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Conferenza Rivoluzione liberale
Vecellio Valter - 13 novembre 1999
SCIASCIA RADICALE

CHIEDO PREVENTIVAMENTE SCUSA PER IL LUNGO TESTO CHE SCARICO IN CONFERENZA. MA MI PAR UTILE. E' UN INTERVENTO PUBBLICATO OGGI SULL'OPINIONE. HO AVUTO LA FORTUNA E IL PRIVILEGIO DI CONOSCERE E FREQUENTARE LEONARDO SCIASCIA, PRIMA CHE SCENDESSE IN CAMPO NEL E CON IL PARTITO RADICALE. FREQUENTAZIONE E AMICIZIA CHE SI RAFFORZO' QUANDO SCIASCIA SI CANDIDO' E VENNE ELETTO DEPUTATO RADICALE ALLA CAMERA DEI DEPUTATI E AL PARLAMENTO EUROPEO.

TRA QUALCHE GIORNO SARANNO DIECI ANNI DALLA MORTE, E SI PUO' IMMAGINARE LO SCEMPIO CHE NE FARANNO, NON PAGHI DI QUELLO CHE GIA' NE HANNO FATTO. E QUALCOSA HO VOLUTO FISSARE, LEGATO AL FILO DEI MIEI RICORDI, DELLO SCIASCIA RADICALE CHE SAREMO IN POCHI, TEMO A VOLER RICORDARE. UNA PICCOLA PROVA DI QUESTO, E' NEL FATTO CHE TRA I NON POCHI GIORNALI A CUI MI ACCADE DI COLLABORARE, SOLO SULLA "SAMIZDAT" OPINIONE HO POTUTO SCRIVERE QUELLO CHE HO SCRITTO.

Lo celebreranno per qualche giorno, per massacrarlo meglio, distruggerlo, manipolarlo. Visto che dimenticarlo, ignorarlo completamente non è possibile. Parlo di Leonardo Sciascia, di cui fra qualche giorno ricorreranno i dieci anni dalla morte. I segni ci son tutti. Per esempio: si apprende che a Palermo sta organizzando un "ricordo" di Sciascia; e chi è stato invitato? Eugenio Scalfari, che si distinse, quando Leonardo era vivo nell'azione di linciaggio. E qualche veleno non mancò di inocularlo, o lasciarlo inoculare, anche quando era morto, e non poteva più difendersi.

Lo celebreranno, eccome! E non mancheranno i cretini o le persone in malafede che gli rimprovereranno d'esser stato "vile" e "pavido"; di "essersi ridotto nelle misere polemiche sulle Brigate Rosse e l'antimafia", come di recente ha fatto Marcelle Padovani, corrispondente del Nouvel Observateur.

Sicuramente nessuno si ricorderà, per esempio, di quando Leonardo, con passo incerto, saliva le scale che portano alla Radio Radicale a Roma. Erano i giorni a cavallo tra il 1980 e il 1981. Le Brigate Rosse avevano rapito il giudice Giovanni D'Urso, per la sua liberazione volevano la pubblicazione di alcuni loro deliranti comunicati. I maggiori giornali, che fino a quel momento avevano pubblicato senza che fosse loro richiesto, i documenti dei terroristi, decisero che qualla volta no: non si doveva "cedere", non si doveva pubblicare. Naturalmente - come oggi sappiamo, ma anche allora si sapeva - dietro quella decisione non c'era una scelta editoriale o solo editoriale; c'era piuttosto una scelta politica. Si crearono le stesse divisioni, lacerazioni e contrapposizioni che si erano create nei 55 giorni del sequestro di Aldo Moro. Da una parte il partito della "fermezza", che era più propriamente il partito dell'immobilismo: in attesa del cadavere, magari per far passare, grazie a quel morto desiderat

o, invocato sommessamente, ipotesi repressive e liberticide. Dall'altra parte quello che si volle definire il "partito della trattativa"; partito al quale anche Sciascia e i radicali con cui stava, vennero iscritti, anche se nessuna trattativa si voleva intavolare; si era a favore, invece, di un dialogo.

Per tornare a Sciascia: lui, che pure ero uno scrittore affermato, le cui collaborazioni dai giornali erano contese, in quell'occasione non trovò nessuno che fosse disposto a pubblicarne gli scritti, gli appelli diretti alle Brigate Rosse perché rilasciassero D'Urso vivo, e senza condizioni. Così lui, pur così refrattario a parlare in pubblico, andava alla Radio Radicale. Con quella voce resa ancora più roca dalle tante sigarette fumate, con quella sua cadenza lenta, si rivolgeva direttamente alle Brigate Rosse.

Alla fine se D'Urso venne liberato, e senza condizioni, lo si deve anche a quegli interventi di Sciascia: ignorati dai giornali, ma che i brigatisti - questo lo sappiamo per sicuro - ascoltavano e valutavano con attenzione.

Ancora sul filo dei ricordi. Era il 1979, bisognava predisporre le liste per le elezioni politiche. Leonardo aveva già avuto una non felice esperienza politica, quando aveva accettato la candidatura offertagli da Achille Occhetto; aveva accetto, ma dopo una lunga esitazione; perché, raccontò dopo, la gestione di Occhetto della segreteria regionale siciliana del PCI gli sembrava, nella critica e nell'autocritica dell'esperienza milazzista,la linea giusta per un rinnovamento del partito in Sicilia. Un'esperienza, quella del "milazzismo", che Sciascia aveva sempre giudicato nefasta.

Da quell'esperienza in consiglio comunale Sciascia uscì delusissimo. Voleva far parte, raccontava, "di una pattuglia di guastatori. Si tratta semplicemente di fare certe cose e di non farne fare certe altre. Cose concrete". Si accorse dopo qualche settimana che si doveva stare in consiglio soltanto per lasciare fare le cose che non si dovevano fare; così se ne andò.

Alle elezioni del 1979 Sciascia era corteggiatissimo. L'avrebbero certamente voluto il PSI e il PCI. Lui se ne scappò nella sua amata Racalmuto, in quella casetta alla contrada Noce dove andava ogni estate e scriveva le sue storie, i suoi libri. Fu lì, che lo raggiunse il ciclone Pannella. Leonardo poi raccontò che la decisione di accettare la candidatura nel Partito Radicale fu improvvisa e sorprendente anche per lui. La scintilla è stato l'incontro con Pannella. E si può immaginare questo incontro: Pannella, questo gigante grande e grosso; e di fronte a lui Sciascia: mingherlino, silenzioso. Marco fluente, torrentizio, che parla, spiega, "dice". E Leonardo assorto, silenzioso, attento. Quello che pensava lo racconterà dopo. Pensava al dialogo tra lo scrittore Boris Pasternak, quello del Dottor Zivago, con Stalin, il dittatore. Pasternak aveva chiesto di parlare con Stalin perché voleva perorare la causa di un altro artista perseguitato: Maldelstam. E una sera, all'improvviso, suona il telefono a casa d

i Pasternak; era Stalin in persona. Parlano di Mandelstam, Stalin in termini molto duri; e a un certo punto Pasternal dice a Stalin: "Vorrei incontrarvi".

"Perché?", chiede Stalin.

"Per parlarvi della vita e della morte", risponde Pasternak.

Dall'altra parte del filo nessuna risposta, solo il clic della comunicazione interrotta. Stalin non voleva assolutamente parlare della vita e della morte. Ecco, diceva Sciascia alla fine di questo racconto: "Mentre Pannella parlava io ho pensato che bisognava parlare della vita e della morte in questo Paese, e che ne dovevo parlare io come scrittore la cui pagina è la più vicina all'azione che si possa immaginare. Io so di essere questo tipo di scrittore, la cui pagina è proprio al limite dell'azione". Così la tentazione di entrare nell'azione diretta è stata talmente forte, che alla fine vi ha ceduto.

Allora ero direttore di Notizie Radicali; e mi dettò una dichiarazione: "Per rompere con i compromessi e le compromissioni, i giochi delle parti, le mafie, gli intrallazzi, i silenzi, le omertà; per rompere questa specie di patto tra la stupidità e la violenza che si viene manifestando nelle cose italiane; per rompere l'equivalenza tra il potere, la scienza, e la morte che sembra stia per stabilirsi nel mondo; per rompere le uova nel paniere, se si vuol dirla con linguaggio e immagine più quotidiana. Questa è l'era della rottura, o soltanto l'ora. Non bisogna lasciarla scivolare sulla nostra indifferenza, sulla nostra ignavia".

Bisogna, mi diceva spesso, "cominciare a contarci. Che se avessimo gli strumenti di cui "loro" dispongono, scopriremmo di essere molti di più di quanti "loro" credono. Non al punto di batterli, ma abbastanza per fare quella "opinione" che De Sanctis opponeva alle "opinioni"".

Quanti, ancora oggi, si chiedono stupiti come mai Sciascia sia finito con Pannella e i radicali, troveranno, credo, la risposta ai loro interrogativi leggendo un articolo che Leonardo poté scrivere sul quotidiano spagnolo El Pais (in Italia, no, nessuno lo volle pubblicare):

"Marco Pannella è il solo uomo politico italiano che costantemente dimostri di avere il senso del diritto, della legge, della giustizia. Ce ne saranno altri, ma senza volto e senza voce, immersi e sommersi in partiti la cui sensibilità ai problemi del diritto soltanto si manifesta quando qualche mandato di cattura raggiunge uomini del loro apparato: per il resto se ne stanno in silenzio; e ansi, certi arbitri dell'amministrazione della giustizia, quando toccano altri, di altri partiti, li mettono in conto dell'alacre ed esatto agire dei giudici. Pannella e le non molte persone che pensano e sentono come lui, e con le quali mi onoro di stare, si trovano dunque ad assolvere un compito ben gravoso e difficoltoso: ricordare agli immemori l'esistenza del diritto e rivendicare tale esistenza di fronte ai giochi di potere che appunto nel vuoto del diritto e nel suo stravolgimento, la politica italiana conduce. Si fa quel che si può: e per richiamare l'attenzione degli italiani su un così grave e pressante prob

lema, Pannella è spesso costretto - lui che a ben conoscerlo è uomo di grande eleganza intellettuale - a delle "sorties" che a volte appaiono funambolesche e grossolane ".

Una volta Sciascia confidò di essersi sentito per tutta la vita come il pesce volante di Voltaire: "Se si innalza un poco, gli uccelli lo divorano; se si immerge sott'acqua, se lo mangiano i pesci". Una condizione, aggiunse, "bellissima, anche se tremenda". Poi con una punta di malinconia, si era domandato: "Quante sono oggi le persone disposte ad accettarla e a viverla?".

Lo vediamo. Poche; e ci vuol davvero poco, a contarle.

E ora che Leonardo non c'è più, profittando del fatto che non si può più difendere, c'è chi non gli vuole risparmiare l'ultimo oltraggio, l'estrema offesa: l'omologazione. Non essendo possibile inquadrarlo da vivo, si tenta di imbalsamarlo e di inghiottirlo da morto. Lui che era stato bollato via via come "codardo", che si era sentito definire "iena dattilografa"; che era stato accusato d'essere un venduto trotzkista

Un momento di grande polemica - ed attende ancora delle scuse da Botteghe Oscure - fu quando si trovò implicato in una causa con il segretario del PCI Enrico Berlinguer; per quella polemica ruppe anche un'amicizia di sempre, quella con Guttuso. Era accaduto che Sciascia, in una riunione della commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Moro, di cui era membro, aveva rivelato che in un colloquio avuto a Botteghe Oscure, alla presenza del pittore, aveva appreso da Berlinguer di sospetti collegamenti tra la Cecoslovacchia e il terrorismo; e di un'imminente espulsione di diplomatici cecoslovacchi dall'Italia. Il segretario del PCI smentì la cosa, Sciascia la confermò. Berlinguer querelò per diffamazione. Sciascia contro-querelò. Finì all'italiana, un'archiviazione generale: la querela di Berlinguer era infondata perché non si poteva perseguire parlamentari per opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni. Quella di Sciascia venne archiviata perché "la falsità dell'onorevole esclude la calunnia". Com

e il magistrato abbia potuto definire "falsità" la versione data da Sciascia non si capisce, dal momento che il "falsario" non venne mai ascoltato. Bastò, al riguardo la parola di Berlinguer, e la successiva coincicente di Guttuso; che stalinianamente, messo di fronte alla scelta tra la verità e il Partito, scelse il Partito. E oggi i dossier che vengono da Mosca ci dicono chi avesse detto il vero e chi il falso. Ma poi, ce n'era davvero bisogno, di quei dossier, per saperlo?

Scoppiò poi il caso P2: Sciascia, sull'Espresso scrisse un articolo garantista; ricordò che i 953 delle liste di Gelli erano stati accusati e condannati ancora prima di essere sottoposti a regolare processo. Mise in guardia dalle tentazioni di "giustizia sommaria"; esortò a giudicare e condannare non tanto per reati associativi, quanto per singoli e specifici crimini. Ricordò che Antonio Gramsci nell'unico discorso che poté pronunciare alla Camera, denunciò come liberticida la volontà di Mussolini di mettere fuori legge la massoneria, primo passo per instaurare il definitivo regime; cosa che poi puntualmente avvenne. "L'Unità" non trovò di meglio che accusarlo di insensibilità. Non mancò chi insinuò che in questo modo si difendeva Gelli.

Nel pieno delle polemiche sul terrorismo, e l'impegno che si chiedeva e si esigeva agli intellettuali, Sciascia si vide incollata la paternità dello slogan: "Né con lo Stato, né con le BR".

Una posizione che non era sua, non lo era mai stata. Invano, sull'Espresso chiarì: "Io non ho nessuna affezione per lo Stato così com'è, ma ne ho molta per la Costituzione. Lei mi chiede: ma proprio io che avrei lanciato la teoria: né con lo Stato, né con le BR? Io non ho mai formulato questo slogan. E' nato dalla deformazione della mia valutazione negativa della classe politica italiana, valutazione che continua a essere tale. Ma ciò significa volere che questa classe dirigente cambi, non che si avveri il sogno delle BR".

Nei giorni del caso Moro, Leonardo è stato attaccato con particolare violenza; il suo libro L'Affaire Moro, una lettura consigliabile ancora oggi, per capire cosa accadde, cosa si volle che accadesse, venne stroncato ancora prima di essere letto. Per tutti, Eugenio Scalfari, che polemizzò con Leonardo stroncando il libro ancora prima di sfogliarlo. In un suo articolo di fondo su Repubblica gli faceva dire cose che nel resoconto dell'intervista, pubblicate nelle pagine interne dello stesso giornale, non c'erano

Le ultime polemiche riguardano la mafia, l'antimafia, i cosiddetti professionisti dell'antimafia. Al di là dei casi specifici, è chiaro che Leonardo poneva una questione di metodo; e fece bene a porlo. E a questo proposito è consigliabile la lettura di un brano del libro I disarmati di Luca Rossi. Brano mai smentito dagli interessati. E' una "riflessione" ad alta voce di Giovanni Falcone:

"Il fatto è che il sedere di Falcone ha fatto comodo a tutti. Anche a quelli che volevano cavalcare la lotta antimafia. In questo condivido una critica dei conservatori; l'antimafia è stata più parlata che agita. Per me invece meno si parla, meglio è. Ne ho i coglioni pieni di gente che giostra con il mio culo. La molla che comprime, la differenza: lo dicono loro, non io. Non siamo un'epopea, non siamo superuomini: e altri lo sono molto meno di me. Sciascia aveva perfettamente ragione: non mi riferisco agli esempi che faceva in concreto, ma più in generale. Questi personaggi, prima si lamentano perché ho fatto carriera; poi se mi presento per il posto di procuratore, cominciano a vedere chissà quali manovre. Gente che occupa i quattro quinti del suo tempo a discutere in corridoio. Se lavorassero, sarebbe molto meglio. Nel momento in cui non t'impegni, hai il tempo di criticare: guarda che cazzate fa quello, guarda quello che è passato al PCI, e via dicendo. Basta, questo non è serio. Lo so di essere estre

mamente impopolare, ma la verità è questa ". Ripeto: parole mai smentite.

Del resto: quando al Consiglio Superiore della Magistratura si doveva decidere se Falcone doveva diventare o meno capo dell'Ufficio Istruzione di Palermo, e gli venne preferito Antonino Meli, due dei tre rappresentanti di "Magistratura Democratica" gli votarono contro. Uno dei due era Elena Paciotti, ora europarlamentare dei DS, già presidente dell'Associazione Nazionale dei Magistrati. E' stato Alessandro Pizzorusso, componente "laico" del CSM, a scrivere sull'Unità un lungo articolo dove sosteneva che Falcone non era affidabile, e che non bisognava dargli l'incarico di Procuratore Nazionale Antimafia

Non so, ovviamente, che cosa direbbe e farebbe Leonardo oggi; certo mai come in questi tempi ci manca il conforto del suo consiglio, la sua critica. Me lo ricordo, quando una volta raccontò una storia che riguardava Voltaire e D'Alambert. Quest'ultimo, scrivendo non so che cosa, aveva irritato moltissimo i calvinisti svizzeri. E Voltaire aveva annotato nel suo diario: "Il signor D'Alambert, che già era odiato dai nipoti di Ignazio, e cioè i gesuiti, è ora detestato anche dai figli di Calvino". Per Voltaire era come aver raggiunto un vertice di felicità: l'essere odiato dai due opposti fanatismi.

Sciascia confessava che, essendo criticato da destra e da sinistra, segno che non era servo né dell'una, né dell'altra, in certi momenti era preso da quella specie di allegria di cui aveva parlato Voltaire.

Bisogna proprio dire che hanno fatto davvero di tutto, perché fosse sempre allegro.

 
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