In margine al congresso Ds
»Per sotterrare la verità, ci manca
sempre almeno una palata di terra.
Guarini, con la consueta ironia, ha scritto che l'intera parabola dei comunisti italiani è contrassegnata da un perpetuo "travaglio": peccato che non si concluda mai con un parto. Nel confronto con il passato gli ex pci procedono infatti per svolte e rimozioni, senza mai portare a termine quell'indispensabile percorso di analisi e revisione delle proprie scelte. Giunti irrimediabilmente in ritardo all'appuntamento con gli eventi politici più importanti di questa fine secolo, i comunisti italiani - nelle tre loro varianti oggi esistenti - non rinunciano tuttavia a recitare il ruolo dei "diversi", dei "migliori" sempre e comunque.
Il guaio è che la loro unica e reale diversità consiste nell'essere incompatibili con la libertà e la piena assimilazione del gioco democratico. E ciò vale ancora, a dispetto delle dichiarazioni fintamente solenni del segretario dei Ds Walter Veltroni, che - nel 1999 - pretende di affidare alla levità di un'intervista la presa d'atto della inconciliabilità tra comunismo e libertà. Ogni azione politica promossa dalla sinistra post-comunista è infatti ispirata - nella scuola come nella sanità o nel lavoro - da una logica accentratrice e coercitiva; mentre permane quell'idea egemonica, secondo la quale il potere, una volta conquistato, va preservato a ogni costo, comprendendo per questo anche il ricorso all'annientamento non solo politico dei potenziali concorrenti. Nessuno ha più il coraggio di farsi paladino del partito unico, ma poi si vive la sconfitta alle elezioni comunali di Bologna come un evento apocalittico o si paventano chissà quali devastazioni in caso di vittoria degli avversari, dichiarando che
solo la propria parte ha davvero il diritto di governare.
Questi caratteri non hanno subìto alcuna sostanziale modifica nemmeno dopo il 1989 e il crollo del regime sovietico in Europa. Il fallimento del cosiddetto "socialismo reale" avrebbe dovuto comportare il dileguarsi dei suoi infaticabili sostenitori in Occidente. Da quel momento in poi, la principale preoccupazione della sinistra di matrice comunista è consistita invece nella ricerca di un rinnovato "collante" ideologico che le permettesse, al tempo stesso, di giocare d'anticipo e scongiurare così ogni redde rationem.
Dissoltisi i dogmi rivoluzionari dei sacri testi marxisti-leninisti, la nuova ideologia ha preso le sembianze del giustizialismo, a suo modo figlio tanto dell'emergenzialismo degli anni di piombo, che della berlingueriana "questione morale". Va tenuto presente, infatti, che già all'alba degli anni '70 - dopo l'invasione della Cecoslovacchia e la scissione del gruppo del "manifesto" - il Pci si era reso conto che la proposta del modello d'oltrecortina era impraticabile. Si badi, a tale conclusione giungeva come al solito buon ultimo, dal momento che la fine della spinta propulsiva del comunismo sovietico, riconosciuta da Enrico Berlinguer in occasione della campagna elettorale del 1975, era nelle cose per lo meno dalla fine della guerra, sempre ammesso che sia giusto parlare di "spinta propulsiva" per un regime distintosi in primo luogo per gli eccidi degli oppositori.
Anziché procedere sulla via maestra del superamento della scissione di Livorno, si preferì tuttavia elaborare ambigue prospettive senza futuro - l'eurocomunismo, per esempio - o spacciare slogan esilaranti come appunto la "diversità morale", a base di locazioni stracciate e parassitismi vari. Stratagemmi più che strategie, utili solo a procrastinare il momento in cui affrontare il vero nocciolo della questione: il deciso superamento di una forma mentis, più ancora che di una politica, secondo la quale per il fine della conquista del potere è consentito ricorrere a ogni mezzo, primo fra tutti la mistificazione. E questo snodo che gli esponenti del Pci prima, e i suoi eredi poi, si sono sempre rifiutati di affrontare. Un rifiuto che emerse nettissimo in occasione della polemica con Pannella sulla strage compiuta dai Gap in via Rasella, quando all'esortazione del leader radicale a liberarsi dalle zavorre di un passato incancrenito dalla logica della violenza si opposero solo querele.
Violenza e mistificazione rappresentano nella storia del comunismo - compreso quello italiano - le due tare che ne hanno minato irrimediabilmente il messaggio di emancipazione di cui si proclamava portatore. Giustamente è stato fatto osservare che prima ancora del totalitarismo insinuatosi nella politica novecentesca, l'esito più deleterio del comunismo è rappresentato proprio dall'aver deluso la speranza di riscatto dei popoli. Come ha scritto di recente Marcello Veneziani,
"Il comunismo ha avvelenato nel mondo i pozzi della speranza. Con la sua ideologia ha ucciso anche il profumo delle idee e nel suo gorgo finale ha trascinato anche la possibilità di coltivare delle idee e non solo degli obiettivi o degli interessi; con i detriti lasciati dal suo furore ha reso proibitive le passioni civili e peccaminose le attese di cambiamenti".
Con la politica ridotta a un deserto, c'è poco da meravigliarsi se al suo posto subentrano il prevalere di tecnocrazie sempre meno rappresentative e il dilagare di un'apatia, che fa chiudersi entro il recinto di un interesse tutto privato chi era disposto a giocare tutt'altra partita. Anche questo lascito si deve al comunismo: al pari del dolore e della miseria che generò laddove riuscì ad imporsi, richiederà un'enorme quantità di tempo prima di essere sanato. Di certo non sembrano muoversi in questa direzione i Ds, se è vero che anche un loro accorto esponente, come il senatore Pellegrino, considera un dato ineluttabile dell'epoca moderna il rafforzamento degli organismi cosiddetti neutrali (magistrati e burocrati, innanzi tutto) a danno del potere politico, l'unico legittimato dal consenso popolare. La nuova sfida della democrazia è proprio su questo fronte, ma è un fronte ancora una volta disertato dalla sinistra del nostro Paese.
Quasi a fare da controcanto alla dichiarazione di Veltroni, il presidente del Consiglio Massimo D'Alema rileva come "molti italiani che si batterono per la libertà trovarono la loro casa nel Pci". Può essere vero, ma è altrettanto vero che il Pci non si batté per la libertà ed è in questa "divaricazione" che si è consumato un ulteriore tradimento, tutto interno stavolta alla storia della sinistra italiana. Tra quanti si avvicinarono al Pci e dovettero subire le conseguenze di questo inganno, vi fu pure Leonardo Sciascia. Lo scrittore siciliano - com'è stato ricordato su queste pagine da Valter Vecellio - patì l'offesa di essere accusato di diffamazione solo perché riferì quanto appreso durante una conversazione con Berlinguer, presente Renato Guttuso, circa i contatti fra il terrorismo di sinistra e i servizi segreti della Cecoslovacchia. Che le cose stessero come detto da Sciascia è quasi certo, ma il segretario del Pci negò di aver mai parlato dell'argomento. Ora, dal dossier Mitrokhin è confermato che le
Br ebbero vari contatti coi servizi dell'Est e che, all'interno del Pci, ciò era ben noto.
Gli squarci aperti dalle rivelazioni dell'ex agente sovietico, preventivamente verificate dal servizio segreto britannico, sono numerosi e riguardano diversi aspetti della vita politica e sociale italiana. Tuttavia, qui non interessa entrare nel merito dei fatti riportati (che, è auspicabile, siano esaminati in una sede appropriata), quanto piuttosto soffermarsi sulle reazioni registrate nell'ambito della sinistra post-comunista. In genere ha prevalso la tendenza a svalutare la loro importanza e, perfino, il loro interesse, ma che così non fosse è provato dal fatto che per quasi tre anni la relativa documentazione è stata tenuta ben chiusa nei cassetti. Una volta resa pubblica - dagli inglesi e non dal governo italiano - si è detto che si trattava di cose stranote, epperò in alcuni casi tenacemente negate sino al giorno prima: dal coinvolgimento del Kgb nell'attentato al Papa alla operazione di disinformatia sul caso Moro, costruendo prove a carico della Cia o di Kissinger.
Nella rimozione/sottovalutazione si sono distinti proprio gli operatori dell'informazione che, contrariamente al mito del giornalista strenuo difensore del diritto di cronaca, in questo caso non hanno fatto altro che soffocare le notizie. Difficile dire se a ciò mossi per un interesse strettamente personale, essendo alcuni di loro citati tra i "collaboratori" - ingenui o meno - dei servizi oltrecortina. Fatto è che sono stati ben pochi gli articoli scritti per controbattere Armando Cossutta, quando - orgogliosamente - pretendeva di non dover rammaricarsi per nulla del suo passato; oppure, per reclamare con forza una nuova lettura delle intricate vicende connesse al terrorismo degli anni '70 e '80. Taluni hanno provato a ridimensionare il caso, riducendolo a una questione di soldi (i denari da Mosca non erano poi così tanti, dice Michele Serra); altri a giustificare tutto col clima della guerra fredda o con l'obbligo a difendersi dal golpismo strisciante, fomentato - manco a dirlo - dai soliti amerikani con l
a kappa. In questa occasione, insomma, dalla intellighentia di sinistra è stato attivato tutto l'armamentario dei suoi luoghi comuni più triti: gli stessi da trent'anni a questa parte; gli stessi nei quali finì per naufragare la vita di Giangiacomo Feltrinelli quel 14 marzo 1972 che, per certi versi, rappresenta il prodromo dei lunghi anni di piombo.
Già tempo addietro, evidenziavamo come il milieu di sinistra nelle redazioni e nel mondo della cultura fosse portatore di posizioni che rivelano, da un lato, il retaggio di un massimalismo parolaio, ma non per questo meno truculento, e - dall'altro - una pervicace volontà di conservazione. Purtroppo, contrariamente agli auspici, i suoi esponenti, anziché vedere progressivamente ridotta la propria capacità di incidenza, sembra che continuino a condizionare fortemente le scelte politiche. Coi ciarpami di un ideologismo che oggi - come si è detto - veste i panni delle tricoteuses giustizialiste, è così ostruito il pieno manifestarsi delle istanze liberali pure presenti in quest'area politica, se non altro come eredità tardo-ottocentesca.
Non è quindi un caso se giornali e tv hanno per lo più preso sotto gamba gli effetti del caso Mitrokhin, evitando accuratamente di soffermarsi sul dato essenziale che non era rappresentato dai rubli o dai nomi delle "spie", ma da quello che una parte non indifferente di politici e intellettuali ha dato in "contraccambio". Il peso di questo scambio si misura nell'appoggio incondizionato agli interessi sovietici, rispetto a quelli occidentali; nel sabotaggio sistematico delle politiche nazionali; nella diffusione delle verità comode per il Cremlino e nell'occultamento di quelle che gli erano sgradite.
Senza contare che la presenza nei settori-chiave di uomini comunque condizionati dal regime moscovita (o perché direttamente sul suo libro paga, o perché pregiudizialmente ad esso favorevoli) ha avuto conseguenze anche su piani forse meno decisivi, ma non per questo privi di rilievo. Piero Ostellino, pur ridimensionando l'eccezionalità dei contenuti del dossier Mitrokhin, ha tuttavia rivelato a Radio Radicale un episodio di non poco conto. Durante la direzione del »Corriere della sera da parte di una delle persone elencate nella lista di nomi "vicini" al Kgb, a lui liberale, per lungo tempo corrispondente da Mosca, fu impedito di scrivere a proposito dell'URSS. Succedeva anche questo nell'Italia dell'Est: ai lettori del più grande quotidiano nazionale veniva negata la possibilità di conoscere l'opinione di uno dei suoi maggiori editorialisti.
Il danno sopportato dal Paese col più grande partito comunista dell'Occidente è stato rilevante. Sarebbe doveroso, pertanto, da parte degli eredi di quel partito risarcirlo compiendo un decisivo sforzo per una campagna di verità, che ripaghi delle tante menzogne a lungo propinate. Finora quanto si è ascoltato dai dirigenti dei Ds sono più che altro frasi di circostanza, essendo mancato un serio impegno a porre le basi per una ricostruzione complessiva di quanto avvenuto in questi decenni.
Sul corpo dell'Italia sono ancora ben visibili le indelebili ferite delle stragi e del terrorismo brigatista. Quanto alle prime, indagini pluriennali non hanno prodotto alcunché di concreto; le interpretazioni correnti in tanta pubblicistica appaiono sempre più frutto degli strumentalismi politici e men che meno tese alla scoperta dei veri responsabili. Del secondo sono rimasti nell'oscurità ben più che dei particolari. Ciò che è emerso di recente, dai documenti provenienti dagli archivi dei servizi segreti dell'Europa orientale, lascia prefigurare scenari inediti, i cui contorni parrebbe non fossero però del tutto ignoti all'interno del Pci.
Se questi nodi non verranno affrontati e sciolti dalla politica italiana non sarà possibile alcuna evoluzione verso la cosiddetta "normalità" europea. E giunto il tempo di farlo. Credere che se ne possa fare a meno è pura illusione, perché da questa operazione di "svelamento" dipende gran parte delle possibilità di una effettiva rinascita politica del Paese. Senza di essa, rimarremmo in una situazione torbida dove a tutti sarebbe consentito rimestare alla ricerca del proprio esclusivo vantaggio.
Luigi O. Rintallo