell'HCR, di Medicin sans Frontières, della Caritas, di tutte queste sigle. La gente non sa che il lavoro pregevole e difficile che molti nostri compatrioti fanno in quelle zone lo fanno grazie allo sforzo e alla generosità appunto dell'Unione, dell'Europa. Gli stessi cittadini europei continuano a pensare che i più generosi in aiuto umanitario siano gli Stati Uniti, il Giappone, l'HCR, la Croce Rossa, ecc. E questo merito dell'Europa, che attiene ad alcuni valori veri di difesa
della vita, della solidarietà, di aiuto e di protezione alle popolazioni in pericolo, questo merito, che pure c'è, non è conosciuto e non apprezzato. Tant'è che, ad esempio, nell'intero Trattato di Maastricht l'aiuto umanitario non è neppure menzionato; non c'è neanche il termine, la parola, cosicché poi non si capisce a quale titolo dal punto di vista legale oltreché politico, e perché, nel bilancio dell'Unione Europea figurino 1.600 miliardi di lire per l'aiuto umanitario.
Questa è una Europa che i cittadini non conoscono, che certo reclamano ma che non conoscono. E' invece la visione di una Europa tutta tecnocratica, burocratica, madre cattiva o matrigna che vive nei corridoi di Bruxelles, a forgiare oggi l'identità e l'immagine europea.
Mi sembra che questo solo esempio smentisca in pieno l'idea che l'unico modo per costruire l'Europa sia far leva sugli interesse economici: smentisca cioè che sia l'economia a precedere la politica. E' stato l'approccio cosiddetto funzionalista, l'approccio di Delors, l'approccio secondo il quale una 'economia unita', o una 'economia unica' o meglio un 'mercato unico', si tirerà dietro - per necessità - l'Europa politica, l'Europa democratica. Io credo che la cosa non sia affatto così automatica: credo che se non si organizza e non si potenzia il bisogno forte di una Europa politica, questa non verrà: né per necessità, né per miracolo, né per trascinamento. La scadenza del '96 è una delle prime a porci una scelta: tra l'Europa del Mercato unico e l'Europa di una politica estera comune e quindi di una politica di difesa comune. Credo che se il dopo '89 ha detto ben chiaro che non si può più affidare la difesa né agli Stati Uniti né all'Unione Sovietica - perché questo bipolarismo è caduto - ci ha anche dimost
rato, altrettanto chiaramente, che non la si può affidare a sistemi nazionali; e che quello che è in gioco non è difendibile (anzi sarebbe risibile se pretendessimo, o se ancora pensassimo che può essere difeso o affermato) in ambito, o con strumenti semplicemente nazionali.
Mi sono sempre chiesta, e continuo a chiedere - ma forse queste domande bisognerebbe avere e organizzare la forza per porle con insistenza - perché non solo c'è l'Unione Europea così com'è e come l'ho in qualche modo sommarizzata, ma perché è stata pure creata, a un certo punto, l'Unione dell'Europa Occidentale in termini militari. Forse banalmente, io continuo a chiedermi perché mai parte di questi strumenti che pure ci sono e paghiamo (parlo della logistica ad esempio, parlo del trasporto marittimo, ma potrei parlare del trasporto aereo, dei sistemi di comunicazione che pure esistono e che paghiamo) non possano essere utilizzati in una guerra 'nonviolenta', appunto, per i trasporti, per quanto riguarda il trasporto degli aiuti umanitari.
Quando uno deve organizzare un sistema di difesa, ebbene, si ponga anche il problema di qual'è il nemico, in modo che il sistema sia adeguato. Io continuo a non capire: a me pare che oggi l'avversario, il nemico, non sia sicuramente all'interno, o ai confini, dell'Unione Europea. Mi pare che altro è alle porte: una microconflittualità diffusa e uno stato di inquetudine, di insicurezza, di incertezza, di tensione in molte parti del mondo, in Europa orientale non meno che in Africa. Di fronte a questo scenario a me pare che l'attuale costruzione europea sia completamente inadeguata. Nei e dei conflitti attuali difficilmente l'Europa parla con una sola voce; normalmente, parla con quindici voci, spesso diverse e conflittuali e contradditorie tra di loro. Lo abbiamo visto nel caso dell'ex Jugoslavia, lo vediamo nel caso Ruanda-Burundi, ad esempio, in un dramma di impotenza che è l'impotenza, l'incapacità di una scelta politica precisa. Sicché il rischio vero è quello dell'alibi, che sento molto presente: dal mom
ento che non abbiamo il coraggio né la volontà politica di una politica estera, di una politica di difesa comune, bene, allora consoliamoci offrendo gli aiuti umanitari.
Su questo voglio essere molto chiara, anche scendendo all'interno di un confusissimo dibattito internazionale sulla diplomazia preventiva, sul diritto umanitario di ingerenza; tanti begli slogan, ma che difficilmente riescono a fare chiarezza. E' tutto giusto: la diplomazia preventiva, il diritto di ingerenza, ecc.; tutto giusto; ma necessita - necessiterebbe - di una volontà politica e una politica di difesa e una politica estera comune, perché non attiene all'aiuto umanitario, non attiene agli strumenti della solidarietà: attiene agli strumenti della politica. E finché non si vorrà avere una politica estera comune, una politica di difesa comune, credo che sia un elemento di chiarezza (andando magari contro corrente) dire che non attiene all'intervento umanitario supplire a carenze altrui, a mancanze di volontà politiche altrui. Io non so se quello che sta succedendo in questi ultimi anni a livello internazionale ha potuto o potrà mai far riflettere i cittadini (certamente!) ma anche i governi (o i cittadin
i e quindi i governi). Quello che è indubbio è che mi pare un dato di anarchia completa, in cui non esiste più il vecchio sistema ma stenta a nascere il nuovo. Stenta a farsi largo soprattutto - credo - il concetto che la pace è un valore e, come tale, costa. Stenta a farsi largo una concezione che dice che non si deve volere la pace a tutti i costi, specie quando i costi li pagano gli altri. Una concezione che dice appunto che la difesa del diritto e della pace ha dei costi, è un valore e quindi come tale ha dei prezzi, delle necessità, delle responsabilità. Parlo di costi umani, parlo di costi finanziari veri e propri, parlo di costi politici. La predica alla pace, la mera predica alla pace può dare forse buona coscienza a buon mercato ma certamente non aiuta alla chiarezza di quello che sta succedendo.
Ho fatto questo esempio (altri ne potrei fare, evidentemente) che mi aiuta ad introdurre il secondo elemento di riflessione. Ho parlato del bisogno di Europa tra i cittadini europei. Ma quanto bisogno d'Europa c'è tra i non europei! Tra chi è nato da poco in mezzo a rivoluzioni, travagli e sangue, ai primi passi di una democrazia o di un tentativo di democrazia, e molto ha sperato dall'Europa in termini di difesa di regole, di diritti e di diritti di base; e forse molto si era illuso, e in ogni caso, certamente, poco ha avuto. O a volte molto ha avuto in termini di aiuti economici (parlo soprattutto degli amici dell'Europa dell'Est: i programmi 'phare tacis', i programmi allo sviluppo per l'Europa dell'Est sono ingenti...) ma credo che poco invece abbia avuto in termini di affermazione di un minimo di diritto basilare, universale ed uguale per tutti. Sicché anche nelle tragedie che sono alle nostre porte abbiamo assistito di volta in volta a un oscillamento, a un altalenare che aveva un ritornello semplice,
uguale per tutti: "Vogliamo la pace a tutti i costi". Ma in tal caso, spesso, i costi in loco, appunto, sono pagati da altri.
Queste sono state le conseguenze della dismissione di responsabilità dell'Europa. Noi abbiamo esportato di tutto, dicevo pochi giorni fa: abbiamo esportato - all'Est come al Sud - di tutto, dalle mine a qualunque tecnologia più o meno vecchia e non, ai rifiuti più o meno pericolosi o radioattivi: ma c'è una cosa che non abbiamo mai neanche tentato di esportare, forse perché è la cosa più cara, più difficile, più costosa ma anche forse quella, a medio termine, più utile. Non abbiamo mai tentato di esportare democrazia, o perlomeno di aprire un dialogo forte e convinto di confronto tra i vari modelli. Siamo passati dalle demagogie più bieche ad un puro e semplice entrismo economico.
Voi ricorderete forse - i radicali che sono qui, i più antichi radicali ricorderanno sicuramente - quell'incredibile campagna del Partito radicale degli anni '80 contro lo sterminio per fame nel mondo, che si è posta sulla scena internazionale in modo abbastanza originale e fu battuta come linea politica; passò invece (negli anni '70/'80) la tesi che i Paesi in via di sviluppo sono troppo poveri e che la democrazia è un lusso dei Paesi ricchi. Si pensò, o si pretese di dire, che chi ha fame non può occuparsi di libertà civiche o di diritti civici. Questo è stato un dato che ha pervaso tutti i rapporti internazionali degli anni '70/'80. Oggi tutto ciò è di nuovo in discussione: oggi forse c'è spazio per ricominciare a dire che nell'aiuto umanitario la protezione dei diritti delle vittime è altrettanto importante che la distribuzione di cibo o di acqua. Oggi forse c'è uno spazio, perlomeno di riflessione, per provare a dire che la difesa dei diritti della persona è parte integrante della possibilità anche dell
o sviluppo. E questo potrebbe forse farci uscire, noi radicali, da un isolamento di dieci anni, per ciò che concerne la centralità dei diritti civili e del diritto, delle regole e delle sanzioni, mentre tutti i rapporti interstatuali sono ancora oggi gestiti in modo completamente diverso. Tutti i giorni lo vediamo: esistono convenzioni, accordi, regole che si firmano e tutti i giorni si vedono violazioni delle stesse regole e delle stesse convenzioni: tutto poi si risolve nel modo tradizionale o si tenta di risolverlo nel modo tradizionale, con accordi diplomatici che nulla hanno a che vedere col diritto iniziale, violato o no. Si cerca quasi sempre un modo, sostanzialmente, di trovare un accordo, comechessia.
Io non so se noi saremo adeguati o no a questa urgenza di rimettere il diritto, e il diritto internazionale, al centro del dibattito degli Stati e tra gli Stati, non so se saremo adeguati per raccogliere e rilanciare questa sfida. Poco fa il compagno portoghese diceva che delle tre gambe della rivoluzione francese forse quella che è stata un po' dimenticata è la gamba della libertà, dove per libertà s'intende la "libertà civica". Al di là del nome c'è - credo - un problema vero: il problema della prima gamba che ho detto, la quale può funzionare e potrà funzionare solo in un sistema internazionale che non sia anarchico come oggi è; e dunque rimanda all'altra ossessione del Partito Radicale transnazionale degli ultimi anni, quella delle Nazioni Unite, della riforma delle Nazioni Unite: perché in questa anarchia complessiva a livello internazionale è persino difficile trovare i punti di riferimento di diritto, di diritto di base.
E anche qui, secondo il metodo del Partito Radicale, senza pretendere cioè la riforma complessiva (quella che non verrà mai) ci siamo dati a Sofia alcuni obiettivi non marginali, simbolici certo, sulla comunità delle Nazioni come la vorremmo. Da una parte, dicevamo a Sofia, servono e serve un qualche elemento di democratizzazione delle Nazioni Unite. A Sofia parlavamo di una Assemblea parlamentare in ambito Nazioni Unite, eletta direttamente dai cittadini: possiamo anche andare gradualmente, come con il primo Parlamento Europeo eletto dai parlamenti nazionali, ma è indubbio che l'avanzamento di credibilità, di fiducia dei cittadini rispetto all'organismo Nazioni Unite passa attraverso una loro rappresentanza lì dentro. La seconda gamba che avevamo individuato - su cui abbiamo fatto forse qualche passo in avanti in più - è quella della giurisdizione internazionale, della presenza di un primo elemento sanzionatorio rispetto a una qualche Convenzione esistente. E' stata l'ossessione nostra, quella dell'istituzi
one del Tribunale internazionale permanente, simbolo di un modo di procedere che noi vorremmo vedere saldamente costituito.
Un Tribunale internazionale permanente con poteri effettivamente sanzionatori, non una pletora di tribunali ad hoc! Non solo perché i tribunali ad hoc vengono istituiti post-genocidio, sono quindi privi di qualunque elemento di deterrenza; ma perché una pletora di diversi tribunali ad hoc, magari con diverse legislazioni, non ha il carattere di una regola comune di applicazione di una Convenzione: come quella, per esempio, contro il genocidio, che è una Convenzione comune, firmata da quasi tutti gli Stati delle Nazioni Unite. Un Tribunale permanente, dunque, ancorché senza la pena di morte, per inserire nella costruzione del mondo che vorremmo (o delle regole di questo mondo) alcuni elementi cardine di una giustizia intesa non come vendetta ma come regolatore dei rapporti fra gli Stati.
Ho cercato di descrivere la situzione un po' come la vedo a livello internazionale e le cose che abbiamo cercato di fare da Partito transnazionale. A me pare che è proprio l'assenza di diritto, la negazione del diritto che impediscono alla persona anche l'accesso al sapere, persino alla tecnica, o peggio riescono ad asservire la tecnica e i saperi ad obiettivi di distruzione e di morte. Sembra che lo facciamo apposta a costruire ed inventare sempre più strumenti di morte invece che strumenti di vita.
Dico queste cose qui, in un congresso radicale, perché è tra voi, tra i radicali - con le loro battaglie e la loro strenua difesa del diritto e dei diritti - che io le ho capite, le ho imparate ed ho imparato ad amarle. E da una parte rivolgo il mio ringraziamento a voi tutti, al Partito Radicale, perché mi ha posto oggi nelle condizioni di portare questa esperienza al servizio degli europei, dell'Europa e dell'Europa verso gli altri. Ma dall'altra avverto che il problema quale ci si pone oggi è un altro: come sapete, nella relazione che è stata letta questa mattina da Luca Frassineti io ho fatto una proposta per il Partito; in pratica ho proposto a tutti voi di correre il rischio di crescere: che può anche essere il rischio di schiantarsi. Credo che dovremo avere il coraggio di ridiscutere e di ripensare anche il modello organizzativo: senza nulla togliere, ovviamente, ai successi che abbiamo ottenuto in questi anni partendo da un radicamento e da una generosità soprattutto italiana, e al lavoro di quanti q
uei successi hanno conseguito e fatto conseguire; ma anzi facendo tesoro di questi sforzi, di questa dedizione dei compagni che in questi anni e soprattutto dall'Italia hanno saputo tenere viva, alimentare la costruzione, farla vivere giorno per giorno, renderla concreta, in qualche modo appetibile ai cittadini.
Noi viviamo oggi in Italia, ma anche in Europa, in una situazione di introversione totale. Ogni paese, ogni opinione pubblica, ogni classe di governo è terribilmente introvertita su se stessa. Oggi ero un po' stupefatta: aprivo i giornali italiani e lì c'è solo questo "dramma" straordinario che è la legge sulla par condicio. Visto da qualche chilometro di distanza questo dibattito è preoccupante, ma preoccupante solo perché è vecchio, perché è antico, perché è obsoleto, perché non c'entra nulla, perchè è davvero un rigurgito di vecchiume. Io amo molto le cose antiche e amo anche conservarle, ma questo è solo e semplicemente qualcosa di "vecchio". Ci avviamo verso una società multimediale e l'intera classe dirigente nel nostro Paese si dilania su una cosa vecchia; non dico che non sia importante, dico semplicemente che il problema di cui si discute in Italia è un dato di passaggio; cosicché mentre tutti se ne stanno così introvertiti a discutere su 'Tempo Reale', il 'Terzo Polo' e non so che altro, sfugge lor
o -, non foss'altro a livello di comprensione - che tra poco tempo, pochi anni e probabilmente pochi mesi, tutte queste cose non esisteranno più e ognuno da casa sua, spingendo un paio di bottoni, vedrà altro, vedrà il programma che vuole. E allora, 'par condicio' di che, di che cosa?
Ci troveremo in un mondo dove - mentre noi avremo tutto regolato dalla 'par condicio' nel senso che se Buttiglione sbadiglia bisogna far vedere pure lo sbadiglio di Prodi - l'informazione passerà per altre strade che non saranno state regolamentate perché nel frattempo nessuno se ne sarà occupato. Così come è grave la mancanza di riflessione (che io invece vorrei sottoporre al partito) dell'utilizzo della nuova tecnologia nella società dell'informazione; oggi se ne parla su tutti i giornali, nazionali o anche mondiali, ma solo per quel che riguarda il suo impiego nell'economia, mentre non c'è riflessione su quale risvolto avrà questa nuova tecnologia nell'organizzazione del dibattito politico, democratico, nell'organizzazione di un partito o organizzazione politica; su cosa cambierà nel modo di comunicare politica e valori. Tutto questo risvolto è completamente avulso da un dibattito tecnologico che invece è apertissimo per il suo aspetto economico o commerciale. Da radicali abbiamo sempre cercato di non las
ciare la tecnica o la scienza a disposizione della sola economia. Persino in campo telematico credo siamo stati antesignani. L'abbiamo forse dimenticato in questo ultimo anno, e per questo rischiamo probabilmente di avere un tesoro di saperi e di conoscenze che non riusciamo, non per cattiverie soggettive ma come corpo collettivo, a far crescere e a mettere a disposizione dei valori, appunto, per i quali ci battiamo. Io credo che tutto questo dobbiamo "ri-riflettere": l'organizzazione del partito, il modello del Partito. Su come abbiamo potuto, in Italia, organizzare un gruppo politico senza sedi e strutture, su quale è stata, in fondo, la rivoluzione del gruppo italiano degli anni ottanta, e cioè su Radio Radicale. Superando la logica del segretario di sezione del Comune, o della Provincia o della Regione - logica su cui era costruito gerarchicamente ogni altro partito politico, con tutta la pesantezza della burocrazia di partito - il nostro modo di organizzarci è stato quello di portarci alla conoscenza di
retta dell'ascoltatore e quindi del cittadino. La vera rivoluzione del modello di partito è stata la nostra Radio Radicale. E io credo che oggi sarebbe irresponsabile non fermarci un attimo a pensare come, a livello transnazionale, le nuove tecnologie ci possano aiutare in una direzione simile. Forse non ci abbiamo riflettuto abbastanza neppure noi, ma è sicuro che non si può continuare a comunicare al di fuori di queste tecnologie che avanzano. Non lo fa più neppure il più piccolo imprenditore privato. Nell'ambito economico chiunque, qualunque piccolo imprenditore non comunica più ormai né via fax né via telefono, perché è troppo caro, perché è insopportabile, perché è antieconomico, ecc. E perché mai la politica, o l'organizzazione politica, deve avere criteri diversi o principi diversi? Perché deve rifiutarsi categoricamente di fare attenzione, invece, a come sfruttare al meglio per le sue battaglie, per i suoi valori, per la comunicazione e per l'informazione, questi nuovi strumenti di accesso che già ci
sono? Sicché la proposta che io fatto nella relazione, di Commissario o commissariamento - o quel che sarà - vuole andare esattamente in questa direzione.
Io credo che nello scenario internazionale quale è quello che brevemente vi ho esposto, con la situazione che ci capita ora di avere (il mio nuovo incarico) e che è una situazione più stabile dal punto di vista anche delle strutture, e tra l'altro presenta anche una sua priorità politica (così come ho cercato di descriverla per quanto riguarda l'Europa e Bruxelles) sia necessario riuscire a coagulare altre energie, aggiuntive rispetto ad una presenza italiana oggi preponderante o determinante. Questa presenza, io non la sottovaluto per niente, non è questo il problema, dico però che nella nostra storia ogni certo numero di anni abbiamo avuto la forza e il coraggio di azzerare tutto - o quasi - per ripartire daccapo. Abbiamo avuto la forza e il coraggio di non conservare l'esistente ma metterlo in discussione per tentare di creare il probabile. Non il certo, ma il probabile. Allora è importante, io credo, che riusciamo ad uscire da schemi che sono stati utili e necessari negli anni scorsi, e vedere se si ries
ce ad aggregare altro, a partire da una nuova classe dirigente, aggiuntiva rispetto all'attuale. Che sia in Francia, che sia in Portogallo, che sia nell'Est Europeo, che sia in Africa, che sia negli Stati Uniti, ad esempio, ripensare come comunicare con queste persone, come riuscire a comunicare col mondo in termini che siano anche finanziariamente adeguati. Tutto questo è l'oggetto della nostra, vostra riflessione. Non è affatto, a mio avviso, la rimessa in discussione di una analisi politica che anzi ogni giorno mi si riconferma, cosicché io stessa mi riconfermo con forza in quei giudizi che hanno dato origine all'idea stessa di un partito transnazionale. Credo però che noi dobbiamo oggi correre il rischio di rimescolare le carte in termini organizzativi, per rischiare di essere più adeguati ai valori che difendiamo, alle battaglie che abbiamo fatto e a quelle che vorremmo fare perché ne abbiamo oggi forse la possibilità. Non cogliere questa occasione credo sarebbe irresponsabile. Ed è per questo che ho pr
oposto quel che ho proposto.
Per quanto mi riguarda cercherò di difendere e di sviluppare questi principi e valori; a voi tutti, sui quali ricadrà in modo più diretto la responsabilità della vita e della crescita del Partito Radicale - e non è un modo formale per dirvelo - a voi tutti il mio augurio più affettuoso perché possiate in questi giorni lavorare su una strada non parallela ma convergente verso obiettivi che ci sono comuni. La nostra storia è il nostro lasciapassare, è la nostra carta d'identità. Credo che quello che abbiamo saputo inventare e costruire negli anni scorsi non è venuto meno, credo, nel nostro impegno e nella nostra determinazione. Cerchiamo dunque di essere all'altezza delle nostre ambizioni e dei compiti per i quali ci siamo organizzati. Viva il Partito Radicale.
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B. Testo scritto e distribuito.
Cari amici radicali,
torno tra di voi dopo una breve, ma intensissima esperienza fatta nelle istituzioni europee: e non solo negli uffici di Bruxelles (o di Strasburgo) ma visitando situazioni, luoghi, problemi i più diversi. Ebbene, desidero subito dire qui, tra voi, che dovunque - a Sarajevo, a Kigali, o a Rennes - nella diversità dei problemi che ho incontrato, il loro denominatore comune è lo stesso: un enorme bisogno di Europa, di chiarezza europea, di decisione europea, di presenza europea. L'assenza dell'Europa, della sua voce, delle sue possibilità e delle sue competenze, è - io credo - una delle cause dell'instabilità, delle inquietudini, delle difficoltà che il mondo sta oggi attraversando.
Sono qui tra voi, cari compagni e compagne radicali, cari amici e amiche, per un dialogo e confronto che spero possa essere utile a voi come a me: e allora, subito, tengo a dirvi quale sia il mio giudizio sulla situazione europea, perché penso possa essere importante per il vostro dibattito. Di questi dialoghi molti vorrei aprirne, a Parigi, o a Londra o dovunque i problemi dell'Europa fanno oggetto di attenzione e di iniziativa militante, creativa, positiva: meglio anche se tra non radicali; perché di voi l'Europa già sa che siete suoi amici fedeli, ma oggi è necessario far sì che altre energie, altre potenzialità, altre risorse si muovano a sua difesa. I tempi, infatti, stringono. Vi dico subito che, al di là delle questioni relative al mio mandato di commissario, il problema essenziale che sono certa dovrà essere affrontato, dentro le istituzioni ma anche fuori, è l'appuntamento della conferenza intergovernativa del 1996. Per voi non è cosa nuova, lo so bene: nelle discussioni che hanno preceduto questo c
ongresso, tra i radicali già si guardava all'appuntamento come ad obiettivo prioritario ed anzi come ad un metro sul quale misurare la ricostruzione, o riconversione, del partito. Dicevamo che esso avrebbe dovuto ristrutturarsi, per i prossimi due anni, avendo l'occhio, innanzitutto, a Bruxelles e alla Conferenza.
A Ennio Flaiano non era sfuggita la banalità insita nel notare che "siamo in una fase di transizione": si è sempre e comunque in una fase di transizione! Ma, a pensarci bene, lo stesso potrebbe essere detto delle svolte decisive: si è sempre in vista di svolte decisive!
Tuttavia è questa la definizione corrente del prossimo grande appuntamento dell'Europa, la conferenza intergovernativa del 1996. Molti dicono che è qui che si deciderà del processo di integrazione europea: se si andrà avanti o se si tornerà indietro, ripiegandoci sulle vecchie pigrizie mentali - la geopolitica, gli interessi nazionali - ora persino travestite da mode culturali.
Ma, senza nulla togliere alla importanza della scadenza e all'impegno necessario per indirizzarla nella direzione che crediamo giusta, desidero subito sgombrare il campo da ogni atmosfera da "ultima spiaggia". L'Europa ha vissuto molte altre "svolte decisive", anche drammatiche. Il processo di integrazione non è mai stato un processo lineare e tutto il progresso che c'è stato lo si deve in fondo alla tenacia e all'ostinazione di chi - come Altiero Spinelli - non ha mai smesso di credere al progetto politico - lasciatemi sottolineare questo aggettivo: POLITICO - federalista. Non ha mai smesso di credervi, quale che fosse il risultato degli innumerevoli vertici governativi, in cui il progetto veniva regolarmente annacquato.
Dico subito che noi dobbiamo continuare - come Spinelli - a perseguire l'obiettivo di un'Europa federale, fondata sulla sovranità popolare che esprima un parlamento con pieni poteri legislativi, quale che sia il risultato del 1996. E, mentre giudicheremo dell'opera dei governi europei col metro radicale di sempre - "fare comunque avanzare le cose, fosse solo di un millimetro" - dovremo continuare, con fiducia e tenacia, a fare appello ai cittadini, a non dimenticare mai che sono i cittadini la ragion d'essere delle istituzioni, e mai il contrario.
Dico "noi", state attenti, non casualmente.
I cittadini. Io sono convinta che malgrado più di un governo nazionale sembri di nuovo incline a un certo euroscetticismo - termine in voga, qualcuno lo ricorderà, all'inizio dello scorso decennio - tra i cittadini la domanda d'Europa c'è ed è forte. E non, come possono pensare quanti sembrano dar fiducia solo alle questioni di portafoglio, quando li si mette di fronte all'Europa del mercato, della concorrenza e della moneta - per quanto importante sia tutto ciò - ma quando essi si trovano di fronte ad alcune scelte, più immediatamente politiche, dell'Unione.
Faccio un esempio tratto da una delle competenze attribuitemi dalla Commissione: l'aiuto umanitario. I sondaggi d'opinione condotti dall'Eurobarometro mostrano non solo un sostegno larghissimo agli interventi d'emergenza (la maggioranza chiede addirittura un sforzo maggiore): ma rivelano soprattutto che i cittadini chiedono una maggiore visibilità dell'impegno europeo e respingono l'ipotesi di tornare, in questo campo, a politiche di stampo nazionale.
Personalmente, leggo in questo esempio segnali che dovrebbero incoraggiarci a proseguire nella nostra battaglia federalista. Mi sembra infatti che esso smentisca in pieno l'idea che l'unico modo per costruire l'Europa sia il far leva sugli interessi economici; smentisca che sia l'economia a precedere la politica - l'approccio detto "funzionalista" il cui risultato è però invariabilmente il consentire ai governi di cullarsi nell'illusione che, al di fuori della sfera economica, abbia ancora senso attaccarsi alle prerogative nazionali.
I sondaggi invece indicano un chiaro sostegno a una scelta POLITICA dell'Unione - l'aiuto umanitario - che va al di là dell'interesse centrato sul proprio ed esclusivo benessere (lasciatemi anche notare, di sfuggita, che avevamo visto lontano noi radicali quando dieci e più anni orsono decidemmo di mettere tutte le nostre energie nella lotta contro lo sterminio per fame nel mondo, per salvare milioni di esseri umani, subito!).
Ma c'è anche, in queste risposte dei cittadini europei, la richiesta di una maggiore visibilità internazionale dell'Unione. C'è, dunque, una specie di volontà tutta pacifica di mostrare la bandiera, la bandiera europea, nel mondo.
C'è insomma un messaggio chiaro rivolto ai governi, in vista della conferenza del 1996: è arrivato il momento di cedere spazi di sovranità oltre la sfera economica, di addentrarsi sul terreno politico, di definire insomma una politica estera e di sicurezza dell'Unione in quanto tale. Una politica estera e di sicurezza che non sia solo il minimo comune denominatore delle politiche nazionali.
Su questo punto specifico, diversamente dalle questioni monetarie, non ci sono criteri di convergenza misurabili su un metro diverso dalla volontà politica di procedere, di andare avanti, mettendo in comune informazioni, analisi, finalità e risorse. Ivi comprese quelle militari.
Mi chiedo, ad esempio, perché le risorse delle forze armate europee - coordinate dall'Unione dell'Europa Occidentale - non vengano ancora utilizzate dalla Comunità nel quadro della sua politica di aiuti umanitari. Non si tratta di mandare reparti armati. Tutt'altro. Si tratta piuttosto di utilizzare i mezzi di trasporto aerei e marittimi, le comunicazioni - le strutture logistiche insomma, che possono rendere più efficiente e veloce l'arrivo degli aiuti d'emergenza comunitari là dove c'è più bisogno. Mi sembra spesso paradossale che il maggior donatore d'aiuti umanitari del mondo - l'Unione Europea appunto - si affidi solo ed esclusivamente alle organizzazioni non-governative o alle agenzie delle Nazioni Unite, senza poter ricorrere a mezzi propri. Mezzi che pure possiede, e che finanzia regolarmente attraverso i bilanci della difesa dei paesi membri.
C'è un altro paradosso in questo campo: il trattato sull'Unione non prevede esplicitamente che la Comunità possa effettuare azioni di carattere umanitario. Dunque occorre che la revisione del 1996 inserisca una disposizione specifica che preveda questo tipo di intervento, definendone le condizioni. Ciò' consentirebbe all'Unione di dare visibilità politica , in un quadro di estrema chiarezza, ad un'attività che testimonia l'impegno di solidarietà dell'Europa fuori dai propri confini.
Dicevo prima che esiste una forte domanda d'Europa. Domanda che non proviene solo dagli europei - ai quali certamente non è sfuggito che, se il crollo del comunismo non ci consente più di delegare agli Stati Uniti la nostra sicurezza, ha anche reso definitivamente risibile ogni tentativo di assicurarla, la sicurezza, su base nazionale. Una domanda d'Europa arriva - forse ancora più nettamente - dall'esterno, da gente che vive al di là degli attuali confini dell'Unione.
Arriva in primo luogo da chi si candida e, giustamente, preme per farne parte. Sul principio dell'allargamento dell'Unione siamo per fortuna tutti d'accordo, sembra: cittadini, forze politiche e governi. E' pero' molto strano come questo consenso non porti a riflettere sulle conseguenze istituzionali di un'Europa non più a quindici - com'è oggi - ma a trenta o più membri. Tanto per fare alcuni esempi: mantenere il voto all'unanimità in seno al Consiglio in tali condizioni significherebbe consentire a una piccola minoranza di impedire alla stragrande maggioranza di prendere delle decisioni. Una Commissione di quaranta o più membri sarebbe un organismo funzionale? D'altra parte non è nemmeno pensabile che l'allargamento si traduca nella cosiddetta "Europe à la carte", in cui si possa scegliere di restare fuori da settori importanti - come ha fatto la Gran Bretagna nel caso del protocollo sociale. A me pare evidente che da queste contraddizioni si esce soltanto per la porta federalista: ovvero, abbandonando pro
gressivamente l'idea che ad avere l'ultima parola siano sempre e comunque i governi nazionali.
In altri continenti poi, milioni di persone si aspettano ormai il nostro impegno umanitario, la nostra cooperazione al loro sviluppo, la nostra solidarietà concreta al loro tentativo di affermare la democrazia e i diritti umani.
E' questa, secondo me, l'altra grande sfida che dobbiamo raccogliere. Qual è l'immagine dell'Europa che vogliamo proiettare nel mondo?
Non è questione davvero di un'Europa superpotenza: semmai il rischio corrente d'immagine è quello di un'Europa introversa, che contempla il proprio ombelico e da questo rischia di essere risucchiata. Si tratta allora di far crescere un soggetto politico all'altezza del proprio potenziale civile ed economico; si tratta di mettere a disposizione della comunità internazionale un attore, l'Europa, la cui scala politica sia adeguata alla portata dei problemi globali che abbiamo di fronte - portata chiaramente irraggiungibile agli Stati nazionali che compongono l'Unione di oggi e quella di domani.
L'Europa è necessaria - agli europei e al resto del mondo. E' necessaria ma non sufficiente. Tutto il nostro sforzo sarebbe rapidamente vanificato se l'Europa federale che vogliamo costruire si trovasse alla fine ad agire in un sistema internazionale anarchico, o quasi anarchico, come l'attuale.
Di qui l'altra grande ossessione di voi, o di noi radicali: la riforma delle Nazioni Unite. In due direzioni precise. Due direzioni che sono - non per caso - sempre le stesse, dovunque si dispieghi l'azione politica radicale: negli Stati nazionali, in Europa, o a livello globale.
Prima direzione: la rappresentatività: occorrono istituzioni elettive, scelte dai cittadini e al loro servizio. Seconda, il diritto, la stipula di regole del gioco - del gioco democratico - accettate liberamente dai cittadini e dai loro governi: ma - e su questo continueremo a batterci senza mollare mai, "fosse solo di un millimetro" - regole del gioco che siano in grado di farsi rispettare - gli anglosassoni direbbero "enforceable". Regole del gioco che includano un meccanismo sanzionatorio chiaro e univoco contro chi, avendole liberamente accettate, le vìola.
Ecco allora gli assi della riforma dell'ONU per la quale ci battiamo: un'assemblea generale che sia espressione diretta dei cittadini, senza la mediazione dei governi nazionali; un Consiglio di Sicurezza che sia non solo più rappresentativo di quello attuale (i cui membri siano, ad esempio, le Organizzazioni regionali invece dei singoli Stati) ma anche dotato di poteri di sanzione.
Questo fu il senso delle mie proposte, quando qualche mese fa il segretario generale Boutros Ghali mi invitò a sottomettere delle raccomandazioni sul tema dello sviluppo. Ho detto allora, nei termini più chiari possibili, che è inutile chiedere ai Paesi ricchi uno sforzo maggiore per l'aiuto allo sviluppo, se nessuno è in grado di far rispettare gli impegni che questi Paesi prendono. E' l'esperienza a dimostrarlo: solo i Paesi scandinavi (con lo 0,7%) hanno effettivamente devoluto agli aiuti allo sviluppo quanto liberamente stabilito a suo tempo dai membri dell'OCSE in sede ONU.
E, secondo la stessa logica, nessuna sovranità nazionale, nessun principio di non-ingerenza negli affari interni degli Stati, potrà essere legittimamente invocato quando i diritti fondamentali dell'individuo vengono violati. Un sistema di regole deve avere anche una propria gerarchia interna. E poiché le istituzioni esistono per i cittadini e non i cittadini per le istituzioni, il diritto dell'uomo viene prima del diritto di qualsiasi Stato all'esercizio della propria sovranità.
Il diritto dell'uomo, dico. Occorre aver presente e fare in modo che ogni uomo sia "cittadino", cioè persona che vive ed opera in un quadro certo di diritti, di diritti civili ed umani. La certezza del diritto, la vita certa del diritto assicura il diritto alla vita. La scienza, le conoscenze, la tecnologia sono strumenti indispensabili per dare cose importanti. Ma, come vediamo in ogni parte del mondo, è l'assenza di diritto, l'offesa, la negazione del diritto che impediscono all'uomo l'accesso al sapere e alla tecnica, o, peggio, asserviscono la tecnica, i saperi, ad obiettivi di distruzione e di morte.
Se dico queste cose qui, in un congresso radicale, è perché tra i radicali - con le loro battaglie, la loro strenua difesa del diritto e dei diritti - io le ho capite ed ho imparato a lavorare per esse. E per questo ringrazio voi, il partito radicale, perché mi ha posto nelle condizioni di poter oggi portare tale esperienza a servizio degli europei, dell'Europa.
Io, ve lo assicuro, cercherò al possibile di difendere e di sviluppare quei principi. E a voi vada tutto il mio augurio, il mio affettuoso augurio, perché possiate in questi giorni lavorare, su una strada non parallela ma convergente, verso obiettivi che siano ancora comuni. E ancora una volta - speriamolo assieme - vincenti.