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Radio Radicale Sergio - 30 ottobre 1999
DALAI LAMA, HOLLYWOOD NON BASTA
di Emma Bonino

[La Stampa 27/10/1999]

Gli europei devono promuovere la riapertura dei negoziati tra Pechino e il governo tibetano

Divisione del lavoro fra socialisti europei. A Londra, mentre Tony Blair, leader della "terza via", riceve con tutti gli onori il presidente cinese Jiang Zemin, capo dell'ultimo impero comunista, la sua polizia strapazza un po' il dissidente cinese Wei Jingsheng e una piccola folla di manifestanti. Per fortuna che in Italia due autorevoli seguaci della terza via, il presidente del Consiglio Massimo D'Alema e il segretario del suo partito Walter Veltroni, ricevono in pompa magna il Dalai Lama, uomo-simbolo della resistenza del Tibet contro l'occupazione cinese. Per la strada, a Roma, a protestare contro Pechino, solo i soliti guastafeste radicali. Come mai? Nel 1984, quando nessuno in Occidente si occupava di Tibet, fu Petra Kelly, fondatrice dei verdi tedeschi ed europei, a rivelare all'Europa distratta e smemorata il calvario di un paese grande dieci volte l'Italia, "scomparso" da alcuni decenni, annesso e colonizzato dal colosso cinese. Un paese dalle tradizioni antiche e stravaganti, un paese di montagn

e, un pezzo di Himalaya, sepolto dalle nevi, chiuso e misterioso. Dalla Germania, nel 1988, furono Giovanni Negri, allora segretario del Partito Radicale, e Piero Verni a importare in Italia la "causa persa" tibetana, invitando al congresso radicale un rappresentante del governo tibetano in esilio. Da allora, molta neve è caduta sul Tetto del mondo, molte migliaia di coloni cinesi sono stati trapiantati in Tibet, molte migliaia di tibetani sono stati incarcerati, sono morti o sono fuggiti. Lhasa è diventata Lamaland, meta prestigiosa per centinaia di migliaia di occidentali alla ricerca di un nuovo Eldorado dello spirito. E nato il Tibet virtuale.

Il Dalai Lama, emulando Papa Wojtila, si è fatto grande viaggiatore e grande comunicatore. La questione tibetana è esplosa in mondovisione. E approdata a Hollywood mentre Petra Kelly moriva, dimenticata, a Berlino. Il Dalai Lama ha avuto il Premio Nobel per la Pace. Il Tibet è entrato nei parlamenti di mezzo mondo. E il mondo scopre, dopo quello virtuale, da dépliant, il Tibet reale, con la sua storia millenaria. Scopre che il Tibet non è la Cina e che dall'invasione cinese del '49, oltre un milione di Tibetani - un quinto della popolazione - sono morti, nella guerra di resistenza e poi nei campi di concentramento. Scopre che i tibetani sono diventati una minoranza nel proprio Paese.

Il Dalai Lama non si è mai perso d'animo. Non ha mai smesso di invocare dialogo con le autorità cinesi, né di ripetere che non vuole l'indipendenza. Vuole una reale autonomia. Vuole salvare la peculiarità della civiltà tibetana. Su questa linea, un enorme potenziale di solidarietà e mobilitazione si è via via delineato nel mondo intero. All'insegna della non violenza. Due imponenti, indimenticabili manifestazioni si tengono in Europa: a Bruxelles nel '96 e a Ginevra nel '97. Entrambe organizzate dai radicali "transnazionali", dalla diaspora tibetana e da una miriade di gruppi di sostegno. Oltre 1500 parlamentari di ogni paese sottoscrivono una richiesta ai governi del mondo libero: l'apertura, sotto l'egida delle Nazioni Unite, di negoziati senza precondizioni tra le autorità cinesi e le autorità tibetane in esilio. L'ondata liberatrice sembra incontenibile e invece, proprio nel 1997, si ferma. Affiorano e coagulano i vecchi riflessi di alcune "grandi famiglie" che contano, famiglie della Lhasa di una volt

a e della Dharamsala (la capitale dell'esilio) di oggi. Riflessi di conservazione e interessi che spingono alla spartizione-partecipazione a un nuovo potere tibetano che co-gestisce l'enorme business della "dalaimania". Prevale la linea dei negoziati diretti e segreti fra questo establishment e le autorità cinesi.

Una nebbia fitta avvolge la questione tibetana fino a pochi mesi fa, quando il Dalai Lama annuncia che per decisione delle autorità cinesi i negoziati segreti sono stati interrotti. Sul Tibet, su Taiwan, sulle isole Spratley, come sulla democratizzazione e sulla liberalizzazione dell'economia, a Pechino suona l'ora della chiusura e della repressione. L'Occidente, che aveva creduto nell'inevitabilità del passaggio dalle riforme economiche a quelle politiche, stenta a capire. O forse non vuole capire che con la "rinascita" della Cina, molte cose sono cambiate. A Pechino, certo. Ma anche e soprattutto nelle ambizioni e nei comportamenti di Pechino verso il resto del mondo. Il regime ha perso il pelo ma non il vizio.

C'è da chiedersi se l'intera politica asiatica dell'Occidente, fondata su una "partnership" privilegiata con Pechino, non sia da rivedere. Se l'idea di una "transizione senza avventure", fondata sulla modernizzazione, che ha guidato le scelte delle diplomazie occidentali non abbia finito per consolidare il ruolo del partito-stato. E vero infatti che si è aperto un mercato immenso, ma esso non è né libero né regolato, e cominciamo appena a conoscere i giganteschi costi politici e sociali che questa "crescita senza diritto" sta comportando. In Cina, della tradizione comunista sopravvive tutto il peggio e tutto l'essenziale. L'impronta tecnocratica. Il controllo statale dei meccanismi della vita produttiva e della stessa iniziativa privata. La repressione di ogni forma di conflitto sociale e politico. Smettiamo di tapparci gli occhi. Progressi reali in termini di democrazia e di rispetto dei diritti fondamentali in Cina e nei territori occupati del Tibet, del Turkestan orientale e della Mongolia interna devon

o diventare il perno su cui gli Europei devono fondare i loro rapporti, economici, culturali e politici, con Pechino.

Agli insuccessi della Realpolitik occidentale, non proponiamo di rispondere in modo astratto. Qualunque ipotesi di boicottaggio economico, di "isolamento" commerciale resterebbe sulla carta. Bisogna però riconoscere che invece di continuare ad assecondare un processo (con l'intento più o meno vago di limitarne gli eccessi) dobbiamo invertire la tendenza. A cominciare dal caso concreto del Tibet. Non affidare alle diplomazie nazionali o parallele la "trattativa" con il regime di Pechino, ma farne l'oggetto di una vera iniziativa internazionale. Per il Tibet, come per la questione di Timor Orientale, bisogna ripartire dalle Nazioni Unite, dalle risoluzioni del Palazzo di Vetro del 1963, 1964 e 1965 che condannavano l'occupazione del paese da parte di Pechino. E su questa base che gli Europei si devono fare i promotori intransigenti dell'apertura rapida sotto l'egida del Segretario Generale dell'ONU di negoziati tra il governo cinese ed il governo tibetano in esilio.

 
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