camillo berneri su carlo cattaneo; una accoppiata da sballo.fatene buon uso
amedeo
Carlo Cattaneo federalista
di Camillo Berneri
Ogni qualvolta mi si presenta l'occasione, sono lieto di scrivere o di parlare di Carlo Cattaneo. Spingere coloro che male lo conoscono a leggerlo a meditarlo è per me un dovere di solidarietà culturale, ben sapendo di additare una ricca fonte di pensiero nonché un'immensa miniera di trattazioni. Potrà parere ingenua, a taluni, questa "propaganda", data la celebrità dell'autore, ma così non è.
Cattaneo è poco letto. Perché? Lo stile evidente, robusto, non di rado eloquente fa di lui uno dei maggiori prosatori del suo secolo. Né l'oscurità, né la prolissità, né l'aridezza allontanano il lettore, ma le idee centrali sono sparpagliate nelle molte e vane monografie, così vaste e dense che una visione organica del pensiero politico, sociale e filosofico dell'autore richiede una sintesi.
Mancando un'opera centrale, occorre leggerlo in opera omnia; e la edizione completa dei suoi scritti è da tempo fuori commercio e rara perfino nelle pubbliche biblioteche. Ma questo non basta a spiegare il fatto che il Cattaneo sia un celebre malconosciuto. Se questo autore è poco letto lo si deve principalmente alla dignità della sua opera, che fu impostazione di problemi, concretezza di analisi, ossia preparazione di studioso e non sbandieramento di sonanti parole, positivismo e non trascendentalismo, scienza e non demagogia. Nessuna declamazione, nessun volo romantico, in quell'opera, bensì eloquenza sostenuta, pensiero cristallino, trattazione rigorosa. Egli guarda alle stelle dell'ideale, ma ancor più alla strada della storia; e pare quasi un caso che il suo nome rimanga legato alle giornate barricadiere di Milano.
Quando si associa al nome del Mazzini e a quello del Ferrari, il nome di Cattaneo, così, senza rilevare le profonde differenze, si disconosce che la posizione politica e la forma mentis di quest'ultimo furono del tutto singolari, tanto in confronto al primo che al secondo. Quel giornalista che, sui primi del 1868, pubblicò, sul "Gaulois", una biografia del Nostro nella quale lo dipingeva come seguace e continuatore del Mazzini, mostrò d'ignorarli ambedue. Quell'articolo contribuì ad amareggiare gli ultimi giorni del Cattaneo, che se ne dolse con gli amici. Specie avvicinandosi alla fine - ci dice Agostino Bertani - "della sua condizione politica rispetto ai contemporanei e alla storia era preoccupatissimo". Che lo urtasse, fino ad accorarlo, il vedersi quasi confuso con il Mazzini era naturale, poiché non solo l'azione politica, le valutazioni contingentali lo dividevano da lui, ma anche la forma mentale, il carattere, il temperamento.
Mazzini era poeta, Cattaneo era scienziato. L'uno era romantico e l'altro razionalista; l'uno delicato di corpo ed ipersensibile di spirito, l'altro vigoroso, equilibrato, campagnuolo. Mazzini, giovane, smaniava alla Jacopo Hortis; Cattaneo, in quell'età, assaporava Virgilio e Livio, ignorando l'ebbrezza mistica e le disperazioni romantiche, non sognando riforme religiose, non presumendo apostolati.
Era, il Nostro, un ambrosiano, pratico, sereno amante della ricerca scientifica e dell'azione concreta. Quello che di passionale e di mistico era in lui veniva contenuto e diretto dal bisogno di trascorrere una vita mirante a conoscere e ad insegnare. Fino al
1848 la sua vita era stata quella di un pacifico studioso, quale la tratteggia egli stesso con saporosa semplicità: "Vestito pulitamente, provveduto di poche camerette al sole di mezzodì, con tre scaffali grandicelli di libri che mi fanno; un caminetto, una cucinetta, che mi dà un paio o due piatti alla buona, una bottiglia di poco prezzo, d'Asti o di Bocca, ma con un amico galantuomo dirimpetto a me; mezzo scudo, di tempo in tempo, per sentire la Pasta o Rubini; venti soldi per vedere la Marchionni; un po' di velocifero e di battello a vapore due o tre volte all'anno, e qualche giornatina alla osteria di Varenna o dell'Isola Bella; nove centesimi al giorno per sapere all'officio dell'Eco che cosa fanno e dicono nella politica e negli studi gli uomini di questa e delle altre parti del mondo, e quindi non sembrare un giumento se incappo in buona compagnia".
Aveva passata in campagna l'infanzia e dall'esperienza dei parenti, dalle personali osservazioni aveva contratto quell'acuto senso delle realtà rurali e quel profondo interesse per i problemi dell'agricoltura che fanno di lui uno dei massimi scrittori di economia agraria.
La frequenza della scuola privata di diritto di Gian Domenico Romagnosi continuò ad avviarlo sulla via delle ricerche e delle elaborazioni condotte con senso realistico e con severità di metodo. Ma a questo indirizzo positivista della sua attività culturale lo conduceva principalmente la sua personalità mentale. Egli ci teneva ad essere "incurabilmente positivo", "un po' grosso di legname", e dichiarava preferire le "materiali e quasi febbrili ricerche senza viscere" e la "oscura via delle applicazioni scientifiche e de' volgari interessi".
Portato come egli era ai problemi concreti, alle impostazioni precise, alle chiarificazioni di massima evidenza, se manca nella di lui opera un centro idealistico è perché all'uomo di scienza e al filosofo positivista basta un centro ideologico al quale i problemi s'annodino. Quel centro è costituito da ipotesi che si alimentano della luce delle particolari ricerche, dei positivi risultati e, secondo la risultanza di quelle e l'evidenza di questi, si trasformano o si eliminano.
Mazzini è dominato dal proprio idealismo, mentre Cattaneo ha delle idee che gli sono care in quanto gli sembrano vere, ossia rispondenti ad una migliore economia della storia umana, in quanto gli sembrano passibili di realizzarsi in fatti, mediante quelle forze che egli scorge od intuisce dirette verso quei finì.
E lamentevole che egli non abbia riprese e coordinate quelle idee geniali e feconde che scaturiscono dai più inaspettati riavvicinamenti di cognizioni appartenenti ai più svariati campi del sapere, sì da richiamare Leonardo e Vico.
Perché la di lui opera fu frammentaria?
Alberto Mario (I nostri filosofi contemporanei, Napoli, 1862) narra: "Un giorno gli domandai come ei non avesse scritta un'opera di lunga lena, in quaranta e più anni di studi assidui. Risposemi che gli falli il necessario egoismo, che il lungo tempo ei distribuì in piccole frazioni ai bisogni sorgenti degli amici e del paese, e in lavori di utilità pratica e immediata".
"Come scrittore - scriveva il Cattaneo ad un amico, nel 1855 - ho sciupato il mio tempo, lavorando troppo, da giornalista, di roba frusta e roba altrui, invece di far col mio, ché la fatica era forse minore; anzi molta mia roba rimane dispersa per entro i pasticci fatti di roba altrui, sicché non può nemmeno parer mia".
Con ciò egli si riferisce particolarmente al "Politecnico", la magnifica rivista della quale egli fu direttore e principalissimo redattore, dal 1839 al 1844. Il Cattaneo, oltre che comporre in gran parte, talvolta per tre quarti, i fascicoli della rivista, rivedeva anche e rielaborava nella forma, quando era necessario, tutto quel che gli mandavano i collaboratori. Del "Politecnico", scrive G. Salvemini (che ha compilata una buona antologia del Cattaneo con un'introduzione che è un vero gioiello) non sapersi se ammirarvi al di più "la varietà degli argomenti, o la originalità del pensiero; o la venustà della forma", poiché "su ogni argomento sorgono da quella immensa cultura fiotti continui di associazioni inaspettate e di nuove feconde teorie; e le idee sono fissate in formule dense, nitide, eleganti di un'eleganza geometrica, definitive". Ed anch'egli lamenta che tanta ricchezza sia eccessivamente frammentaria.
Da un lato, tale frammentarietà non è deplorevole, quando si pensi che la varietà delle elaborazioni, dei sunti, delle critiche ha spinto la mente del Cattaneo in molte direzioni, suggerendole delle idee e fornendola di cognizioni svariatissime. Mi pare probabile che la sua psicologia delle menti associate si sia sviluppata - della quale si potrebbero indicare i germi nella filosofia di G. B. Vico e, ancor più precisamente, in quella del Galluppi e del Romagnosi - sulla valutazione introspettiva del contributo che le letture portavano al suo pensiero. E specialmente quel rimaneggiare scritti altrui, quello sforzarsi di ben penetrarne il contenuto e lo spirito per tradurli in forma limpida ed in modo coerente credo abbia contribuito non poco a quel continuo lampeggiare di associazioni che la genialità del Cattaneo faceva ardite e fecondissime, ma che forse non sarebbero nate senza quella materia grezza.
Prima di venire all'argomento, credo necessario aprire una parentesi che richiami alla mente del lettore la reciproca posizione delle due correnti repubblicane: quella unitaria e quella federalista.
I repubblicani unitari posponevano ogni altro scopo alla causa dell'indipendenza "nazionale" dell'Italia, intesa come unità amministrativa, giudiziaria e politica sotto un solo governo. I repubblicani federalisti davano, invece, prevalente importanza al problema della libertà politica. Gli unitari diffidavano dei Principi (ed erano, in gran parte, repubblicani più che per amore di repubblica perché vedevano nelle monarchie del tempo il maggiore ostacolo all'unità nazionale), ma furono disposti a collaborare col re di Piemonte o col papa quando l'uno o l'altro parve disposto ad innalzare la bandiera d'indipendenza e di unità nazionali. Volevano che l'Italia facesse da sé e diffidavano della Francia. I federalisti respingevano l'alleanza con i principi e speravano nel contributo francese alla rivoluzione italiana.
Il Cattaneo si differenzia grandemente dai repubblicani unitari, ma non si confonde con i federalisti. Vicino al Ferrari per le idee politiche, da lui dissente sovente e, talvolta, non meno profondamente che da Mazzini. Il Nostro ebbe, quindi anche dal lato politico, una posizione del tutto singolare.
Occorre distinguere due periodi nel federalismo del Cattaneo: quello antecedente al 1848 e quello seguente. Nel primo egli rimase fuori dal movimento dell'unità nazionale, non per simpatia verso l'Austria, ma perché non credeva ancora nella possibilità di un moto liberatore e perché diffidava delle soluzioni accentratrici.
Il Manzoni rifiutò di contribuire all'erezione del monumento al Cattaneo in Milano, dicendo che avrebbe sottoscritto soltanto se prima si fosse raso al suolo il monumento al Cavour; questo perché sarebbe stata contraddizione erigere un monumento al Cattaneo che aveva avversata l'unità, dopo aver eretto un monumento al Cavour che l'aveva propugnata.
Come è spiegabile l'atteggiamento del Manzoni? Costui, non conoscendo il pensiero del Cattaneo, si era fermato a giudicare dagli esteriori atteggiamenti di questi, prima del 1848 verso l'Austria e in quell'anno verso il "re liberatore".
Tali atteggiamenti erano di frequente paradossali. Basti il seguente aneddoto.
Alcuni repubblicani francesi, andati a Milano durante la dominazione austriaca e trovandosi con Cattaneo, Maestri e Correnti, si meravigliano che la Lombardia non insorgesse e facevano uno scialacquo di promesse dicendo: - Verremo noi a liberarvene. Cattaneo, irritato da quelle spampanate, scoppiò a dire: - Ma noi stiamo benissimo come stiamo. Questi austriaci ci fanno il soldato; ci guardano dai ladri; ci fanno da giudice; ci riscuotono le imposte; e non abbiamo a far altro che a grattarci, con nostro comodo, i coglioni... Vi accorgerete, voi, quando vi toccherà di fare voialtri "el todesch!".
In realtà il Cattaneo era ostilissimo al regime dispotico e centralista dell'Austria, disprezzava i patrizi collaboratori ed era irritato dallo spadroneggiare del clero. Ma pensava che male non minore del dominio austriaco sarebbe stato quello piemontese, essendo quella monarchia dispotica ed essendo in Piemonte ancor più dominante il clero, più gravi i privilegi feudali, assai meno liberi e più burocratizzati gli ordinamenti amministrativi. Egli pensava, insomma, che la Lombardia, passando dal dominio austriaco sotto lo scettro di Carlo Alberto, non avrebbe guadagnato nulla in fatto di libertà politiche e avrebbe perduto molto dalle proprie migliori istituzioni civili.
Nell'estate del 1847, Cattaneo diceva ad un moderato piemontese, che cercava di associarlo alla propaganda per una guerra antiaustriaca sotto le bandiere sabaude: "Prima fate la rivoluzione a casa vostra, e non venite colla vostra corte e coi vostri confessionali a farci cadere ancora al di sotto delle tartarughe".
Per il Cattaneo un'indipendenza nazionale "alla russa" non era da farsi, poiché sarebbe stato necessario il disfarla da capo. Mazzini risolveva il problema con la rivoluzione popolare, che avrebbe distrutto gli antichi regimi e avrebbe raccolta tutta la nazione guerra antiaustriaca, ma Cattaneo non aveva alcuna fiducia, allora, in questa propaganda insurrezionale. I suoi disegni erano analoghi a quelli propugnati, fino allo scoppio della guerra europea dai federalisti dei paesi slavi e dai partiti socialisti dell'Austria-Ungheria. Cattaneo sperava che l'impero degli Asburgo, sotto la pressione di tutti i suoi popoli soggetti, si trasformasse in una federazione di Stati liberi, uniti da semplice unione personale nella casa regnante. Ciascun popolo avrebbe avuto parlamento, amministrazione, finanza, scuole, esercito per proprio conto. In questa federazione, il Lombardo-Veneto avrebbe avuto, essendo molto sviluppato economicamente, una sicura preponderanza; e nulla gli avrebbe impedito di staccarsi dalla federa
zione austriaca per associarsi a quella italiana. Questa concezione politica spiega perché il Cattaneo, prima del 1848, non abbia repugnato a qualche manifestazione di lealismo dinastico. Ma suddito servile non fu mai. Infatti nel 1835 fu ammonito; soltanto nel 1837 poterono uscire, e mutilate, le "Interdizioni israelitiche" scritte nel 1835; scartata più volte dal Governo fu la sua nomina a membro dell'Istituto Lombardo di scienze, lettere ed arti e, infine, sui primi del '48 egli era proposto alla deportazione.
Le agitazioni del 1847 e dei primi mesi del 1848 parvero al Cattaneo favorevoli alla realizzazione del suo programma federalista. L'Austria - pensava - attraversando una grande crisi finanziaria, ha interesse ad avere amica la ricca Lombardia, e le concederà le franchigie.
Alla notizia della rivoluzione di Vienna, 17 marzo 1848, gli parve giunta l'ora di iniziare la propaganda delle proprie idee. Nel programma del "Cisalpino", che si proponeva di far uscire il giorno dopo scriveva: "Ognuno abbia da ora in poi la sua lingua e secondo la lingua abbia la sua bandiera, abbia la sua milizia... Queste patrie, tutte libere, tutte armate, possono vivere l'una accanto all'altra, senza nuocersi, senza impedirsi". E citava l'esempio della Svizzera e del Belgio.
"Non si vedono nella Svizzera e nel Belgio diverse lingue esistere senza odii, in una sola provincia, in un sol cantone? Non già che questo associarsi, in qualunque modo che i tempi volessero e disponessero, debba dividerci da chi più ci somiglia, ma diremo che il tempo potrà indurre pacifiche e volontarie combinazioni che rendano più semplici le cose e più conformi alle preparazioni e ai decreti della natura".
Cattaneo non nutriva affatto quella che Vico chiama "boria delle nazioni", che serpeggia invece negli scritti del Mazzini, e vedeva con chiarezza la impresa comune dell'umanità. Questa visione europea, cosmopolita, anzi, poiché egli respinge e demolisce la teoria hegeliana dei popoli extra-storici, ricorre di frequente nei suoi scritti.
Nel 1839: "I destini delle nazioni si sono complicati fra loro inestricabilmente; e le religioni, le guerre, le finanze, le lettere, le mode, le carte pubbliche, le società industriali, fecero di tutta l'Europa un solo vortice, che "mena gli spiriti con la sua rapina".
Non v'è ormai popolo che abbia in sé solo la ragione del suo moto e della sua vita civile, e che possa dirsi libero signore delle sue opinioni, e nemmeno delle forme di cui l'opinione si veste. E mal per lui se lo fosse, perché in pochi anni si troverebbe fantoccio e mummia, a trastullo dei popoli viventi" (O. E. I., I, 98).
Nel 1840: "Noi abbiamo per fermo che l'Italia debba tenersi soprattutto all'unisono coll'Europa, e non accarezzare altro nazional sentimento che quello di serbare un nobil posto nell'associazione scientifica dell'Europa e del Mondo.
I popoli debbono farsi continuo specchio fra loro perché gli interessi della civiltà sono solidari e comuni; perché la scienza è una, l'arte è una, la gloria è una. La nazione degli uomini studiosi e una sola: è la nazione d'Omero e Dante, di Galileo e di Bacone, di Volta e di Linneo, e di tutti quelli che seguono i loro esempi immortali; è la nazione delle intelligenze, che abita tutti i climi e parla tutte le lingue.
Al disotto d'essa sta una moltitudine divisa in mille patrie discordi, in caste, in gerghi, in fazioni avide e sanguinarie, che godono nelle superstizioni, nell'egoismo, nell'ignoranza, e amano e difendono talora l'ignoranza stessa, come se fosse il principio della vita e il fondamento dei costumi e della società. L'intelligenza si muove al disopra di questo pelago; essa sparge in ogni parte i libri, i musei, le scole, le studiose associazioni" (O. E. I., V, 336).
All'economista Cattaneo non poteva sfuggire né parere secondario il carattere internazionale della vita economica moderna. Nel 1862 così ne scriveva: "Assiduo è frattanto lo scambio di prodotti. Qui la Svezia abbatte le sue foreste e scava le sue miniere; la Russia appresta le sue balle d'ermellino e di mortora; l'Olanda imbarca le sue aringhe, il suo olio e le sue ossa di balena; fra pochi mesi, i vascelli di Tolone copriranno gli alberi di Svezia, d'una vela francese; il napoletano, il genovese, il livornese, il sardo esporranno al sole il pesce seccato dal batavo; sugli omeri del sultano spiccherà l'ermellino di Arcangelo; alla sua volta l'Italia verserà l'olio de' suoi fecondi olivi nelle botti del nord; la Francia attelerà le sue drapperie di seta, quella seta recata a Costantinopoli dalla China entro un giunco: l'Impero d'Oriente è scomparso, il verme esiste ancora; l'industria l'ha ricoverato sotto il dorso di una rustica foglia, e questa foglia è una ricchezza. Non si fabbrica un'auna di merletti a M
alines, che Bergamo non tessa nello stesso tempo un'auna di cotone. Aleppo una di mussolina. Una verga di ferro esce dalle miniere di Upland, e nello stesso istante Brescia estrae un fucile dalla fornace. Birmingham un'ancora marina, Bristol una pioggia di fili metallici. Così ogni uomo risponde all'altro uomo; ogni colpo di martello ha la sua riscossa lontana" (Politecnico, XII, 245).
Da questo carattere internazionale della vita economica moderna, il Cattaneo induce due necessità: la solidarietà tra le nazioni e il libero scambio. Nel 1863 egli scriverà: "Una guerra, in qualunque parte del globo, turba il commercio e l'industria di tutte le nazioni. Al contrario la quiete, la prosperità, la cultura d'un popolo torna in mille modi a giovamento di tutti gli altri; le invenzioni della scienza e dell'arte si propagano per tutta la terra, per esempio, la stampa, la locomotiva, la bussola, il telegrafo. Perciò tutte le nazioni, e il loro incivilimento è il regno della giustizia su tutta la terra" (O. E. I., VI, 335).
Il Cattaneo combatte il nazionalismo economico basandosi sulla divisione del lavoro e sulla libera emulazione. (Specialmente in vari scritti del 1843, O. E. I., V, 174, 175, 180). "Come sarebbe assurdo - egli osservava nel 1834 - far crescere le palme del deserto accanto agli abeti delle Alpi, così è assurdo trasformare il Lionese in orologiaio e il Ginevrino in tessitore di seta". (O. E. I., V, 196, 197).
Se "Il Cisalpino" avesse avuto vita, Cattaneo avrebbe sviluppato la sua tesi federalista, avendo a modello la Svizzera, il Belgio e gli altri Stati Uniti d'America. Il giornale, invece, non uscì. Era suonata l'ora della rivolta, e il Cattaneo che il 17 marzo scriveva il programma di collaborazione tra il Lombardo-Veneto e l'Austria, che il 18 sconsigliava una dimostrazione di piazza, il 19 dava consigli strategici agli insorti e il 20, con tre giovani, Terzaghi, Clerici e Cernuschi, entrava a far parte del "Consiglio di guerra" e rifiutava, a nome di questo consiglio, contro il parere del Podestà Casati e di altri maggiorenti moderati, l'armistizio di 15 giorni proposto dal Radetzsky. Il giorno seguente rifiutava un'altra proposta d'armistizio per tre giorni. E respingeva la proposta di un agente albertista: i milanesi facciano dedizione a Carlo Alberto, e l'esercito piemontese si metterà subito in campagna.
Così il Cattaneo si poneva in contrasto con Mazzini, accorso da Londra, che protestava di non volere se non la Vittoria sull'Austria e rinviava a guerra finita la questione della forma politica del nuovo Stato, sperando in un moto repubblicano e democratico che liquidasse Carlo Alberto e i moderati lombardi.
Ferrari e Cattaneo volevano abbattere il Governo Provvisorio, convocare l'Assemblea e chiamare in aiuto la Francia. Nelle considerazioni dell'"Archivio Triennale" (1850-54), il Cattaneo definiva con viva ostilità l'azione politica dei repubblicani unitari.
"Nel 1831 Giuseppe Mazzini non rivolse le prime sue parole al popolo, ma bensì a un giovane congiurato divenuto re..." "Cotesti nuovi repubblicani purtroppo erano propensi a sperare più nello esercizio regio che nella guerra di popolo, perché la scuola loro era scaturita primamente dall'idea napoleonica".
Sul dissidio tra Mazzini e il Cattaneo si legga il libro del prof. A. Monti, "Un dramma tra gli esuli".
Il risultato dei contrasti fra i moderati, che promossero il plebiscito per la fusione con il Piemonte, ed i federalisti fu la vittoria di Radetzsky, che scacciò Carlo Alberto dalla Lombardia e ristabilì il dominio austriaco. Cattaneo venne a Parigi, in rappresentanza dei democratici lombardi emigrati, a sollecitare l'intervento della Francia in una nuova guerra contro l'Austria, ma trovò incomprensione, indifferenza, ostilità. Stabilitosi a Lugano, fu invitato ad accettare la candidatura per il parlamento di Torino, poi quella per la Costituente Toscana, poi lo ufficio di Ministro delle Finanze della Repubblica Romana.
Rifiutò sempre, affermando che ciascun paese deve scegliersi a governanti i propri uomini e non prendere a prestito quelli delle altre regioni.
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