Carissimi,
trovandomi in Israele, sono molto dispiaciuta di non poter essere insieme a voi nei prossimi giorni a Roma, all'assemblea nazionale, cosa che avrei molto desiderato. Sento molto la vostra mancanza e patisco l'inattività politica. Proprio osservando da lontano l'attività radicale, che seguo costantemente grazie ai mezzi telematici: le conferenze di Agorà, Radio Radicale online, il sito dei radicali, i giornali che leggo quotidianamente, è nato in me il desiderio di condividere con voi alcune riflessioni di questi mesi. Riflessioni che non mettono in nessun modo in discussione la sostanza delle iniziative radicali che sono state e sono portate avanti dal gennaio 1999 ad oggi, tanto per citare solo le ultime, iniziative che apprezzo e condivido e che, nei primi mesi dello scorso anno, quando ancora ero in Italia, mi hanno vista partecipe attiva.
Proprio perché vi voglio bene, proprio perché ritengo che le iniziative radicali siano essenziali per lo sviluppo del nostro paese, ho sentito il bisogno di mettere per iscritto queste mie riflessioni e di rendervene partecipi, nella speranza che esse possano essere di qualche aiuto per affrontare nel modo migliore le urgenze che ci sono di fronte, che sono molte e importantissime, dal verdetto della Corte Costituzionale alla campagna referendaria che ne seguirà, dalla campagna per le elezioni regionali alle porte all'esigenza di ristabilire una corretta informazione nei media italiani.
Proprio perché le urgenze da fronteggiare sono molte, dicevo, e vitali non solo per noi, ma per tutti i cittadini, ritengo che non sia inutile interrogarsi sul metodo con le quali portarle avanti e il linguaggio con cui presentarle. Proprio perché, come noi radicali non ci siamo mai stancati di ripetere agli avversari, la forma è sostanza, in politica.
Io mi chiedevo in questi giorni quanti, tra i dirigenti dell'area radicale, abbiano mai fatto un giro nel Forum del sito www.radicali.it, a parte Angiolo Bandinelli, che del Forum - anzi, del Bucum, come lo chiama lui - è assiduo frequentatore. Può apparire una domanda strana, eppure tanto strana non è. Domanda, per altro, che può essere altrettanto bene rivolta ai militanti.
Emma Bonino, rispondendo qualche giorno fa ad Ancona a chi le chiedeva sull'organizzazione politica da dare ai radicali italiani, rispondeva che ci stava ancora pensando. E, tra le altre cose, notava quanto la telematica influisca sulla politica e debba, verosimilmente, trovare posto in un partito degli anni 2000. Il Forum è senza dubbio un nuovo "luogo politico", una nuova "agorà" dove, chi vuole discutere, sia egli dirigente o militante, sia egli simpatizzante o avversario, sia egli capitato lì per caso oppure intenzionalmente, può farlo. E trova chi gli risponde. Magari non gli risponde chi vorrebbe lui. Magari non gli si risponde quello che vorrebbe. Magari, addirittura, non gli si risponde affatto, e si deve accontentare del silenzio come di un'eloquente risposta. Ma discute. Pone problemi, legge i problemi degli altri, si confronta. Discute, dunque.
Discutere aiuta a pensare. Le discussioni altrui suscitano interventi nostri, e i nostri quelli altrui.
Discutere. Pensare.
Due verbi importanti per l'attività politica. Non si può fare politica senza discutere. Altrimenti non si fa politica, ma dittatura, tirannide. Lo esemplifica bene quell'aneddoto che certamente tutti voi conoscete. Quello di Pasternak che voleva parlare con Stalin per perorare la causa del poeta imprigionato Mandel'stam. E quando Stalin un giorno, con sua sorpresa, gli telefonò, Pasternak gli rispose che voleva incontrarlo "per parlare della vita e della morte". Che è un modo elegante per dire che voleva parlare di politica, ma della politica vera, non di quella dei teatrini ambulanti, dei carrozzoni televisivi, degli slogan di partito. Voleva parlare della politica come di ciò che incide sulla vita e sulla morte dei cittadini.
E che la politica sia questo voi tutti lo sapete molto bene. Tutte le battaglie radicali, da molto prima che io nascessi, sono battaglie per la vita contro la morte. E - per questo - battaglie politiche nel senso più puro. Non serve neppure esemplificare. Ciascuna battaglia di quelle portate avanti dai radicali nel passato e nel presente ne è un esempio perfetto.
Anche Sciascia, che riportava questo aneddoto per spiegare perché si fosse deciso a scendere in campo e ad accettare la candidatura che Pannella gli proponeva, disse che si era deciso perché questo paese aveva bisogno che qualcuno parlasse della vita e della morte.
C'era bisogno che qualcuno dicesse la verità, in un contesto in cui tutti i membri dello schieramento costituzionale si riempivano la bocca di menzogne. E aveva riconosciuto nei radicali questo desiderio di dire la verità, anche la più scomoda. Anche la più difficile. Anche la meno pulita.
In Italia c'è ancora bisogno di dire la verità, di parlare della vita e della morte.
Bisogna vedere, però, come se ne sa parlare.
E qui torniamo al Forum.
Se i dirigenti radicali lo frequentassero, si renderebbero certamente conto di quanti simpatizzanti radicali sono tenuti lontani dalla militanza politica attiva, e spesso anche dal voto per i radicali, da un problema di linguaggio.
Il linguaggio, che ormai tra di noi è diventato un segno di appartenenza. Linguaggio che - perdonatemi l'iperbole che a qualcuno sembrerà azzardata - mi sembra talvolta da "professionisti dell'antiregime". E vorrei fare una considerazione su quest'espressione, prima di continuare sul linguaggio: professionisti dell'antiregime. Non l'ho scelta a caso. L'ho scelta consapevolmente, nella dolorosa constatazione che questo i radicali sembrano a volte divenuti. Loro malgrado, mi viene da dire, e proprio per fronteggiare le urgenze che si presentano, proprio nel tentativo di essere il più incisivi possibile di fronte alle circostanze che si presentano e al peso delle incombenze che queste circostanze impongono. Circostanze di cui non mi sogno neppure di negare l'evidenza.
Ma il professionismo è pericoloso. Non si può essere, per combattere il regime, professionisti dell'antiregime, come non si doveva essere professionisti dell'antimafia per combattere la mafia, diceva Sciascia.
E Sciascia li combatteva, i professionisti dell'antimafia, non perché fosse favorevole alla mafia. Proprio no. E neppure perché alla mafia non credesse. Né perché volesse nullificare la lotta alla mafia. Anzi, li combatteva per la ragione contraria. Proprio perché credeva che la mafia esiste e va combattuta, credeva che i professionisti dell'antimafia fossero i meno adatti a combatterla.
Ci troviamo - e lo dico dolorosamente - ad aver intrapreso un'analoga strategia: vogliamo combattere il regime, e tendiamo a fare di questa lotta un "professionismo". Con modi da professionisti. Con un linguaggio da professionisti. E qui torna il problema del linguaggio.
Le parole, a forza di usarle, si usurano. Se Sciascia avesse combattuto le proprie battaglie usando sempre le stesse parole, al secondo libro non l'avrebbe più letto nessuno. Invece, essendo lui quello scrittore che era, ha saputo trovare sempre parole diverse.
Parole diverse per dire le stesse cose, senza mai annoiare il lettore.
Il politico ha lo stesso problema dello scrittore: portare avanti i propri discorsi, senza annoiare l'ascoltatore. Che poi è il cittadino-elettore. Quel cittadino che lo premia con il suo consenso, il suo voto, i suoi contributi, oltre che con la sua simpatia. Quel cittadino di cui la politica radicale ha grande bisogno, soprattutto in questo momento, per imporsi come forza liberale contro le forze conservatrici che dominano in questo momento la scena politica. Ed è una scommessa che, in questo momento, sia con le elezioni regionali che con i referendum alle porte, noi possiamo vincere nettamente. Non solo possiamo, ma lo dobbiamo, mi viene da dire, a tutti quei cittadini che hanno votato la Lista Bonino alle europee e hanno poi firmato i referendum durante l'estate, sottoscrivendo insieme a noi, in quel modo, una comune speranza di rinnovamento nel panorama politico e sociale italiano.
Possiamo e dobbiamo vincere, quindi, e abbiamo in mano tutte le carte per farlo. Abbiamo le giuste convinzioni, le giuste battaglie e la giusta determinazione. Ma non basta, per vincere, che il politico porti avanti una battaglia giusta. La deve anche saper spiegare agli altri. Perché con gli altri deve discuterne. Perché gli altri devono convincersi e accettarla e portarla avanti insieme a lui.
La politica non si fa da soli, ma in uno spazio politico che condividiamo con altri. Virtualmente, con tutti i cittadini dello stato di cui facciamo parte - cosa che, negli spazi della politica telematica, è sempre più evidente. E, visto che siamo transnazionali, anche con i cittadini degli altri stati: sempre per portare il Forum ad esempio, vi intervengono spesso anche italiani residenti all'estero e forse, in qualche caso, neppure nati in Italia.
Discutere, dobbiamo, per indurre gli altri a pensare. Perché anch'essi si persuadano delle nostre ragioni.
Noi, al contrario, sembriamo persuasi che, a forza di usare le stesse parole - il regime, il genocidio radicale, la partitocrazia, i ladri di verità, i ladri di giustizia, e così via - alla fine queste parole entreranno in testa alla gente e riusciremo a convincerla a seguirci.
Bene, questo non è. A forza di sentire lo stesso slogan dieci, cento, mille volte, le persone si stufano. E non ci stanno più a sentire, anche se avrebbero tutti i motivi per farlo. Anche se i discorsi che facciamo dovrebbero interessarli. Perché riguardano le loro vite (o le loro morti, la loro morte nelle carceri a causa della giustizia ingiusta, la loro morte per il proibizionismo di stato, la loro morte civile nella disperazione di non trovare lavoro, tanto per citare solo alcuni dei nostri temi più attuali). Dovrebbero interessarsene, dicevo, eppure non se ne interessano. E ce ne stupiamo. Ce ne meravigliamo. Ce ne scandalizziamo. Ce ne indigniamo. Ce ne offendiamo. Ma ci fermiamo lì, invece di continuare a riflettere, chiedendoci perché questo avvenga, e studiando possibili soluzioni. Non facciamo, cioè, la cosa più semplice e immediata che dovrebbe venirci in mente. Provare a dire le stesse cose in un altro modo. Con altre parole. Con altri toni.
E mentre noi riproponiamo gli stessi slogan di sempre, per uno nuovo che si ferma ad ascoltarci, se ne vanno almeno in dieci. E pensano, quei dieci: tanto il ritornello lo conosco già. Ed è vero. E drammaticamente vero.
Io leggo quotidianamente tutti i comunicati stampa che escono dalla sede di via di Torre Argentina, e anche quelli delle altre sedi, quando compaiono in "conferenza rivoluzione liberale".
Mi dispiace molto dirlo, ma si assomigliano tutti. Sono tutti affetti da una spaventosa somiglianza, nei toni, nel linguaggio, nelle espressioni. Non importa chi li abbia scritti. Si assomigliano al punto da non riuscire più a distinguerli l'uno dall'altro, quello di ieri da quello di oggi da quello di domani. Sembrano essere prodotti attraverso un gioco di arte combinatoria, come fossero scritti facendo un taglia e incolla dagli ultimi tre comunicati precedenti. Non voglio dire che questo accada, ma, dai risultati, è come se accadesse. Non stupiamoci poi che nessuno li riprenda, che nessuno li pubblichi, che nessuno li commenti, che nessuno chiami per un'intervista. Non stupiamoci che nessuno, leggendo le nostre quotidiane denunce, prenda qualche provvedimento.
Certo, non è questa, ovviamente, l'unica causa per cui i nostri comunicati non vengono ripresi. Possiamo anche sostenere che sia la causa meno rilevante, a fronte della quotidiana disinformazione operata dai media italiani. Ma noi forniamo loro un comodo, splendido alibi su un piatto d'argento. La scusa perfetta, fabbricata con le nostre stesse mani. E proprio perché la loro è una bugia, noi non dobbiamo coprirla stando al loro gioco, ma dobbiamo, pacatamente, smascherarli.
Ora, voi potreste dirmi che anche i comunicati stampa degli altri partiti sono tutti uguali. Non lo so, quelli degli altri non li leggo. Ma qui io non voglio parlare di quello che fanno gli altri, bensì di quello che facciamo noi. Proprio perché la politica radicale mi preme, mi importa, è urgente per me, personalmente, e non solo come membro di una collettività di cittadini, per i quali dovrebbe essere altrettanto urgente. Mi preoccupo, dunque, di quello che facciamo noi, o di quello che non facciamo. Nel caso dei comunicati stampa, per esempio, mi pare più esatto dire che non facciamo. Nel senso che non pensiamo. Gli slogan, e ne abbiamo tanti, servono proprio a questo. A non pensare. A non ragionare sulle cose. A non cercare una risposta meno scontata a un problema che si pone, a un evento che accade (o minaccia di accadere), a una questione che viene sollevata.
Tanto c'è lo slogan. La frase fatta. Suona bene, è stata già sperimentata, funziona. Ha funzionato ieri, perché non dovrebbe funzionare anche oggi?
Il regime, la partitocrazia, i ladri di verità, il genocidio radicaleà.
E, a poco a poco, lo slogan diventa dogma. Il regime diventa per noi quello che la mafia è per i professionisti dell'antimafia. Un'invenzione a nostro uso e consumo, lontanissima dalla realtà esistente. Un dogma.
Questo sembrano diventate tante parole, all'interno dell'area radicale: tanti atti di fede. Chi non proclama incessantemente, almeno venti volte al giorno, come una preghiera, la lotta incessante al regime, diventa subito un individuo sospetto, un eretico, un nemico. Anche se magari dice le stesse cose. Le stesse identiche cose, dice, ma pretende di dirle con una lingua diversa, con toni diversi.
Anche io, qui, adesso. Temo che qualcuno lo stia già pensando. E spero di no, spero di non avere mai ragione di ricredermi sull'onestà intellettuale del mondo radicale. Spero che - tra di noi, proprio perché siamo tra di noi - in nessuno si possa insinuare il sospetto che dico queste cose perché il regime è entrato dentro di me. Spero che nessuno abbia la tentazione, per aver scritto queste cose, di scomunicarmi e mettermi al bando.
Perché chi non è con me, è contro di me. Chi non recita la litania come tutti, dev'essere messo al rogo. Puzza di regime lontano un miglio. Ci siamo allevati una serpe in senoà.
Questi non sarebbero i radicali, le persone che amo e con cui condivido le battaglie e le speranze, ma un rigurgito veterocattolico da "Santa Inquisizione". Poco santa, l'inquisizione, a dire il vero, come tutti noi sappiamo, e come Sciascia, sempre lui, non si è mai stancato di ricordarci. Non possiamo caderci anche noi, che dalle nuove inquisizioni del conformismo politico italiano siamo stati sempre additati e condannati.
Per quanto mi riguarda, non posso non sperare che, al nostro interno, si sia consapevoli che questo mio intervento in odore di eresia non ha assolutamente l'intenzione di nuocere alla nostra azione, al contrario, e mi salvi dall'immediata lapidazione.
Non voglio dire qui per quanto riguarda la religione, ma certo l'eresia non nuoce alla politica. Al contrario, le giova, e molto anche. Perché l'eresia fa discutere. E senza discussione, la politica, come ho già detto, muore.
Dunque, sono ben lieta di essere un'eretica anch'io. Lo sono certamente, perché rifiuto il dogma. Non lo rifiuto solo perché non so parlare così. Perché questo linguaggio non mi è congeniale. Lo rifiuto anche e soprattutto perché questo linguaggio mi fa paura. Paura, lo ripeto. Mi fa paura, perché considero i dogmi nient'altro che idoli di una nuova, idolatrica religione. La religione dell'antiregime, appunto, come per quegli altri la religione dell'antimafia.
E le religioni idolatriche sono sempre state, storicamente, religioni sanguinarie. Agli idoli che si adoravano si sacrificava tutto, a partire dal buon senso. Il buon senso di non ritenere divino un oggetto costruito con le nostre mani, una parola fabbricata dalla nostra bocca. Per spingersi fino a sacrificare altre vite umane.
Bruno Zevi, da quell'ebreo virtualmente ortodosso che era, avrebbe saputo spiegarvelo certo molto meglio di me, perché gli idoli vadano combattuti. La sua era una lezione importante, per tutti noi, come dimostrano anche le sue ultime parole nella lettera al giornale ha-Kehilà. Avrebbe trovato parole migliori e argomenti più persuasivi. L'amore per l'ebraismo ha suscitato anche in me, nel mio piccolo, una radicale avversione per l'idolatria. E, con i miei pochi strumenti, cerco altrettanto di combatterla.
Perché l'idolo, il dogma, uccide, come dicevo, innanzitutto il buon senso. Quello che dovrebbe spingerci ad ascoltare i nostri interlocutori, riflettere sulle loro ragioni, e poi rispondere loro con le nostre, di ragioni. Ragioni che riteniamo migliori. Più utili alla collettività. Più persuasive.
La parola "ragioni", di nuovo, non è causale. Ha la stessa radice semantica di ragione, ragionamento, ragionare. Dal latino "ratio". Il dogma è l'antitesi del ragionamento, del pensiero sulle cose, della riflessione. Ma la politica ha bisogno di pensiero. La nostra politica ha bisogno di pensiero. Soprattutto la nostra politica. Proprio perché va controcorrente, proprio perché si propone di spezzare i dogmi altrui, gli slogan altrui, ha bisogno di pensiero. Costantemente. Non si può smettere di pensare, se si vogliono combattere le nostre battaglie di libertà e di democrazia. Proprio perché la libertà e la democrazia su questo si fondano: sul principio che tutti i cittadini hanno uguale capacità di pensiero e sono in grado di valutare che cosa per loro è meglio o peggio, e di sceglierlo, e di votarlo. Se noi facciamo questa fiducia ai cittadini che vogliamo liberare dal regime, dobbiamo farla prima di tutto e innanzitutto a noi stessi. E dobbiamo mostrarci costantemente capaci di pensare. E, pensando, di rin
novare il nostro linguaggio. Di dire ciò che vogliamo dire con parole sempre diverse, affinché ciascuno dei nostri ascoltatori, ciascuno dei nostri concittadini, trovi la formula più congeniale a lui, e ci pensi, e se ne convinca.
L'alterativa è quella di continuare così, andare avanti a urlare lo stesso slogan, finché non resteremo così soli da potercelo solo più urlare addosso. Davanti allo specchio. Come in un esercizio di teatro dell'assurdo.
Fino a quando poi, tra cinque, dieci, quindici anni, qualcuno che aveva tentato di ascoltare ma si era spaventato anche lui per il dogma da recitare, per l'idolo cui sacrificare il pensiero, non ritirerà fuori la stessa cosa, in modo diverso, con parole diverse, e allora noi diremo: ma noi lo dicevamo giàà L'avevamo già detto primaà C'eravamo prima noià Questo noi l'abbiamo sempre fatto meglioà
Ma, in definitiva, a che cosa sarà servito?
A nulla. A perdere un'altra volta il treno che poteva farci vincere un'altra importante battaglia di civiltà in questo paese.
Per questo il mio invito è per tutti noi a pensarci. A fare magari un giro sul forum e leggere quello che gli altri hanno da dire, ad ascoltare la gente quando parla per strada, sul tram, o quando si ferma ai banchetti per dire che non è d'accordo con noi. E sentire perché non è d'accordo. E provare a capirlo. E rifletterci su. E parlo qui delle opinioni della gente comune, di quei cittadini che chiamiamo a raccolta proprio in questi giorni perché ci aiutino nella nostra faticosa impresa, versando un contributo e preparandosi a votare le nostre liste alle regionali e i nostri referendum in primavera. Più le nostre parole saranno rivolte ai cittadini e non al palazzo, più si accresceranno le possibilità che i cittadini si fermino ad ascoltarci e ingrossino le fila dell'agguerrita piccola truppa radicale delle battaglie di libertà. Possiamo scegliere di fare a meno dei politici di palazzo, ma non possiamo fare a meno dei cittadini, e quindi proprio ai cittadini dobbiamo sempre sforzarci si rivolgerci, compren
dendo le loro paure, oltre che le loro speranze, e facendocene carico.
Perché sarà pure un esercizio faticoso confrontarsi con chi non condivide le nostre opinioni, ma ritengo che sia estremamente utile. Anzi, letteralmente essenziale, per non perdere quel treno di cui dicevo, per vincere quelle battaglie e aprire un nuovo spiraglio di libertà nel nostro paese.
Sono stata molto più lunga di quanto avrei voluto, e me ne scuso, ma ho voluto dire queste cose proprio perché la politica radicale mi sta a cuore, e molto anche. Proprio perché mi auguro che, rispetto alle urgenze che abbiamo di fronte, sapremo trovare il metodo migliore per fronteggiarle.
Un caro saluto e i miei migliori auguri per i vostri lavori
Irene Abigail Piccinini