SAPER DISCUTERE: UNA QUESTIONE DI VITA O DI MORTE
di Cinzia Caporale
Come ci hanno insegnato giuristi ed economisti liberali quali Bruno Leoni o Friedrich von Hayek, lo scopo del diritto è quello di ridurre l'incertezza nelle singole azioni degli individui e nell'interazione tra questi. Perché ciò si realizzi, è necessario che le norme non costituiscano l'esito di decisioni arbitrarie da parte di chi detiene il potere legislativo, ma che viceversa riflettano preferenze e valori della maior et sanior pars dei cittadini. Il diritto, cioè, deve essere più simile a una scienza empirica che a una scienza formale: deve scoprire, attraverso l'attività di giuristi, giudici ed esperti, quali siano le condotte socialmente riconosciute da tradurre in norme giuridiche. Se il diritto venisse semplicemente inventato, e quindi imposto, le regole sarebbero o pregiudizievoli della libertà, oppure finirebbero con il non essere rispettate. In campo bioetico questo pericolo è assai concreto. Spesso le norme giuridiche corrispondono ad anacronistiche proibizioni di comportamenti comunque praticat
i dalla gran parte della popolazione, oppure, ove rispettate, sono una violazione dell'autonomia e del benessere fisico, psichico o economico degli individui interessati.
Tutto questo risulta particolarmente vero per le norme giuridiche che riguardano le decisioni mediche di fine vita che, come risulta da indagini scientifiche, sono assai più frequenti nella pratica clinica di quanto comunemente si ritenga e non sono affatto una questione tipica del nostro tempo ma sembrano accompagnare l'intera storia del pensiero medico. Il progresso della scienza e le trasformazioni sociali hanno quindi solo acuito e reso più eterogeneo il problema.
La complessità di quella che può essere considerata la tematica bioetica per eccellenza richiede un approfondimento che tenga conto della straordinaria articolazione delle "scelte tragiche" cui ciascuno di noi potrebbe essere chiamato. Ci limitiamo a osservare che la minuziosa casuistica semantica usata dagli "esperti" impedisce di fatto la partecipazione democratica a un dibattito che riguarda la fase forse più critica della vita di ciascun individuo. La molteplicità dei termini e la artificiosità dei ragionamenti producono un linguaggio oscuro che non contribuisce al formarsi di un'opinione e che marca una distanza sempre crescente tra la riflessione filosofica e il vissuto del semplice cittadino.
Afferma John Stuart Mill che "la costante abitudine di correggere e di completare le nostre opinioni ponendole a confronto di quelle degli altri, lungi dal generare dubbi e irrisolutezze, è il solo fondamento stabile d'una ragionevole fiducia nelle opinioni medesime". Il confronto delle posizioni - cercando di individuare, scoprire e sfidare i pregiudizi e le assunzioni abituali-, è stata la ratio del seminario "Il senso del vivere e le condizioni del morire" organizzato dal Ministro per le pari opportunità Laura Balbo, cui hanno partecipato tra gli altri Stefano Rodotà, Maria Grazia Giammarinaro, Carlo Alberto Defanti e Sandro Spinsanti. L'enfasi è stata posta soprattutto sulla necessità, come sottolineato da Giovanni Berlinguer, di evitare le "cattive morti" e sull'urgenza di approfondire anche a livello politico e istituzionale una problematica che, dice Laura Balbo, "occorre leggere nella chiave di una popolazione fortemente interessata alla libertà di scelta e ormai responsabilizzata rispetto a questa"
. Certamente, tornando a Mill, "l'uomo può rettificare i suoi errori per mezzo della discussione e dell'esperienza. Non della sola esperienza: occorre anche la discussione, per mostrare come l'esperienza debba essere interpretata". In questo senso, non si può che apprezzare l'iniziativa del ministro, ispirata alla concretezza del confronto e al pluralismo delle posizioni. Tuttavia, occorre ribadire che nel nostro paese il dibattito bioetico non è mai fondato su ricerche che forniscano un quadro realistico di quanto normalmente accade e di quali siano gli orientamenti autentici della società.
Le discipline umanistiche assumono le caratteristiche di scienza quando i loro concetti fondamentali vengono tradotti in elementi passibili di misurazione e di indagine empirica. Quando al posto della soggettività riflettente si sostituisce l'intersoggettività, che implica l'individuazione di grandezze omogenee, rilevabili, trattabili con strumenti statistici. La bioetica, nata come disciplina umanistica, nel modo in cui viene intesa in Italia, è ancora lontana dall'aver assunto i tratti di disciplina scientifica. Le soluzioni bioetiche sono infatti quasi sempre il risultato di un'applicazione deduttiva di problemi dell'etica o del diritto. Con la conseguenza di rinunciare alla misurazione della realtà individuale e sociale e, quindi, di privilegiare le dispute teologiche rispetto alla ricerca di soluzioni razionali fondate sulla conoscenza della realtà. Un approccio moralmente esecrabile quando si tratti della vita e della morte.