Il fatto è che oggi per rilevare una società di calcio con un bacino d'utenza pari a quello napoletano è necessario essere imprenditori di dimensione medio-grande. Il patrimonio materiale (giocatori, impianti del centro sportivo) e immateriale (diritti televisivi, marketing ecc.) impone all'acquirente una spesa iniziale di circa 200 miliardi. Gli investimenti per l'attività futura (acquisto di giocatori con contratti pluriennali, organizzazione di uno staff dirigenziale, tecnico e medico) richiedono altri 100 miliardi circa. Inoltre, conoscendo i comportamenti "disinvolti" di Ferlaino, immagino che trasferirà ai nuovi proprietari anche parte dell'indebitamento pregresso (per tutto il suo gruppo si fa la cifra di 218 miliardi). Insomma, un'impresa disposta ad anticipare circa 350 miliardi, con rientri eventuali solo nel lunghissimo periodo, deve possedere fatturati e consistenze patrimoniali non inferiori al migliaio di miliardi, che soli consentono utili di quella entità. A mio avviso non è dunque un problema di cattiva volontà o di mancanza del gusto del rischio, ma è che il tessuto imprenditoriale napoletano e campano non esprime imprenditori di grandi dimensioni (e non si tiri fuori la solita tesi della cordata, che nel calcio non ha mai funzionato).
In secondo luogo: ma che cos'è questa preferenza "etnica", ma quando mai i radicali hanno enfatizzato il localismo e usato le categorie della "colonizzazione" economica? Ricordo agli amici Ernesto e Antonio che le ipotesi di gestione del Napoli da parte di esponenti napoletani negli ultimi anni si sono rivelate solo delle macchiette folcloristiche, e che gli scudetti sono stati vinti con "settentrionali" come Bianchi e Allodi.