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Conferenza Rivoluzione liberale
Vernaglione Piero - 4 novembre 1999
Dibattito scuola

Le questioni di metodo sono fondamentali, ancor più per i radicali che alla "procedura" attribuiscono sempre, giustamente, molta importanza. Tuttavia pur partecipando anch'io a questo dibattito, l'ho fatto con un retropensiero, con una riserva mentale, derivanti dal fatto che negli ultimi anni mi sono sempre più convinto che le difficoltà della scuola italiana (non superiori a quelle degli altri paesi, ha ragione Strik Lievers; chi segue le problematiche dell'istruzione sa che anche nei paesi anglosassoni c'è una forte insoddisfazione per la qualità della scuola) siano dovute principalmente al tipo di visione sulle sue finalità; visione che si è affermata negli ultimi trent'anni. Schematizzando un po' si possono individuare due visioni contrapposte sulle finalità della scuola: la prima, a mio avviso responsabile della dequalificazione attuale, concentra la sua attenzione sugli aspetti educativi, di socializzazione, assistenziali; la seconda, che invece condivido, sottolinea il carattere fondamentalmente "cog

nitivo", cioé di istruzione e di sviluppo intellettuale degli alunni. Tali visioni hanno dato luogo rispettivamente a due modelli pedagogici: il primo, ormai dominante, in nome di un malinteso democraticismo e ugualitarismo, ha affidato alla scuola il compito (improprio) di ridurre il disagio socio-esistenziale, vedendo nell'insegnante il titolare di una "missione" educativa; il secondo (purtroppo annichilito dal "progressismo" imperante), focalizzato sulla dimensione conoscitiva, identifica l'insegnante come un manager delle risorse per l'apprendimento.

La preoccupazione solidaristico-assistenzialistica di far giungere tutti al traguardo finale, indipendentemente da una valutazione rigorosa dei contenuti appresi, ha cancellato la selettività, un criterio indispensabile per incentivare allo studio. La relazione educativa si è permeata di giustificazionismo, di un paternalismo buono. Si è diffusa una cultura per la quale il metodo è tutto e i contenuti vanno posti in secondo piano. Ma è dalla sperimentazione dei meccanismi di acquisizione dei contenuti che viene messo a punto un metodo, non viceversa.

Il primato della socializzazione sull'istruzione ha prodotto un grave abbassamento nella preparazione complessiva degli alunni. Il formalismo pedagogico ha messo all'indice i contenuti, le nozioni, le "cose", non capendo che l'acquisizione di capacità logiche, l'evoluzione intellettuale, l'autonomia critica possono aver luogo solo in seguito alla faticosa appropriazione del materiale di base. Si è affermata l'idea che l'obiettivo primario sia il raggiungimento da parte del ragazzo di un elevato gradio di autostima o il puro sfogo della sua creatività, evitando il "duro" lavoro dell'apprendimento.

Solo chi lavora nella scuola si può rendere conto del livello di aberrazione a cui è giunto il tipo di pedagogia propinato dal Ministero della pubblica istruzione: vaghe categorie sociologiche o psicologiche spacciate per criteri scientifici, griglie valutative in cui vengono sminuzzate in centinaia di voci profili inevitabilmente unitari. Tutto ciò ha anche generato una neolingua, un gergo pedagogese insopportabile e pretenzioso, che maschera dietro termini pseudoscientifici tutta la sua inconcludenza.

Tra i dogmi della pedagogia progressista c'è l'idea che l'alunno non debba essere torturato con le regole che presiedono all'acquisizione di ogni materia, con le interdipendenze logico-concettuali; che il tempo debba trascorrere in modo gradevole; che i programmi debbano essere ritagliati su misura dell'individuo; che più che le nozioni conti la capacità di "risolvere i problemi"; che a scuola si debba soprattutto "imparare a imparare"; che la solidarietà conti più dell'incentivo a studiare; che l'educazione emotiva è l'unico tramite del processo cognitivo; che l'istruzione non sia un processo dall'alto, ma roussoianamente frutto della comunità studentesca liberamente autorganizzantesi. Un'altra balla "politicamente corretta" è che bisogna privilegiare l'attualità rispetto ai contenuti delle discipline tradizionali, aprirsi al presente. Ancora: la scuola è estranea alle culture giovanili, si dice. Ma la scuola non deve assecondare gli hobbies o gli interessi più facilmente fruibili. L'affermazione secondo cu

i la conoscenza nasce dal vissuto è un modernismo irritante, che penalizza i meccanismi della mente di tipo logico-astratto. Proprio perché lo studio è fatica e il gusto per l'apprendimento e per la cultura è minoritario in età scolastica, è necessario imporre all'alunno lo studio di discipline che lo costringano ad uno sforzo nell'apprendimento e ad un rigore metodologico; se non c'è sforzo non c'è crescita cognitiva. Per non farla troppo lunga mi fermo qui, ma vi sono altre numerosissime tesi che hanno egemonizzato il mondo della scuola, trasformando l'insegnante in assistente sociale, e generando, a mio avviso, un disastro cognitivo.

Quando mi capita di accennare a questi temi con i miei colleghi, concludo sempre rivendicando provocatoriamente di essere, in tema di scuola, un reazionario, un passatista. Non credo che questo discorso sia classificabile secondo categorie politico-culturali, sebbene mi rinfranchi molto il fatto di ritrovare queste mie posizioni nelle idee espresse da personalità come Panebianco, Ricossa, Antiseri. Poi però penso al fatto che anche personalità come Gramsci ed Enrico Berlinguer hanno sostenuto il rigore degli studi contro la cialtroneria facilona che proveniva soprattutto dalla loro area culturale; e allora mi convinco che, più che una questione di orientamenti politici, di conflitto fra una visione individualistico-liberale e una solidaristico-collettivista, è solamente una questione di intelligenza.

 
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