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Conferenza Rivoluzione liberale
Manfredi Giulio - 1 febbraio 2000
La liberalizzazione a una sola gamba. I progressi raggiunti sul fronte delle privatizzazioni non creano sviluppo se si rinuncia a incidere sul mercato del lavoro. L'esperienza dimostra che le riforme non possono limitarsi al »prodotto
di Tito Boeri

Sole 24 ore Martedì 1 Febbraio 2000

C'è una tesi che affiora sempre più spesso fra chi sostiene l'azione riformatrice di questo Governo. E una specie di teorema delle possibilità di riforma, che recita più o meno così: dato che il sindacato si oppone con fermezza a riforme del mercato del lavoro e del Welfare, mentre si è mostrato assai più possibilista sul versante delle privatizzazioni (la disponibilità apertamente riconosciuta da D'Alema a Cofferati all'ultimo congresso dei Ds), è possibile aggirare i vincoli imposti dalla concertazione incentrando l'azione riformatrice sul mercato dei prodotti.

Pur lasciando da parte i terreni minati del lavoro e del Welfare - continua la tesi - si otterrebbero risultati importanti in termini di crescita e di occupazione, e l'Europa ci sarebbe di maggiore aiuto. Più forte è, infatti, il potere cogente di Bruxelles nella rimozione delle barriere alla concorrenza nel mercato dei prodotti che sul versante delle riforme del Welfare.

Ma sarà poi vero che la liberalizzazione del mercato dei prodotti può contribuire a ridurre la disoccupazione? La teoria economica è alquanto reticente a riguardo. Ci dice che nel lungo periodo le riforme del mercato dei prodotti non incidono sul tasso di disoccupazione, perché le determinanti l'offerta di lavoro sono in larga parte indipendenti dalla dinamica della produttività. L'evidenza empirica sembra, del resto, dare ragione a questa proposizione. Se si prendono in esame intervalli di tempo sufficientemente lunghi (almeno un quarto di secolo), non si nota alcuna associazione fra dinamica della produttività e andamento della disoccupazione nei Paesi dell'area Ocse.

Il lungo periodo, tuttavia, può essere davvero molto lungo, senz'altro al di là dell'orizzonte temporale tipicamente preso in considerazione dai Governi. Nel frattempo molte cose possono succedere, e non si può escludere che la liberalizzazione del mercato dei prodotti possa anche tradursi in crescita occupazionale.

Vi sono, del resto, alcuni esempi incoraggianti a riguardo, come quello dell'Irlanda, un Paese che ha saputo abbinare nel corso degli anni 80 e 90 una forte crescita della produttività, a sua volta stimolata da misure di deregolamentazione del mercato dei prodotti, con un'altrettanto marcata riduzione della disoccupazione. Quali i fattori alla base del successo irlandese? Un mercato del lavoro flessibile, che permette di spostare manodopera da imprese meno efficienti a quelle a più alta produttività senza costi eccessivi, e fortemente integrato con quello del Regno Unito. La crescita in Irlanda è perciò riuscita ad attrarre manodopera di ritorno, irlandesi precedentemente emigrati nel Regno Unito, contribuendo a tenere basso il costo del lavoro proprio mentre la sua produttività aumentava.

Ma vi sono anche esempi opposti, in cui la liberalizzazione del mercato dei prodotti può avere effetti negativi sull'occupazione, almeno nel breve periodo. Maggiori pressioni competitive si traducono non solo in guadagni di produttività, ma anche in un'erosione delle rendite monopolistiche. Se le rendite sono, come spesso avviene, associate a strutturali eccedenze di personale, la liberalizzazione può spingere le imprese a disfarsi di manodopera in eccesso, facendo così aumentare la disoccupazione. Non è un caso che da noi si guardi con qualche preoccupazione allo stop imposto da Bruxelles alla fiscalizzazione degli oneri sociali al Sud. Si teme che, togliendo i trasferimenti che sono sin qui serviti a compensare la minore produttività delle imprese meridionali in un contesto in cui i differenziali salariali fra Nord e Sud sono molto ridotti, si finirà per far lievitare ancor di più la disoccupazione meridionale. Certo, se la soppressione dei trasferimenti alle imprese del Sud fosse accompagnata a un decen

tramento della contrattazione salariale, le cose potrebbero andare diversamente. Ma è tutt'un altro discorso: come dire che per ripetere il successo irlandese bisogna riformare non solo il mercato dei prodotti, ma anche quello del lavoro.

Se le riforme del mercato dei prodotti non possono sostituire quelle del mercato del lavoro, possono forse almeno facilitarle. Un recente studio, curato, tra gli altri, da Giuseppe Nicoletti, Steve Nickell e Stefano Scarpetta per la Fondazione Rodolfo Debenedetti, mostra chiaramente come le restrizioni alla concorrenza sul mercato dei prodotti siano fortemente intrecciate a misure che riducono la mobilità della forza lavoro.

Il grafico qui a fianco, tratto da questo studio, mette in relazione due misure recentemente elaborate dall'Ocse. Sull'asse verticale si misura il grado di protezione dell'impiego, un indice, crescente negli ostacoli frapposti ai licenziamenti individuali, familiare ai lettori del Sole-24 Ore. Sull'asse orizzontale vengono riportati i valori di un indice del grado di regolamentazione del mercato dei prodotti. Quest'ultimo misura l'intensità del controllo esercitato dallo Stato sul sistema delle imprese (ruolo delle imprese pubbliche, interferenza nella corporate governance mediante partecipazioni a imprese private ed esercizio di diritti di voto, e così via), le barriere legali e amministrative all'avvio di nuove imprese, nonché le restrizioni al commercio e agli investimenti esteri. Anche in questo caso, maggiori restrizioni implicano valori più alti dell'indice.

Come si evince dal grafico, i due indici sono fortemente associati fra loro (il coefficiente di correlazione è pari a 0,76 ed è statisticamente significativo), il che significa che i Paesi Ocse in cui sono più forti le restrizioni sul mercato dei prodotti sono anche quelli che impongono alle imprese maggiori barriere nella gestione del personale. L'Italia, in particolare, si colloca appena al di sopra della linea di regressione, il che significa che le interazioni fra i due tipi di restrizioni spiegano molto bene le "rigidità" del nostro Paese.

Quali le ragioni di queste interazioni istituzionali? Si possono avanzare diverse congetture. Vi sono sicuramente ragioni storiche, tradizioni politico-giuridiche più o meno liberali che hanno condizionato l'evoluzione della legislazione in entrambi i campi. Vi sono poi ragioni legate alla "political economy" delle restrizioni: nelle imprese protette è spesso più forte il ruolo del sindacato (si pensi al caso delle ferrovie) e dunque più forti anche i regimi di protezione dell'impiego.

Il fatto che i due tipi di "rigidità" tendano ad andare a braccetto non significa che la liberalizzazione del mercato dei beni possa rendere più facile le riforme del mercato del lavoro. E vero che i più alti tassi di natalità e mortalità delle imprese, associati alla rimozione di barriere monopolistiche, possono ridurre il potere contrattuale degli insiders (la forte rotazione delle imprese britanniche ha giocato un ruolo importante nella de-sindacalizzazione della forza lavoro nel Regno Unito sotto la Thatcher). Tuttavia, la de-regolamentazione del mercato dei prodotti può anche aumentare la domanda di protezione da parte dei lavoratori, rendendo più difficile la riforma di regimi di protezione dell'impiego troppo rigidi; a meno che si dia una risposta alle legittime preoccupazioni dei lavoratori, sostituendo gli ostacoli ai licenziamenti con la copertura assicurativa fornita dai sussidi di disoccupazione.

Conclusione: si deve per forza di cosa giocare a tutto campo. Le due strategie di riforma, se ben congegnate, possono essere complementari. Certamente non possono essere l'una il sostituto dell'altra. E la riforma degli ammortizzatori sociali può giocare un ruolo importante nel promuovere sinergie fra le due strategie di riforma. Anziché pensare ad altro, sarebbe bene portarla a termine davvero al più presto.

 
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