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Radio Radicale Sergio - 25 gennaio 2000
MAFIA / LETTURA CONTROCORRENTE DI UN ASSASSINIO POLITICO
Mattarella che sapeva troppo. Intransigente o contiguo?

Da un libro su Cosa Nostra, un'altra verità sul dc ucciso dai boss

di Alfio Caruso

(l'Espresso, 27/01/00)

Nel '47, a Parigi, il trattato di pace fu cambiato per garantire l'immunità ai mafiosi che avevano aiutato lo sbarco alleato in Sicilia? Salvatore Giuliano venne ucciso per rendere un favore ad alcuni potenti politici italiani o la sua morte fu voluta dalla lobby americana che l'aveva utilizzato in funzione anticomunista? Nel 1960 chi suggerì ad Aldo Moro di accettare la candidatura di Giuseppe Genco Russo, il boss del vallone nisseno? Negli anni '70 fu la superficialità o la spregiudicatezza a spingere il Pci siciliano, guidato da Achille Occhetto, verso un accordo organico con gli onorevoli democristiani amici degli amici? Quando Ugo La Malfa dava una mano a Vito Ciancimino e a Giuseppe Di Cristina (il capocosca di Riesi) era soltanto per ignoranza?

E ancora: dal '70 al '90 che cosa ha indotto i mafiosi a considerare Giulio Andreotti il loro referente romano? A qualche impresa nazionale interessava che la condanna a morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino diventasse esecutiva nel più breve tempo possibile? Dove sono finite le carte sparite dall'ultimo covo di Totò Riina? Hanno forse innescato l'ennesimo grande ricatto della Repubblica? Adesso che l'ala "moderata" di Provenzano è tornata ad avere il sopravvento sull'ala "sanguinaria", facendo incetta di appalti e tangenti, perché molti fingono che la mafia non sia più un problema? Silvio Berlusconi è un perseguitato politico o paga gli stretti rapporti con Marcello Dell'Utri? E dell'Utri è un siciliano di rispetto o l'uomo più sfortunato del mondo? E soltanto un caso che in ogni misfatto spunti sempre un massone, quando non sono massoni gli stessi mafiosi?

Questi sono alcuni degli interrogativi suscitati dalla lettura di "Da Cosa nasce Cosa" (Longanesi, pp. 697, L. 32 mila) di Alfio Caruso, il libro che ripercorre 56 anni di mafia e di storia italiana. Eccone alcuni brani.

L'ingenuo Piersanti

L'omicidio di Piersanti Mattarella scaturisce da un impasto politico-imprenditoriale-mafioso al quale il presidente della Regione siciliana ha deciso di opporsi. Decisione travagliata, sofferta, che Mattarella manifesta all'improvviso cogliendo di sorpresa i nemici e soprattutto gli amici. Ma chi sono gli amici? Senz'altro i compagni di partito, Rosario Nicoletti e Michele Reina, poi i più bei nomi della borghesia, della nobiltà. E poi? Qui si entra nel campo delle illazioni. Angelo Siino nelle sue confessioni parla di un Mattarella bravo nel barcamenarsi tra le istanze dei Bontate e quelle dei Buccellato, la potente famiglia di Castellammare: una navigazione a vista che negli ultimi tempi lo aveva avvicinato più ai secondi che ai primi, e ciò avrebbe scatenato la furibonda reazione del "principe di Villagrazia". Contro questa ricostruzione è insorto Sergio Mattarella, fratello di Piersanti e vicepresidente del governo D'Alema, definendola una fandonia grottesca. Le testimonianze degli altri collaboratori d

i giustizia sono più sfumate, con un dato in comune: il giovane professore universitario non poteva prescindere dal proprio cognome, dal passato della propria famiglia. Deputato all'assemblea regionale dal '67, Mattarella conosce bene la Dc siciliana e quella palermitana in special modo. Magari è anche lui convinto che esistano una mafia buona e una cattiva, una mafia con la quale si può trattare e un'altra con la quale bisogna scontrarsi. Di conseguenza è possibile che pronunci un sonoro "non ci sto" quando constata che i mafiosi ormai parlano con i mitra.

Mattarella è moroteo al pari di Reina: essendo l'uno la garanzia dell'altro, la morte del segretario provinciale lo ha scoperto sul fianco più esposto, quello di Palermo. Ciò non lo distoglie dal rompere con quei delicatissimi equilibri che hanno in Salvo Lima il massimo garante. Così, dall'oggi al domani, il figlio dell'avvocato Bernardo diventa inavvicinabile. Piersanti ha individuato in Cosa Nostra il virus che infetta la sua idea della politica: gli si scatena contro palesando una commovente e tragica ingenuità.

Mattarella è dalla nascita immerso nella Sicilia del potere assoluto, eppure mostra di non avere compreso fino in fondo i meccanismi che la regolano. Ritiene che lì dove vige la legge del più forte possa essere instaurata senza contraccolpi la legge dello Stato. Gli sfuggono la portata del fenomeno, gli enormi interessi che muove, il vasto raggio delle complicità. Non capisce che lo stesso sostegno del Pci alla sua giunta, del quale lui si fa forte per sfidare i vecchi equilibri, è un chiodo in più sulla sua bara. Mattarella è l'ennesimo don Chisciotte che carica i mulini a vento. Neanche un assassinio avvenuto a fine ottobre '79 lo fa deflettere dalla strada imboccata. La vittima è Giuseppe Russo, ex segretario del presidente della provincia Celano. Russo era al centro d'intricate storie di appalti, il settore da cui il presidente della Regione desidera avviare il rinnovamento.

Vent'anni dopo, l'omicidio di Mattarella continua a essere avvolto dalle nebbie [...]. E acclarato che Mattarella ordinò un'ispezione su un appalto di sei scuole comunali dato al solito Rosario Spatola. Rimane in sospeso ciò che Chinnici, capo dell'ufficio istruzione, riporta nel suo esplosivo diario: pochi mesi prima di essere ammazzato, Mattarella aveva annunciato al ministro dell'Interno Rognoni la voglia di far pulizia e alla propria segretaria avrebbe poi confidato: "Se si sapesse quello che ho detto, mi ucciderebbero certamente". Al di là delle mancate conferme, la frase sembra avere più valore scaramantico che poetico. Mattarella prosegue sulla via dell'intransigenza, convinto di poter imporre il rispetto delle regole senza pagar dazio. Forse ne parla con Rosario Nicoletti, il suo miglior amico dopo l'eliminazione di Reina e anche suo partner nell'apertura al Pci. Di Nicoletti si è già detto: con Mattarella, Mannino e Nicolosi appartiene alla covata dc degli anni Sessanta. I quattro aspirano a comand

are nel nome del cambiamento. Si dichiarano di sinistra, detestano Lima, ma sono costretti a stringere patti con lui. E molte inchieste giudiziarie oggi ci dicono che non erano così diversi dal diavolo che pretendevano di cacciare all'inferno.

La pentola di Occhetto

Su questa base programmati- ca Calogero Mannino e i suoi amici trovano ascolto dentro il Pci retto dall'inviato di Botteghe Oscure, il torinese Achille Occhetto, prima segretario della federazione palermitana, poi di quella regionale. Questo Pci si esprime compiutamente attraverso due anime: quella governativa di Pancrazio De Pasquale e quella imprenditoriale di Michelangelo Russo, alfiere delle cooperative rosse, autore di un'affermazione che gli sarà a lungo rimproverata: "Non possiamo far l'esame del sangue a tutte le aziende siciliane per sapere se hanno traccia di mafiosità".

Nel novembre del '75 la giunta regionale conclude un accordo con l'opposizione comunista su sei punti. Al Pci viene concessa la cogestione degli enti locali e soprattutto degli organismi economici, in cambio i rossi non faranno tante storie sugli oltre mille miliardi da spendere per gli interventi pubblici e sulla cosiddetta "legge Sicilia", la quale altro non è che una pressante richiesta allo Stato di finanziare ogni tipo di lavoro. Detto in soldoni, si tratta proprio dei soldoni necessari a soddisfare le mai sazie pretese dell'asse imprenditoriale-mafioso. Nascono i governi delle larghe intese che toccheranno il culmine con la giunta Mattarella. Si sperimenta a Palermo ciò che dovrà valere per il resto del paese.

L'unica voce contraria è quella di Leonardo Sciascia, eletto in quota comunista nel consiglio comunale di Palermo. Sciascia sarebbe per un'opposizione a tutto campo, ma quando si accorge che persino il suo amico Guttuso - asceso al ruolo di pittore ufficiale della sinistra - è favorevole al grande abbraccio si dimette. Le intese saranno anche avanzate, ma avvengono al riparo dell'ombra di Lima, ben felice di fornire le coperture necessarie a patto che il nuovo assolva il vecchio e dia un ulteriore giro di chiave all'armadio in cui sono conservati gli scheletri. D'altronde Lima già nel '74, durante il congresso regionale che elesse Nicoletti segretario, aveva dichiarato: "Senza il Pci non si può governare". Poi, a mo' di spiegazione, aveva aggiunto: "Se diventano i nostri soci, come potranno accusarci di essere contigui alla mafia?" E per dimostrare che era disposto a farsi carico anche dei problemi esistenziali dei comunisti aveva proclamato: "A pignata av'a bugghiri pi tutti" (la pentola deve bollire per t

utti), cioè: ci dev'essere da mangiare per tutti, se tutti, beninteso, siamo d'accordo.

 
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