I venti quesiti proposti agli italianiIl Corriere della Sera, domenica 9 gennaio 2000, di FERRUCCIO DE BORTOLI
Non abbiamo particolare simpatia per Marco Pannella, anche se gli va riconosciuto un ruolo insostituibile nel promuovere una cultura liberale in questo Paese. Ne' possiamo essere sospettati di nutrire una spiccata predilezione per Emma Bonino, anche se si comporto' bene come commissario europeo e la sua candidatura al Quirinale rappresento' sicuramente una novita' positiva. Detto questo, non comprendiamo perche' i referendum da loro proposti, e soprattutto quelli di natura sociale, debbano fare cosi' tanta paura. Al punto da far dire, non solo ai sindacati ma anche ad autorevoli rappresentanti della maggioranza, che, una volta votati, incrinerebbero l'intera architettura dello Stato sociale in Italia.
Con la bulimia referendaria che li contraddistingue (causa non ultima dello svilimento di questo importante strumento di democrazia diretta), i radicali hanno proposto venti referendum sui temi piu' disparati: lavoro, fisco, giustizia, previdenza e sanita', finanziamento pubblico dei partiti, compresa l'abolizione della quota proporzionale nel sistema elettorale, chiesta anche da altri e per la quale l'anno scorso non fu raggiunto il quorum.
Ma, restando alle materie sociali, dobbiamo chiederci che cosa accadrebbe se, una volta ammessi i quesiti, nella tarda primavera gli italiani rispondessero si'. Non crediamo che si avrebbero effetti devastanti se il cosiddetto "piccone liberista" venisse scagliato contro il monopolio pubblico del collocamento, gia' liquidato in sede Ue, e si consentisse alle agenzie private, che gia' si occupano di lavoro temporaneo, di favorire l'incontro fra domanda e offerta. Lo ha fatto persino la Cina. Una maggiore liberta' nei contratti di lavoro a termine poi, certo accompagnata da una normativa che persegua gli abusi, come raccomandato da Bruxelles, avvicinerebbe semplicemente l'Italia alla Gran Bretagna o alla Spagna, per non parlare degli Stati Uniti. Tutti Paesi nei quali il part time (altro quesito) e' largamente diffuso e dove non sembrano mancare lavoro e benessere.
La proposta piu' delicata riguarda la disciplina dei licenziamenti, con la rimozione di quel vincolo per le imprese con piu' di 15 dipendenti. Come ha notato Marco Biagi sul Sole-24 Ore, non scomparirebbe affatto la tutela contro il recesso ingiustificato, si affermerebbe piuttosto una logica risarcitoria al posto della reintegrazione forzata secondo la discrezionalita' dei giudici. L'istituto e' obsoleto, e lo ammette anche Pietro Ichino, giuslavorista vicino ai Ds e assertore, assieme a Franco Debenedetti, di una riforma che in caso di licenziamento per giustificato motivo (cambiamenti organizzativi o riduzione di carichi di lavoro) prevede per il licenziato un'indennita', consentendogli inoltre un margine di tempo per trovarsi un'altra occupazione. Cosi' si avrebbero costi certi per le imprese che dovrebbero essere incentivate ad assumere di piu'.
Questi referendum, se ammessi e approvati, creeranno non pochi e pericolosi vuoti legislativi. Ma l'esperienza degli ultimi anni insegna che le riforme in questo Paese si fanno quasi unicamente sotto la spinta, la minaccia, anche disordinata, della consultazione popolare. E' accaduto, e speriamo accada ancora, per la legge elettorale; dovrebbe succedere anche per quell'insieme di norme sul mercato del lavoro ormai incompatibili con un sistema economico aperto, flessibile e dinamico. A meno che non si sostenga che regole scritte trenta, cinquant'anni fa possano essere ugualmente efficaci anche oggi, a tutela di chi un lavoro ce l'ha, ma soprattutto di chi non l'ha ancora.
Si comprende l'opposizione dei sindacati, cui va riconosciuto il merito di aver contribuito al risanamento del Paese. E' in gioco il loro ruolo. Ma ci si domanda se non sarebbe in gioco anche senza referendum. E se un piu' forte coraggio riformatore non possa affidare ai sindacati, in futuro, un ruolo piu' moderno e di maggiore rappresentanza.