posto qui per lui e per Angiolo un articolo di un mio amico, pubblicato da Il Sole 24-Ore un paio di domeniche fa...
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di Carlo Lottieri
Nel 1974, il noto studioso Lester Brown (teorico dello "sviluppo sostenibile") sostenne che l'agricoltura, ormai giunta a quel livello di sviluppo, non sarebbe più riuscita a migliorare la propria produttività. Le cose, come noto, sono andate in modo molto differente grazie allo sviluppo delle biotecnologie e al generale miglioramento dei sistemi di coltivazione. La crescita è stata di tali dimensioni che, secondo quanto afferma l'economista Fred L. Smith, negli anni Settanta e Ottanta la produzione agricola mondiale è aumentata di più del 2% ogni anno e tale tendenza non si è certo interrotta negli anni successivi.
Il fallimento di questa come di altre "profezie di sventura", formulate dall'ecologismo radicale, sono sotto gli occhi di tutti. Eppure ciò non sembra scalfire il prestigio di cui ancora oggi godono le teorie che attribuiscono al mercato l'origine di ogni problema ambientale.
Sono anzi sempre più numerosi quanti, richiamandosi a rischi ecologici più o meno fondati, concordano con Habermas o Beck, teorici di una "politica della globalizzazione" destinata a saldare in un cartello monopolistico i ceti dirigenti nazionali. Quando si parla di ambiente, insomma, l'economia di mercato finisce sul banco degli imputati e le politiche che Hayek chiamò "costruttiviste" vengono costantemente riproposte quali uniche possibili soluzioni ai problemi che più direttamente ci concernono.
In realtà, i drammi ecologici non sono affatto causati dalla libertà economica o dalla modernità tecnologica in quanto tale. Essi non sono effetto del diritto di proprietà o del libero scambio internazionale. La devastazione ambientale, al contrario, è in primo luogo il risultato della collettivizzazione crescente della natura e della regolamentazione asfissiante di ogni attività umana. E stata la progressiva dilatazione dello Stato a esporre l'ambiente a tante minacce. E dato che i movimenti ecologisti e i teorici di questo nuovo welfarism planetario operano per aumentare ulteriormente il potere che gli apparati pubblici esercitano sulla società, essi favoriscono l'affermazione proprio di coloro che più compromettono l'equilibro tra l'uomo e il suo contesto vitale.
Contrariamente a quanto si dice, in effetti, se l'ambiente in cui viviamo è spesso insalubre questo è avvenuto perché sono stati progressivamente accantonati quei principi giuridici privatistici che per secoli hanno limitato la possibilità di danneggiare il prossimo.
Nel diritto romano, in virtù della dottrina delle immissiones, nessuno poteva invadere la proprietà del vicino con fumi, polveri o cattivi odori. Non c'era bisogno di una regolamentazione minuziosa, né della collettivizzazione di ogni ambito: era sufficiente che ai singoli fosse riconosciuto il diritto di tutelare i propri beni perché fosse ostacolato ogni genere di inquinamento. Il cittadino poteva cioè appellarsi al magistrato affinché questi ponesse fine al danno e, se necessario, decidesse l'ammontare dell'indennizzo.
Nel corso degli ultimi secoli, invece, per privilegiare taluni obiettivi considerati fondamentali dalle classi politiche, si è sottratto ai singoli il controllo dei propri beni e si è passati da un'auto-regolamentazione contrattuale, privatistica e localizzata ad una regolamentazione pianificata, pubblica e centralizzata. Invece che tutelare i proprietari, la moderna legislazione statalista ha operato la collettivizzazione dei diritti di proprietà privati connessi all'ambiente aprendo la strada alla devastazione della natura. E quindi paradossale che nella situazione attuale gli ecologisti pretendano di porre rimedio ai guasti arrecati dalla dilatazione degli spazi pubblici e dei poteri di intervento dei politici confidando sempre maggiori prerogative proprio agli apparati legali.
Coloro che auspicano una crescente tutela statale dell'ambiente dovrebbero viceversa considerare che la distruzione degli habitat naturali ha avuto luogo prevalentemente durante un secolo - il Novecento - caratterizzato da una pervasiva presenza di proprietà pubbliche e regolamentazioni minuziose. Ma ugualmente importante è tenere a mente che lo scempio dei beni naturali non è avvenuto in eguale misura nelle società democratiche e in quelle socialiste. In queste ultime, infatti, l'assenza quasi completa della proprietà privata ha fatto sì che la natura abbia conosciuto una devastazione senza paragoni.
Bisogna poi aggiungere che la stessa idea di "risorsa" va ormai ripensata alla luce delle più sofisticate ricerche teoriche. Nei loro studi sulla figura dell'imprenditore, esponenti della scuola austriaca dell'economia quali Kirzner e Rothhbard hanno messo in evidenza come non abbia senso immaginare risorse astrattamente intese, slegate dall'azione imprenditoriale di chi le scopre, le utilizza e le commercia. Fino a quando alcuni individui non lo hanno valorizzato e posto al centro di un complesso lavoro di scambi e negoziazioni, il petrolio era solo un liquido nero che sporcava il deserto. E stata quindi l'azione imprenditoriale che ha dato realtà sociale alla "risorsa-petrolio" ed è quindi proprio la capacità degli uomini di innovare e scoprire mondi sconosciuti che permette di guardare al futuro con relativa fiducia.
Eppure gli ecologisti continuano a ritenere che la libertà sia pericolosa e che lo Stato sia il solo rimedio di fronte a ogni problema. Per loro, ogni proprietario è un potenziale inquinatore che va espropriato e coartato. Di qui l'esigenza di rifiutare il mercato ed intervenire con leggi, tasse ecologiche, pianificazioni urbanistiche e progetti pubblici volti a tutelare quei beni comuni o presunti tali che il capitalismo selvaggio potrebbe distruggere. E un'isteria illiberale, insomma, quella che domina i verdi profeti della catastrofe prossima ventura, al punto che talora sembra impossibile riportare il confronto su un piano razionale.
In netta opposizione con le tesi dell'ecologismo statalista, un numero crescente di studiosi conduce ricerche volte a suggerire soluzioni liberali in materia ambientale. Per merito di ricercatori come Stroup, Baden, Anderson o Julian Simon da alcuni decenni esiste una free-market ecology che vuole riaffermare i diritti di proprietà sull'ambiente tramite vasti programmi di privatizzazioni, in modo da individuare proprietari per quelle risorse naturali che sono oggi sotto il controllo statale: fauna, boschi, fiumi, mari e così via. Come già Aristotele aveva rilevato, quando un bene non è di nessuno esso finisce per essere sottoposto ad un saccheggio irresponsabile o all'incuria, mentre un proprietario ha tutto l'interesse ad assicurare un futuro al bene che è in suo possesso. Una clamorosa riprova di ciò si è avuta nello Zimbabwe quando il governo ha attribuito ai villaggi il possesso dei branchi di elefanti: i pachidermi, divenuti un'importante risorsa (grazie all'avorio e alla possibilità di organizzare safa
ri), sono stati gestiti con oculatezza. Da allora, il loro numero continua a crescere.
Perché i diritti di proprietà possano essere sfruttati nel migliore dei modi, gli ambientalisti liberali sottolineano inoltre l'esigenza che essi siano effettivamente tutelati e che quindi si predispongano ordinamenti atti a garantirne il rispetto. Un risultato ottenibile solo se si assicura la più ampia concorrenza istituzionale mettendo in competizione i "governi locali" e lasciando emergere un vero federalismo.
Alla logica paternalista, tecnocratica e dirigista dell'ambientalismo di Stato, gli ecologisti liberali contrappongono la riscoperta del principio di responsabilità. Per questo essi chiedono che il diritto torni ad essere tale e che le risorse naturali siano sottratte ai burocrati e agli uomini di partito e tornino a essere gestite nel modo più oculato dai loro legittimi proprietari.
In un noto saggio apparso su Science (1968), Hardin evidenziò come, in situazioni tra loro diversissime, la collettivizzazione delle risorse conduca a una serie di fallimenti e cioè alla "tragedy of the commons" (la tragedia dei beni comuni). E proprio sulla scorta di quello studio che i teorici dell'ambientalismo liberale hanno riaffermato l'importanza dei diritti di proprietà e del mercato. Persuasi che la natura - come ogni altra cosa - va riportata nelle mani degli individui perché soltanto loro, se saranno lasciati liberi di agire e se sapranno cogliere tale opportunità, potranno garantirne un futuro migliore.