Vi propongo questo articolo tratto da NOI (www.gay.it/noi/indice.htm).
Buona lettura.
Sul fondamento liberale dei diritti degli omosessuali
Diritti umani e libertà liberali sono il fondamento, a parole universalmente condiviso, di tutte le nostre battaglie politiche
Tempo fa, quando la Russia si trovava appena all'inizio della sua conversione al capitalismo, al Presidente russo Boris Eltsin che, intervistato dalla Cnn, si era dilungato in drastiche critiche al sistema sovietico, veniva posta questa domanda: "Ma allora, Presidente, lei crede che il capitalismo sia meglio del socialismo?" Eltsin rispose: "La domanda è assurda, perché il capitalismo non c'è più". Infatti, spiegava Eltsin, capitalismo significa sfruttamento feroce dell'uomo sull'uomo, impoverimento progressivo delle masse, caduta tendenziale del saggio di profitto: tutte cose che egli affermava di non aver visto nei suoi viaggi in Occidente. C'era sicuramente in queste affermazioni una buona dose di furbizia elusiva da politicante, ma esse rivelavano anche un fenomeno di cui spesso non si tiene adeguato conto: dopo decenni di indottrinamento, anche le critiche più radicali rivolte a quel sistema, per poter essere comprese prima che condivise dai più, dovevano ancora essere espresse attraverso i soli strumen
ti interpretativi disponibili in quel contesto politico e culturale. Non diversamente, per secoli, praticamente fino all'illuminismo, anche ogni più radicale critica dell'esistente, in Europa, poteva esprimersi solo attraverso i "paradigmi culturali" del Cristianesimo.
Qualcosa di analogo è accaduta circa vent'anni fa, quando sono risorti in gran parte d'Europa i movimenti omosessuali. Non diversamente dagli altri movimenti collettivi portatori di esigenze antiautoritarie, essi trovavano naturale esprimersi attraverso i paradigmi ed il linguaggio di quella che era allora la subcultura dominante nella sinistra europea, cioè una qualche variante della "vulgata" marxista e leninista, di cui si proponevano spesso improbabili ed intellettualmente spericolate riletture in chiave libertaria. L'uso esplicito, o più spesso dato addirittura per scontato, di questa forma di espressione, era probabilmente inevitabile e obbligato, dato che le lotte per la rivendicazione dei propri diritti da parte di minoranze discriminate, non potevano aspirare ad ottenere qualche risultato se non facendo breccia nell'ethos della sinistra. E una costante della storia contemporanea dei paesi occidentali, infatti, che, indipendentemente dalla loro coerenza con le costruzioni ideologiche ufficiali, le ba
ttaglie liberali per i diritti delle minoranze abbiano sempre trovato nelle forze politiche della sinistra il proprio canale privilegiato di espressione nei sistemi politici. Per motivi valoriali, esistenziali, sentimentali e psicologici, prima che ideologici, i protagonisti di tali battaglie liberali sono sempre stati, almeno prioritariamente, gli schieramenti politico-culturali "progressisti", cioè quelli che trovavano la loro iniziale e tradizionale ragion d'essere nel sostenere l'impulso emancipatorio degli "have-nots", di coloro che hanno libertà e diritti da conquistare più che da conservare: socialdemocratici tedeschi, socialisti francesi, laburisti britannici, socialdemocratici scandinavi, democratici americani sono stati in genere indubbiamente più vicini, o meno lontani, dai movimenti per i diritti civili degli omosessuali, dei loro avversari democristiani, gollisti, conservatori, "borghesi", repubblicani, naturali difensori, questi ultimi, dei valori della "tradizione" anche nel campo dei rapporti
familiari, sessuali e privati. (Benché anche all'interno di questi partiti non siano in genere mancati piccoli gruppi di omosessuali impegnati nel tentativo, improbo ma non per questo meno meritorio, di stimolare riflessioni, aprire contraddizioni e quanto meno frenare derive autoritarie e demagogiche). E ancor oggi, quando pure le cose sono molto cambiate sul piano della qualità dei soggetti economico-sociali di riferimento per la sinistra, questa è la situazione per quel che ci riguarda: con più coerenza ideologica da parte della sinistra, dato che ormai tutte le maggiori forze politiche della sinistra occidentale hanno abbandonato o stanno abbandonando le crisalidi ideologiche autoritarie in cui erano avvolte in alcuni paesi. (E con sempre maggiore incoerenza invece per quel che riguarda l'Italia, dove il crollo del marxismo è coinciso, molto più che con la riscoperta del liberalismo democratico da parte di alcuni intellettuali, con un assurdo invaghimento dell'intera leadership della sinistra italiana p
er il cattolicesimo antimoderno, sessuofobo, terzomondista e antioccidentale di Karol Woitjla: ma questo è un altro, lungo e doloroso discorso). Se ne è avuta un'ulteriore conferma nel febbraio del 1994, quando il Parlamento europeo ha approvato la nota risoluzione contro le discriminazioni ai danni degli omosessuali negli Stati membri, con il voto favorevole dei gruppi politici situati alla sinistra del centro, e con quello contrario dei partiti confessionali e di quelli situati a destra del centro.
Ma, all'epoca di cui stiamo trattando, pressoché l'intera sinistra europea, e in particolar modo quella italiana, era ancora schierata in modo compatto sotto le bandiere della vulgata marxista. I promotori dei primi movimenti omosessuali, di conseguenza, lo erano anch'essi e in modo del tutto naturale e scontato.
Gli "omosessuali rivoluzionari" si dipingevano spesso come esempio fra i più tipici di "dannati della Terra", radicalmente e irriducibilmente emarginati dalla società "borghese"; si presentavano cioè come coloro cui era "oggettivamente" connaturato un ruolo rivoluzionario di avanguardia, in quanto meno esposti di chiunque altro ai rischi dell'omologazione e dell'integrazione ai valori dominanti che insidiavano e minacciavano, si diceva, il ruolo rivoluzionario di crescenti settori della classe operaia. E evidente come gli omosessuali cui ci si riferiva in questi termini non potessero essere che coloro (una parte piccola ma appariscente dell'insieme) in cui l'orientamento sessuale permeava di sé così potentemente l'identità personale da divenirne il fulcro: coloro che, più colpiti degli altri dalla repressione e dall'intolleranza (ben più granitiche allora che oggi nei confronti di tutti i comportamenti non conformisti), aderivano, spontaneamente o per un meccanismo di difesa culturalmente determinato, agli s
tereotipi negativi elaborati nei secoli dalla fantasia popolare; coloro, come ho tentato in una precedente occasione di suggerire [1], che, prima ancora di riconoscersi, erano riconosciuti dalla società come diversi e devianti, e che avevano quindi meno da perdere, non solo in termini di immagine sociale, ma anche in termini di identità personale, nel rivendicare tale status di radicale alterità, "riappropriandosene", come si diceva, "polemicamente".
Questa impostazione avallava l'idea, propria della maggioranza repressiva, dell'omosessualità come "trasgressione", "devianza", minaccia per l'"ordine costituito", eversione di valori, anziché come naturale variante del comportamento erotico e affettivo. Di qui, oltreché probabilmente dalla ancora conflittuale e parziale accettazione della propria identità omosessuale, l'idea, anche questa propria della maggioranza repressiva (e ancor oggi della dottrina ufficiale romano-cattolica), che l'omosessualità fosse, più che una condizione data, una scelta volontaria (rivoluzionaria): una scelta non sul modo di espressione della propria condizione omosessuale, bensì sulla sua stessa esistenza ("sono omosessuale perché voglio esserlo; se lo volessi, potrei altrettanto bene essere eterosessuale"). Di qui anche l'idea, altrettanto diffusa, che lo sbocco della "rivoluzione" non dovesse essere tanto la creazione di una società ricca della compresenza pluralistica di diversi stili di vita, ma di una società ancor più omog
enea e totalizzante di quella esistente, senza minoranze, fondata sulla prevalenza del "polimorfismo" sessuale e del tipo ideale dell'androgino: una prospettiva, come si vede, difficilmente allettante proprio e innanzitutto per la grande maggioranza degli stessi omosessuali.
Questa visione delle cose, oltre ad essere intrinsecamente minoritaria, sottostimava da un lato le capacità di adattamento alle mutazioni culturali e la duttilità del sistema economico capitalistico-consumistico; dall'altro, e ancor più, le potenzialità progressive della contraddizione fra i valori formalmente posti alla base degli ordinamenti politici e giuridici liberaldemocratici dell'Occidente e la discriminazione nei confronti degli omosessuali.
Oggi le cose sono profondamente mutate. I più consolidati fondamenti ideologici della sinistra (almeno di quella di ispirazione variamente socialista) sono andati in frantumi. Fra gli omosessuali impegnati in campo culturale e politico nessuno sente la necessità di chiedersi quale sarebbe stata l'opinione di Marx e di Engels sui movimenti gay. Il pragmatismo e un'impostazione "vertenziale" della lotta politica, si sono progressivamente sostituiti alle ingenue proclamazioni ideologiche di un tempo. Un'organica serie di proposte di riforma caratterizza da anni in Italia, per esempio, l'attività dell'Arcigay.
Eppure su questa evoluzione pesa ancora il retaggio del momento fondativo del movimento omosessuale negli anni Settanta: al mutamento delle priorità politiche non ha fatto seguito finora una riflessione comune su quali culture politiche siano maggiormente adeguate ad affrontare questa nuova e più concreta fase di impegno civile. Gran parte delle critiche rivolte ricorrentemente contro la dirigenza politica dell'Arcigay ha probabilmente proprio qui la sua radice (o almeno la sua radice nobile). Certo tutto questo non riguarda soltanto i movimenti omosessuali, ma l'intera sinistra. E sarebbe indubbiamente triste se col mutare della temperie culturale tutti dovessero cambiare opinione (anche venti e più anni fa del resto, in un clima ben più intollerante di oggi nei confronti di tutte le minoranze, alcuni di noi, come chi scrive, non erano né marxisti né leninisti, ma magari liberalradicali). Pare però che sia venuto il momento di chiedersi se ci si possa davvero accontentare del pragmatismo, dal momento che qu
esto sembra produrre afasia culturale, o, quel che è peggio, una ripetizione meccanica, qua e là continuamente affiorante (specie nei momenti di polemica interna), di spezzoni di formule, slogan e "idee-forza" prodotti vent'anni fa e ormai privi di ogni utilità o plausibilità, se mai l'hanno avuta. E proprio il carattere distruttivo, per l'immagine e per l'identità dei movimenti gay, di questo continuo riaffiorare di reperti archeologici a determinare l'urgenza di questa riflessione.
Ci sarebbe un solo modo per poter eludere "pragmaticamente" questo sforzo di efficace e persuasiva articolazione delle domande politiche del movimento gay: dedicarsi a costruire una lobby pura e semplice, cioè un gruppo di pressione capace di imporsi sulla mera base di rapporti di forza politici e/o economici. Ma questa ipotesi si è rivelata impraticabile anche in contesti sociali ben più avvezzi di quello italiano alla pratica dell'associazionismo civile. In realtà, né come elettori (a prescindere dal sistema elettorale e dal grado di concentrazione degli omosessuali in alcuni centri urbani politicamente determinanti), né come consumatori, i gay organizzati avrebbero mai potuto ottenere un qualche risultato, se non agendo contestualmente sul richiamo a valori ampiamente condivisi e sulla contraddizione fra tali valori e le leggi o le pratiche sociali discriminatorie.
Da questo punto di vista, l'evoluzione in atto negli orientamenti culturali politici e valoriali della sinistra (e in certa misura nell'intero ethos politico occidentale) può rivelarsi una carta vincente. Mi riferisco alla riscoperta della politica dei diritti umani come valore, orizzonte ideologico e fondamento stesso di identità etico-politica di tutte le componenti democratiche delle società occidentali; e alla crescente consapevolezza della contraddizione, sempre aperta, fra l'affermazione di tali valori, fondanti dell'ethos politico e dell'identità dell'Occidente liberale, e la concreta pratica sociale quotidiana: una contraddizione mai totalmente azzerabile, anche e soprattutto a causa delle virtualità espansive del campo di applicazione di tali valori a sempre nuovi ambiti, soggetti e problematiche sociali.
Del resto, in modo espresso o tacito, è sempre stato in realtà questo l'orizzonte entro cui le domande politiche dei movimenti gay, e, più ancora, le concrete chances di libera espressione degli omosessuali, hanno potuto essere fondate. Non è un caso, ad esempio in Italia, che il primo partito politico ad aprirsi a tali domande, fin dal loro sorgere, sia stato il Partito radicale, allora essenzialmente un movimento per i diritti civili (anche quando il Fuori - sigla del "Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano", e non solo traduzione dell'invito al "coming out" - si presentava come un movimento di ispirazione marxista). Né è un caso che l'iniziale apertura del Pci alle istanze omosessuali, sul finire degli anni Settanta (soprattutto ad opera di alcuni sindaci di grandi città), sia andata di pari passo con la sua progressiva emancipazione dai vecchi schemi, mentre il Pci ortodosso di qualche decennio prima radiava Pasolini a causa della sua omosessualità - e si pensi all'orgoglio di Giorgio Amendo
la per l'assenza di "debolezze" omosessuali fra i confinati comunisti o alle ingiurie razziste di Togliatti nei confronti di Gide.
Dovrebbe poi essere ormai ovvio che nessuna costruzione socialista, in sé e per sé, potrà mai fornire una solida base ad una politica di accettazione e valorizzazione delle diversità e del diritto alla diversità - a quella omosessuale come a qualunque altra - come del resto attesta l'esperienza degli omosessuali nei "socialismi realizzati", quasi sempre tragica e, anche nei casi migliori, sempre affidata alle precarie e contingenti valutazioni di convenienza del potere politico. Sarebbe anacronistico rinfacciare questa mancata presa di coscienza ai promotori dei movimenti gay degli anni Settanta, ma mi pare che non si possa continuare a ignorare come la sola cultura politica che ha fin qui garantito una qualche forma - per quanto insufficiente - di accettazione, fra le altre, della diversità omosessuale, sia stata la cultura politica che afferma il valore della limitazione del potere e il primato, giuridicamente garantito nelle sue manifestazioni, della coscienza morale dell'individuo nella sua sfera privata
di fronte e contro lo stesso potere di fatto della maggioranza sociale: cioè la cultura politica liberale. Nessun riferimento ai partiti storicamente autodefinitisi liberali (e men che meno agli impostori che da ultimo hanno usurpato questa definizione nel sistema politico italiano). Nessun riferimento, inoltre, a qualsivoglia modello o programma di organizzazione economica: i paesi scandinavi sono, nel significato qui accolto, ampiamente più "liberali" dell'Inghilterra thatcherita (che infatti mai e poi mai accetterebbe tale definizione, incongruamente attribuitale in Italia). Nel senso qui rilevante, la cultura politica liberale è il quadro di riferimento di un amplissimo arco di opzioni politiche e programmatiche anche diversissime fra loro. Una rilettura dei classici di questa tradizione di pensiero, da John Stuart Mill a Constant a Tocqueville, con l'occhio rivolto all'applicazione delle loro teorie ai temi dei diritti civili e della pari dignità sociale degli omosessuali, potrebbe riservare ai neofiti
sorprese strabilianti. Di fronte alla riscoperta di questo filone di pensiero da parte di molti che se ne ritenevano avversari storici (che cos'altro è la centralità del valore attribuito ai "diritti umani"?), è proprio con tale cultura politica che sarà comunque sempre più necessario fare i conti.
Questa nuova impostazione, se accolta, può implicare qualche importante corollario. Uno dei cavalli di battaglia dei movimenti gay è stato per anni il rigetto della profferta di "tolleranza", cui si contrapponeva l'esigenza di una piena "accettazione" dell'omosessualità e del suo pari valore rispetto all'eterosessualità. Nulla da obiettare, evidentemente, sulla sostanza di questa polemica, molto invece circa l'infelice e tendenzioso uso del termine "tolleranza", un uso che non stupisce chi ne ricordi la matrice marcusiana. La tolleranza, nel suo significato illuministico e liberale, sta a indicare la doverosa irrilevanza rispetto al potere (anche rispetto al potere omologante e livellatore della maggioranza sociale: alla "tirannide della maggioranza"), delle scelte ideologiche ed esistenziali e degli stili di vita individuali, in ordine al pieno godimento dei diritti civili e politici e al diritto alla pari dignità sociale; e, ciò che più conta, la garanzia giuridica di tale irrilevanza, ciò che ne esclude i
l carattere discrezionale, superficialmente desunto dalla letteralità del termine "tolleranza". Viceversa, intesa nel suo riduttivo significato letterale, come opposto di "accettazione", essa è così poco legittimamente correlabile alla democrazia e alla tradizione liberali propriamente intese, da essere stata contestata in linea di principio, fin dagli albori del liberalismo europeo, perfino da uno dei più moderati e ambigui fra gli esponenti della Rivoluzione dell'89 ("L'esistenza di un'autorità che ha il potere di tollerare intacca la libertà di pensare, perciò stesso che tollera e che, quindi, potrebbe anche non tollerare", proclamava alla Costituente il Mirabeau, egli stesso notissimo libertino [2]. Questo per non citare le contemporanee e più radicali affermazioni di Thomas Paine).
Un più sostanziale corollario di quanto si è detto riguarda il rapporto fra le battaglie per i diritti civili degli omosessuali e quelle emergenti contro il razzismo. Di questo termine si è probabilmente abusato, comprendendovi sia il razzismo propriamente detto (l'intolleranza nei confronti di individui e gruppi segnati da una reale - nel caso, ad esempio, dei neri - o pretesa - come per gli ebrei - differenza di ordine fisico o genetico rispetto alla maggioranza), sia l'intolleranza verso comportamenti culturalmente determinati (credo sia questo il caso degli zingari). Mi pare invece che, anche senza entrare nel merito delle controversie sulle presunte "cause", biologiche o psicologiche, dell'orientamento sessuale, l'acquisizione dell'inclinazione omosessuale come naturale variante del comportamento sociale, erotico o affettivo (anziché come volontaria scelta "rivoluzionaria" o comunque come individuale manifestazione di anticonformismo), consenta di porre la battaglia per i diritti degli omosessuali su un
piano di forza incomparabilmente maggiore rispetto al passato. La polemica sul razzismo ha infatti posto al centro della riflessione, anche del largo pubblico, il problema del diritto di ogni individuo al pieno rispetto della propria identità e del proprio stile di vita visibilmente diversi da quelli della maggioranza. Milioni di persone sono state spinte a misurare la contraddizione fra i propri pregiudizi istintivi e i più elementari valori di fondo della società liberale. Non a caso, la coscienza dell'analogia fra i problemi politici e culturali posti dal razzismo in senso stretto e quelli posti dall'omofobia tradizionale è già ampiamente acquisita ai movimenti gay in quelle società occidentali in cui la presenza di cospicue comunità di immigrati non bianchi è ormai una realtà sociale consolidata e visibile. Il progressivo affermarsi, anche in Italia, di una società "multietnica, multirazziale e multiculturale" può dunque offrire ai movimenti omosessuali un'importante occasione di ridefinizione e ripensa
mento del proprio ruolo politico e culturale. E, ancor più, un punto di partenza per una presa di coscienza da parte della maggioranza del carattere osceno e non più giustificabile (se non in obbedienza a valori ormai impresentabili) del pregiudizio e della pretesa di discriminazioni nei confronti degli omosessuali. Tale pretesa di discriminazione, essendo determinata da un carattere intrinsecamente proprio dell'identità personale di alcuni cittadini, dovrà sempre più apparire a chiunque non si ponga del tutto al di fuori del contesto di valori civili e politici proprio della democrazia liberale, concettualmente identico a un intento di discriminazione basato sulla razza o sull'appartenenza etnica o di genere.
(Sempreché la nuova società che si va formando non si riveli "multiculturale" anche e proprio nel venir meno del valore, che oggi sembra almeno a parole essere avvertito come universalmente cogente, dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della tolleranza. Nel venir meno cioè, sotto la spinta sinergica di convergenti e riattivati integralismi clericali, autoctoni e importati, di quella coscienza, appena ora timidamente affiorante in Italia, del valore della garanzia delle libertà individuali come fondamento dell'ethos politico occidentale: una coscienza fin qui surrogata dall'incerta assuefazione ai meccanismi formali della democrazia, meccanismi restaurati più che per effetto di reali spinte interne alla società civile, in virtù di una provvidenziale sconfitta militare e del mutuo patto di non aggressione stipulato all'indomani del conflitto dalle due forze politiche maggiori, originariamente estranee nella loro ispirazione a tale sistema di valori. Ma questo è un altro, doloroso discorso).
[Archivio di Mill Colorni]
NOTE
1 "La cultura politica dei movimenti gay", Contatto, gennaio 1990.
2 Cit. in G. De Ruggiero "Storia del liberalismo europeo", Feltrinelli, Milano 1966 (Bari 1925), p. 19.