Grazie, ancora una volta, a Bandinelli che ha stimolato il confronto, e soprattutto ci ha posto di fronte alla necessità di una discussione approfondita sul tema della scuola. E' una questione con cui il movimento radicale non può ormai più, con tutta evidenza, esimersi dal fare i conti. E la ricchezza del dibattito dimostra che ne ha insieme il desiderio e una matura capacità.
Pannella, nell'intervento a Radio Radicale, invita alla prudenza nel ripensare sì a fondo i termini del problema, ma tenendo conto di tutta la complessità delle questioni implicate, e soprattutto non cadendo negli ideologismi; valutando cioè tutta la concreta politicità della questione, e dunque gli effetti nel concreto politico e sociale della linea e delle soluzioni che si vogliano adottare e perseguire.
Invito opportuno. Non partiamo da zero. Non si tratta di costruire dal nulla il sistema scolastico ideale in una società ideale: dobbiamo misurarci con quello che c'è, qui ed oggi, in Italia, e con il retaggio storico del quale in tanta parte questo presente è fatto.
Provo a elencare, solo a titolo di esempio, alcuni degli elementi da valutare. Siamo in un paese in cui la grande necessità è quella di una svolta liberale di segno liberista, e quindi in ogni campo del ritiro dello stato dalle funzioni di gestore. Come potrebbe non valere questo in una scuola appesantita fino allo stravolgimento della sua stessa ragion d'essere dalla degenerazione burocratico-sindacale? Ma di contro: è vero che nella realtà della scuola italiana alla presenza dello stato sembra contrapporsi più che la libera impresa la presenza, e la domanda, di una sola potente lobby già variamente assistita dal settore pubblico, quella cattolica. Così, è vero che la battaglia cattolica è condotta in nome di ineccepibili principi di libertà; ma, si può obiettare, sono poi le stesse parole d'ordine che contro lo stato e la à liberali usava la Chiesa del Sillabo. E l'attuale offensiva si coniuga palesemente con quella in altri settori - bioetica, famiglia, ecc. - nel contesto generale di un'operazione vo
lta a conquistare nell'Italia post-democristiana una rinnovata capacità di ingerenza e di condizionamento della Chiesa nella vita dello stato. Per contro, avrà pure un suo significato che il fronte "laico" - virgolette intenzionali - coincida in larghissima parte con quello appassionatamente statalista e antireferendario, da Cossutta a "Repubblica", e annesso La Malfa ( e proprio in questi giorni - interessante - la Bindi chiama alla crociata contro i radicali che nella sanità vogliono, guarda guarda, il principio del "buono").
O ancora. Certo, il diritto di scelta, il "mercato". Ma non è astratto parlarne in una realtà sempre più multietnica? Consentiremo con i soldi dello stato le scuole del fondamentalismo islamico? O comunque, se non altro, rinunceremo a quell'essenziale strumento di integrazione che è la scuola pubblica, per consegnare ciascuno al ghetto della sua scuola nazionale, etnica o religiosa? E poi: si dice che la competizione stimolerà le scuole a migliorare. Ma in un sistema caratterizzato dal valore legale del titolo di studio succederà il contrario: la gente correrà dove il diploma si ottiene più facilmente..... Per non dire che è, in realtà, una grave mistificazione demagogica la leggenda per cui la scuola italiana è nel suo insieme un disastro rispetto a quella degli altri paesi. La verità è che in molti campi quella italiana è una scuola complessivamente migliore di tante altre; i suoi vincoli statalisti e dirigisti hanno avuto meriti che non possono decentemente essere trascurati.
Si potrebbe proseguire a lungo; e ognuno dei dilemmi che richiamo meriterebbe attenzione e approfondimento. Ma è proprio a partire dalla consapevolezza di questa complessità che, a mio avviso, la prudenza suggerisce che il paese imbocchi con attenta e calcolata gradualità, ma con grande forza, una strada radicalmente nuova. E che noi, come forza politica, ce ne facciamo campioni. Innovando certo profondamente rispetto alle posizioni della tradizione radicale: ciò che è, nella situazione così mutata rispetto a un tempo, il solo modo di rimanere coerenti con le sue ragioni essenziali.
Difendere la tradizione laica:
Questo, certo, deve essere un punto fermo: sarebbe grottesco che d'un tratto, come entusiasti neofiti di un integralismo liberista, dimenticassimo il passato nostro e dei nostri "padri" di difensori della scuola pubblica laica e quasi ce ne vergognassimo. Al contrario, questa nostra storia dobbiamo rivendicarla in ogni sede.
Va detto con forza. La secolare contesa fra cattolici e laici sulla scuola fa tutt'uno, nel suo fondamento primo, con la grande partita per la modernizzazione laica, liberale e democratica della società. Ed è stata segnata, fin dalle sue origini, dallo scontro fra due modi opposti di definire la libertà e di richiamarsi alla libertà.
In effetti, affonda lontano, nella fase del primo sorgere della scuola di stato laica ad opera del nascente stato liberale, la protesta di parte cattolica contro "l'invadenza" onnivora e arrogante dello stato, contro la sua pretesa di farsi esso educatore conculcando il diritto primo della Chiesa e delle famiglie. Era una polemica che faceva tutt'uno con quella antichissima da sempre condotta in nome di un principio sì di libertà, ma di "libertà della Chiesa"; libertà di insegnare la verità, la propria unica verità, e di non vederla insidiata da quello che essa definiva errore. Richiesta "di libertà", insomma, che in larga misura recava in sé quella che fosse negata la libertà dei fautori dell' "errore". In piena coerenza con questa impostazione la Chiesa di allora, quella del Sillabo, collocava tra gli errori del secolo la libertà religiosa, la libertà di stampa e, appunto, l'istruzione obbligatoria. Ed era in questo contesto che veniva rivendicato il diritto-dovere dei genitori di rifiutare l'educazio
ne di stato per i propri figli e di affidarla alla Chiesa.
A fronte di questa realtà, la grande impresa della creazione di una scuola pubblica laica e la connessa istituzione dell'obbligo scolastico non rispondeva solo all'esigenza di un elevamento del livello culturale complessivo della società (alfabetizzazione di massa, diffusione della cultura superiore nei ceti borghesi). Aveva anche, e non poteva non avere, la finalità di spezzare il monopolio della Chiesa sull'educazione, e in particolare, all'inizio, quella delle classi dirigenti. Erano entrambi aspetti vitali di quella battaglia per la modernizzazione del paese attraverso una scelta di civiltà liberale in cui le forze risorgimentali si impegnavano e cui finalizzavano la creazione dello stato unitario. Solo quello "statalismo" - con tutte le sue rigidità centralistiche e burocratiche, con tutta la subordinazione degli insegnanti ai programmi e alle direttive del Signor Ministro che esso arrecava - poteva assicurare l'avvento di una scuola in cui potessero aver voce e esercitare l'insegnamento anche col
oro che avevano della verità una visione diversa da quella della Chiesa. Insomma: proprio perché "di stato" la scuola pubblica era la sola grande realtà sociale che potesse fondare e garantire, pur con tanti limiti, un certo grado di libertà di insegnamento di ogni singolo docente, in una società in cui l'egemonia culturale e il conformismo assolutamente prevalente erano indiscutibilmente, per tradizione radicatissima, di segno cattolico.
In buona sostanza questi termini della questione hanno continuato a essere validi a lungo anche nell'Italia del dopoguerra, pur con tutti i mutamenti via via intervenuti. Caduto il fascismo, la scelta costituzionale di stabilire l'impegno delle finanze pubbliche solo per la scuola di stato, pur lasciando ampia libertà a quella privata, ha mantenuto in pieno quella valenza: almeno fino a tutti gli anni cinquanta, ma anche oltre, la società italiana è rimasta in ampia misura improntata a un soffocante primato cattolico, o meglio piuttosto clericale, e il conformismo ha continuato ad avervi volto cattolico-clericale. In questo contesto la difesa della scuola pubblica laica è stato un elemento cardinale della resistenza contro una clericalizzazione oppressiva, battaglia di libertà e di tolleranza.
I nuovi termini della questione cattolica.
Sono ancora questi i termini della questione? Basta porsi la domanda per darsi la risposta: certo che no. E' cambiata in profondità la realtà italiana, si pone del tutto altrimenti la "questione cattolica". Il referendum sul divorzio del 1974 ha insieme contribuito a determinare, portato a coscienza e sancito il tramonto definitivo del clericalismo come realtà socialmente e politicamente dominante, come egemonia effettiva o possibile. Il successivo referendum sull'aborto ha poi dato al cattolicesimo militante, intenso, la figura di una minoranza nella vita italiana. Da un lato il ruolo assunto dalle culture di sinistra, via via con il centro-sinistra e, molto più, con la rivoluzione di costumi e mentalità portata dal '68 e dal suo protrarsi per oltre un decennio, e dall'altro la civiltà consumistico-televisiva hanno determinato nuovi e tutt'altri conformismi di massa. La secolarizzazione della società è avanzata a un punto tale che è più facile appaia anticonformista oggi il manifestarsi cattolici in
modo rigoroso che non il contrario. La stessa Chiesa per rendersi presentabile deve ormai manifestarsi come realtà sociale-umanitaria, occultando quasi, anche a se stessa, la propria ragion d'essere fondante, quella di annunciare e testimoniare una verità spirituale soprannaturale. (Vedi, ad esempio, nelle scuole pubbliche quel che è divenuto l'insegnamento della religione: non più ora di indottrinamento, come un tempo, ma tentativo degli insegnanti - non "tutelati" dalla potere di dare voti - di conquistarsi un minimo di attenzione dei ragazzi discutendo di varia umanità e moralità. Tentativo che rimane prevalentemente vano, col risultato di aggiungere al danno di un insegnamento in sé inaccettabile in una scuola pubblica e laica la beffa, per la Chiesa, di radicare ancor più nella mentalità l'idea di una irrilevanza o marginalità del fatto religioso).
Indubbiamente, esiste e pesa l'offensiva cattolica di questi anni, dal Giubileo, alle pressioni sulle norme statali in fatto di bioetica o di famiglia, all'invadenza papale sui telegiornali, alla corsa delle forze politiche - in primis quelle del Polo - a ottenere patenti di ossequio e fedeltà alla Chiesa, fino appunto alla campagna pro-scuola cattolica. Ma come non vedere la distanza incommensurabile di tutto ciò rispetto al ruolo della forza cattolica di un tempo? Oggi queste iniziative, in quanto hanno di francamente clericale, si pongono in parte come battaglie di resistenza, volte ad assicurarsi qualche spazio ed ascolto in un universo culturale secolarizzato e nichilista, in parte come operazioni di segno corporativo e di potere, né più né meno gravi e preoccupanti delle innumerevoli operazioni consimili di cui è costituita la vita pubblica e istituzionale italiana. Nulla a che vedere con qualcosa che possa portare a ristabilire un'egemonia e un controllo cattolici "sulle menti e suo cuori".
Se così è, e a me pare che sia, non ha più alcun senso per i laici affrontare il rapporto fra scuola pubblica e scuola privata nell'ottica di una difesa da un pericolo del risorgere dell'antico regime clericale che sarebbe grottesco ipotizzare. La grande partita pro o contro un'egemonia cattolica nella vita italiana è da tempo conclusa. La questione della scuola non può più essere intesa in primo luogo come un aspetto della "questione cattolica" e in funzione di essa; è la questione della scuola, punto e basta. Questo il dato nuovo sostanziale da cui partire; ignorando il quale si rischia, nella fedeltà formale alle battaglie di un tempo, di stravolgerne il senso e le finalità di fondo.
Il nemico: la pedagogia di stato.
Occorre infatti ritornare alle ragioni fondanti dell'impegno laico: la cui finalità non è ovviamente contrastare la Chiesa in quanto tale, ma conquistare e affermare libertà e responsabilità per ciascuno. L'avversario è il potere che pretenda di imporre una propria verità e i propri valori contro quelli che ciascuno trovi o esprima a partire dalla propria coscienza: dunque lo stato etico, non importa che la sua etica sia quella cattolica o una qualunque altra. Lo stato (la regola, la legge) che vogliamo è quello che tutela il diritto di ciascuno alla propria verità.
Nel campo educativo-didattico questo significa che il nemico da battere è l'idea, il principio della verità pedagogica imposta dal potere, della pedagogia di stato. E' in questo intento che abbiamo voluto, e credo dobbiamo continuare a volere, una scuola pubblica laica, la cui esistenza è fondamentale e indispensabile. Lo stato laico deve garantire a tutti i cittadini la possibilità di apprendere e di insegnare in una scuola che non abbia una propria verità pedagogica ma che sia il luogo in cui ognuno possa operare ispirandosi alla propria concezione pedagogica, che è il riflesso della sua visione del mondo e dell'uomo. (Scuola pubblica, dico; non necessariamente statale - potrebbe essere anche a gestione privata, ma in base a convenzioni con cui il gestore fosse impegnato a fornire quel tipo di servizio pubblico. Come per il servizio pubblico affidato a Radio radicale. Non sto ovviamente parlando dell'attuale scuola privata).
Da questo punto di vista, anche in considerazione della realtà italiana, in cui per il 95% dei ragazzi la scuola è quella di stato, la battaglia prima per noi non dovrebbe essere tanto quella intorno al tema della scuola privata, ma quella per ottenere che nella scuola pubblica statale siano eliminati gli aspetti - ci sono, e non marginali - che in essa configurano l'esistenza di una pedagogia di stato, o comunque di imposizione di verità pedagogico-educative; e perché siano battuti i ricorrenti tentativi di aggravare questi dati. Questo, come è noto, era il significato politico e culturale dell'unica azione politica rilevante che il movimento radicale ha compiuto sul terreno della scuola, ossia il referendum contro l'obbligo dei tre maestri, monumento alla pedagogia di stato. (E, per quanto nel mio piccolo mi riguarda, questo è stato il tema assolutamente dominante dell'azione un po' solitaria di "lobbying" sulla politica scolastica cui, come qualcuno sa, mi sono dedicato in questi ultimi anni; con r
isultati che credo di poter rivendicare, in primis l'aver contribuito in modo determinante a far inserire nell'autonomia scolastica norme volte a garantire che in ogni scuola autonoma la maggioranza non possa imporre le proprie scelte pedagogiche alle minoranze, nonché appunto l'abolizione del famigerato modulo obbligatorio. Sempre fra parentesi: è su questo terreno, con questi obiettivi e con queste motivazioni fra noi assolutamente comuni che è maturato e si è consolidato il mio rapporto di totale convergenza e unità d'azione sui temi della scuola con i ciellini. I quali, a partire dalla loro convizione sull'essere i veri cattolici minoranza e dall'esigenza per loro primaria di assicurarsi libertà di educare, hanno scelto la linea del rigore nella difesa della libertà di ciascuno come garanzia di libertà per sé; e sono così di fatto l'unica grande forza per cui gli obiettivi liberali nella scuola siano una priorità politica).
Insomma, obiettivo primo quello di ottenere che la scuola pubblica sia scuola di libertà e fondata sulla libertà; che è quel che mi pare intendere Bandinelli quando parla della scuola pubblica come della "scuola libera". In questo almeno mi sembra di trovarmi in profonda consonanza con lui; che, per inciso, è uno di quelli fra noi le cui opinioni da sempre, come a molti è noto, hanno per me maggior peso.
Scuola privata e libertà
Ma poi c'è la questione della scuola privata. Qui bisogna bene intendersi sui criteri in qualche modo "ultimi". Si può immaginare che, per garantire libertà, lo stato laico imponga a tutti la scuola pubblica come sopra l'ho definita? Nessuno fra noi lo dice. Significherebbe, appunto, imporre un modello pedagogico. Perché può ben esserci - tanto che c'è - chi pensa che, magari soprattutto per i bambini più piccoli, sia opportuno avere un'educazione improntata a coerenza di criteri educativi e pedagogici; e quindi vuole una scuola diversa di quella che sia arena di impostazioni confliggenti, o in cui il destino educativo dei suoi figli sia affidato alla casualità con cui essi saranno assegnati a questi o quegli insegnanti. Senza andare subito al caso "caldo" delle scuole a impostazione religiosa, prendiamo quello di chi vuole per suo figlio una scuola "di metodo", come quelle a metodo montessoriano o steineriano. E perciò vuole creare, o scegliere se c'è, una tale scuola. (Per chiarezza: è stato a suo temp
o proprio il caso di chi scrive). Lo stato che lo vietasse sarebbe radicalmente antilaico; sarebbe quella forma di stato etico che è lo stato educatore, ossia quello che si arroga lui il diritto di decidere quello che è educativamente giusto e utile, e lo sottrae ai genitori.
Libertà di scelta educativa da parte dei genitori. E' uno snodo delicato e decisivo; sul quale è possibile ci siano fra noi incomprensioni e dissensi, anche perché coinvolge una questione su cui non ricordo ci sia stato mai fra noi approfondimento, quella della natura e dei caratteri del rapporto educativo. Per quanto personalmente mi riguarda, avrei sentito come intollerabile violazione di un mio diritto fondamentale che per i primi, importantissimi anni di scuola delle mie figlie mi si imponesse il criterio del caso; violazione quanto e forse più inrtollerabile per me che se mi si fosse impedito il diritto di parola e di stampa. E in effetti la libertà di scelta educativa sta fra quelle definite dalla dichiarazione universale dei diritti dell'uomo - che tra l'altro il Preambolo allo statuto del PR proclama legge anche politica fondamentale per i radicali - come uno dei diritti essenziali della persona umana.
Certo, questo diritto va contemperato con un altro: non con quello dello stato di decidere lui, ma con quello dei figli minori di non essere vittime di scelte arbitrarie che indiscutibilmente li danneggino. Ovviamente, la libertà dei genitori - corrispondente e conseguente a una primaria responsabilità, a doveri e a obblighi - non può giungere a negare ai figli il diritto a raggiungere un livello adeguato di istruzione, o a farne dei delinquenti, e così via. E' ovvio compito della legge stabilire l'equilibrio fra questi due diversi diritti. E, ancora, è tutto da discutere, e magari da definire per legge, e magari innovando rispetto all'esistente, a quale età i figli possano acquisire via via maggiori diritti di autodeterminare le proprie scelte. Ma, posti questi limiti, non ci sono alternative: o è lo stato (paterno?) il titolare del diritto a decidere, o lo sono i genitori.
Sia chiaro: la logica liberale, oltre che quella liberista della competizione fra proposte diverse, vuole che almeno un certo grado di diritto all'opzione possa essere esercitata dai genitori, o dai ragazzi più grandi, anche nell'ambito della scuola pubblica che, soprattutto con l'autonomia, offrirà una molteplicità di proposte didattico-educative diverse. E in quest'ambito dovrebbe stemperarsi anche molta della tensione determinatasi intorno alla scelta fra pubblico e privato. Comunque, deve rimanere la possibilità di scegliere una scuola altra da quella pubblica, proprio in quanto e perché altra e diversa.
Qui si arriva finalmente alla questione dei soldi. Ove il discorso non può che essere diverso se ci si pone nella prospettiva del buono scuola, che per non risolversi in una catastrofe presuppone l'abolizione del valore legale dei titoli, ovvero se si rimane nell'ambito di un ordinamento che mantenga il valore legale. Per il momento consideriamo questa seconda ipotesi, ossia la situazione attuale, assai complessa da superare.
In questo caso, anche in base alle considerazioni che facevo sopra, resta prioritario per lo stato l'obbligo di offrire a tutti la possibilità di frequentare la scuola pubblica migliore possibile. Come, si potrebbe dire, nel settore dei trasporti: lo stato deve farsi carico dell'esistenza del sistema stradale e ferroviario, e in una forma o nell'altra dell'esistenza del trasporto pubblico; mentre chi non vuole approfittare del trasporto pubblico, anche se magari lo mantiene con le tasse, se vuole l'auto privata se la paga.
Già, ma qui non stiamo parlando di automobili. Stiamo parlando, se quel che ho detto sopra ha un senso, dell'esercizio di uno dei diritti fondamentali della persona. Se è così, è accettabile che esso sia alla portata solo di chi economicamente se lo può permettere, o perché ricco, o perché si rivolge a una scuola che ha dietro di sé risorse tali da potersi permettere di accoglierlo gratuitamente? E che rimanga per definizione vietato a chi è senza mezzi?
La soluzione, a questa stregua, non può essere che una se si vuo essere coerenti con l'impostazione liberale e laica. Nessun diritto a finanziamenti pubblici per la scuola privata. Allo stato compete solo l'obbligo di istituire le scuole per tutti e di tutti. Chi vuole esercitare il diritto di scegliere la scuola "altra" e ne ha i mezzi, se la paghi. Ma chi non può permetterselo, deve essere aiutato a farlo, in misura e entro limiti - comunque significativi - stabiliti in base alle compatibilità della finanza pubblica, con lo strumento del credito di imposta.
E' compatibile tutto ciò con la costituzione? Mi pare possibile: sono oneri non derivanti dall'esistenza e dal funzionamento delle scuole, bensì legati solo al fatto che vi si vogliano iscriversi dei non abbienti e che se ne debba sostenere il diritto di scelta. Ma se gli esperti valutassero che non è così, dovremmo esser noi a proporre l'abrogazione del "senza oneri per lo stato". Che, oltretutto, nella nuova situazione di cui parlavo sopra è norma che non ha alcun senso: perché mai uno stato che sovvenziona di tutto, dalle rottamazioni delle automobili alla coltivazione delle barbabietole, dovrebbe essere inibito dal farlo per delle scuole?
Va da sé che la soluzione che sostengo è tutt'altro rispetto all'ignobile legge della maggioranza, la quale da una parte elargisce finanziamenti allle scuole private materne e in parte elementari, dall'altra dà un assurdo contributo assistenziale di 500.000 lire alle famiglie indigenti, "per equità" nella stessa misura, sia che utilizzino la scuola gratuita statale, sia che si paghino quella privata (ovviamente, così il contributo non è lontanamente tale da consentire di scegliere la scuola privata a chi vorrebbe farlo, ma non può per mancanza di mezzi). In "compenso" poi la legge stabilisce vincoli per le scuole paritarie che ne limitano gravemente la libertà rispetto a quanto determinato con solare chiarezza dalla costituzione. E ancor più questa soluzione è altro rispetto alla proposta lanciata ora dai popolari, che lo stato paghi gli insegnanti delle scuole private: proposta indiscutibilmente anticostituzionale, e che significherebbe la sostanziale statizzazione delle scuole private stesse, perché ovv
iamente lo stato pagatore non potrebbe non stabilire per la nomina degli insegnanti - il punto chiave della libertà delle scuole - criteri "pubblici", di tipo statale. Proposta perfettamente espressiva del criterio sempre adottato in questi mesi da una parte assai forte della gerarchia ecclesiastica: l'importante è che arrivino soldi alle scuole, pazienza se questo costerà diminuzioni al loro diritto di essere "diverse". Criterio invece ovviamente respinto da quei cattolici che pongono davvero un problema di libertà, e non solo di "roba".
E' ovvio che tutto il mio discorso si fonda sulla preoccupazione di tutelare un diritto alla diversità. In questo senso è vitale la difesa del diritto delle scuole private a rimanere diverse, a non essere omologate a quelle pubbliche, secondo la minaccia che più volte è emersa nei confronti di questi anni e che in parte si concreta sia nel progetto di maggioranza che, ancor più, nella proposta del PPI: a che scopo istituire o scegliere una scuola privata, se deve essere uguale a quella pubblica? Ma qui sorge la questione che Angiolo pone con tanta forza: quella della libertà di insegnamento nella scuola privata. Che senso ha, scrive, porre la questione in termini di libertà, di scuola libera, quando le scuole private, essendo di tendenza, negano esse al proprio interno la libertà di pensiero e di insegnamento?
Capisco la gravità della sua preoccupazione: ma non sono d'accordo. E' la scuola pubblica che non può per definizione avere una sua linea culturale o pedagogica precostituita: ogni insegnante deve potervi affermare la propria. La scuola privata, se e quando lo crede, deve poter avere una funzione diversa. Cioè quella di essere espressione di persone che vogliono proporre un loro specifico modo di insegnare. Chi accetta di lavorare lì sa che assume quell'impegno: non genericamente di insegnare, ma di insegnare in quel modo, non in altri. E chi sceglie quella scuola per i propri figli lo fa perché essi vi ricevano quel tipo di insegnamento, e non altri; e ha diritto che la scuola rispetti quell'impegno. Anche qui, prendiamo non l'esempio della scuola religiosa ma di quella di metodo: in una scuola montessoriana è pensabile che continui a insegnare chi a un certo punto decida che il metodo Montessori è, a ben vedere, sbaglliato? dove andrebbe a finire il diritto dei genitori che hanno scelto quella scuola? Pe
r l'insegnante l'opzione è fatta all'inizio, nello scegliere quella scuola come luogo di impegno e di lavoro. Se vuole insegnare altrimenti deve farlo altrove. Insomma: mentre per la scuola pubblica si tratta di garantire e esercitare la libertà nella scuola, per quella privata è questione di libertà della scuola. Sono due livelli, due tipi di libertà diversi. Non accettarlo significa negare il diritto della scuola privata ad esistere. Ma comunque, le obiezioni circa il tipo di libertà per gli insegnanti di quelle scuole perché mai dovrebbero valere come argomenti per negare il diritto ai non abbienti a scegliere quelle scuole, mentre lo si riconosce a che ha mezzi economici?
Interrompo qui, per ora. Il discorso è incompleto; ma mi pare che possa forse valer la pena di cominciare intanto a mandare questo.
Punti che necessariamente vanno trattati: le garanzie da richiedere alle scuole private, i vincoli cui esse devono sottostare; la questione della parità; scuola privata cattolica e non cattolica; il ruolo che possono assumere le scuole cattoliche; la prospettiva del buono scuola e dell'abolizione del valore legale dei titoli; il pericolo delle scuole islamiche e di quelle etniche; vantaggi e pericoli della concorrenza a fini della qualità della scuola.
Lorenzo Strik Lievers