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Conferenza Rivoluzione liberale
Fischetti John - 17 maggio 2000
un paese senza memoria

peccato che anche Barbara Spinelli non abbia memoria di chi si alzo' in

PArlamento dopo l'intervento di Craxi.

tratto da "la stampa" del 13 maggio 2000

Editoriale Un paese senza memoria

di Barbara Spinelli

Antonio Di Pietro ha pagato duramente le parole dette al Senato contro il

governo Amato e la riabilitazione del socialismo craxiano, il 3 maggio. Forse

troppo duramente, a giudicare dalla maniera smemorata, insofferente, con cui

la classe politica lo ha ascoltato. Forse troppo precipitosamente, se si

guarda l'atmosfera di disfacimento morale che regna nelle istituzioni della

Repubblica attorno alla vicissitudine delle liste elettorali per il

referendum: per giorni e giorni i politici italiani hanno litigato attorno

all'opportunità o meno di depennare dagli elenchi le persone morte o

irreperibili, il cui numero ammonterebbe - secondo alcuni calcoli - a un

milione.

Per quasi una settimana si è assistito a uno spettacolo indigesto, se non

inverecondo: si è giocato con i morti e gli spettri, pur di far mancare il

quorum al voto del 21 maggio, ed evitare che passi lo scrutinio maggioritario.

Si trascurano le leggi elementari del buon senso e della moralità pubblica,

dentro la maggioranza come all'opposizione, pur di salvare la pelle di questo

o quel partitello minacciato dallo svanire della quota proporzionale.

Precisamente questo aveva prefigurato Di Pietro, con il suo attacco alla

coalizione: il ritorno esultante della Prima Repubblica, con la sua

partitocrazia e i suoi reciproci ricatti. Un netto arretramento morale, e nei

confronti di Mani Pulite non già una disposizione alla critica, al giusto

riequilibrio, ma l'azzeramento, l'oblio deciso all'unanimità, e senza

chiarimenti, dall'insieme della classe dirigente

Non si tratta qui di decidere se il senatore del Mugello abbia fatto bene o

male a votare - non senza capricciosità - contro il capo del nuovo governo. Si

tratta di sapere se quel che dice ha qualche fondamento di verità, se le sue

profezie corrispondono a pericoli effettivi. La punizione che gli è stata

inflitta non risponde a tale quesito. Né può esser considerata una risposta il

silenzio, di ghiaccio, che a Palazzo Madama ha fatto seguito alla sua

requisitoria. Pochi giorni dopo, i capi del suo movimento lo espellevano,

senza neppure rispettare le forme e convocare una commissione disciplinare.

Probabilmente Di Pietro ha sbagliato spesso, come parlamentare. E' stato

impetuoso senza dare spiegazioni, è stato avventato nelle condanne, e anche a

proposito del Presidente del Consiglio ha dato prova di contraddittorietà: non

fu sempre inflessibile con Amato, come lo è oggi. Ma la nemesi che si abbatte

su di lui non sembra meritata, e non è del tutto degna di un partito - la

formazione di Prodi e Parisi - che si dice Democratico e che applica

procedimenti leninisti per liquidare politici, e interrogativi, reputati non

solo scomodi ma obsoleti.

Gli interrogativi sono invece più che attuali, e Amato stesso sembra

riconoscerlo: con più modestia, più serietà dei Democratici che tanto

disinvoltamente si sono sbarazzati dell'ex magistrato. Non a caso ha voluto

ripubblicare sul questo giornale un testo - redatto nel '94 - in cui narra il

proprio distacco dai metodi di Craxi, quando diresse il governo nel '92-'93, e

gli sforzi compiuti per spezzare la dipendenza dell'esecutivo e delle imprese

statali dalle segreterie partitiche (La Stampa, 9 maggio).

Il Presidente del consiglio è stato evidentemente colpito, dal biasimo di Di

Pietro. Ha intuito che la questione morale non può esser messa a tacere così,

dissolvendola nella leggerezza della dimenticanza o del disdegno. Ha tenuto a

ricordare qual'è la sua valutazione di Tangentopoli e Mani Pulite: un episodio

considerato da alcuni fazioso, o sprecato, ma ai suoi occhi pur sempre un

tentativo di rigenerazione delle élite italiane. Un'"espressione dell'opinione

pubblica - scrive Amato - vendicatrice dei suoi diritti davanti a un potere

politico non più collocato in una sfera di rispettata sovraordinazione". Non è

tuttavia questo, lo stile con cui i socialisti fedeli a Craxi sono rientrati

nell'area di potere.

Non è l'esempio Amato, che essi paiono seguire. In genere, il loro rientro

avviene senza senso di umiltà, senza impegno a apprendere lezioni dal passato.

In genere tendono a riapparire come vendicatori senza macchia, che finalmente

possono prendersi la rivincita sul principale simbolo di Mani Pulite. E' il

tono prescelto da Ugo Intini, già portavoce di Craxi e oggi sottosegretario

agli Esteri: la sua soddisfazione è stata palese e non priva di ineleganza, di

fronte all'estromissione del senatore . "C'è un significato simbolico in

quello che è accaduto: noi che entriamo al governo e Di Pietro che sbatte la

porta", si è felicitato con i Ds.

Stando alle dichiarazioni di Di Pietro, Boselli avrebbe detto qualche mese fa

ai Democratici che una Casa Comune era realizzabile - fra Socialisti,

Popolari, movimento di Prodi - a condizione che il senatore fosse messo alla

porta. Boselli non ha smentito. Il suo partito non nasconde la propria gioia

maligna, la propria Schadenfreude, per come Mani Pulite è seppellita. Nessuna

autocritica ha accompagnato la sepoltura, nessun esame su come il socialismo

italiano fu certo trattato alla stregua di capro espiatorio, ma degenerò anche

per propria responsabilità e decadimento dei costumi. In Italia il passato è

archiviato in questo modo: a colpi di accetta, inventando biografie

immaginarie, e innocenti, sui propri trascorsi.

Esistono pagine nere nella sua storia, e regolarmente su di esse cade

l'amnesia prima ancora che l'amnistia: un'indulgenza collettiva, negoziata

sottobanco e fondata su vicendevoli ricatti che perpetuano i morbi anziché

curarli con vere fatiche di autocorrezione. L'immagine di Di Pietro a Palazzo

Madama non può non suscitare turbamento, da questo punto di vista. E' immagine

già vista, è un triste déjà vu. L'ex magistrato ha denunciato la partitocrazia

non sconfitta, e puntato il dito sui rischi dell'oblio.

E' seguita una pausa tacita e colma di fastidio, di repulsione. E' stato il

colmo della Nemesi: d'un tratto, sembrava di rivedere la figura di Craxi,

quando alla Camera pronunciò la sua chiamata di correo. Non è semplice

dimenticare quel che disse il capo socialista, il 3 luglio del '92: "Nessun

partito è in grado di scagliare la prima pietra sulla corruzione. (...) Non

credo che ci sia nessuno in quest'aula, responsabile politico di

organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in

senso contrario a quanto affermo: presto o tardi, i fatti si incaricherebbero

di dichiararlo spergiuro." Non è semplice dimenticare il mutismo che seguì:

nessuno si alzò dal sedile per difendere la propria innocenza. Così con il suo

antagonista Di Pietro, mercoledì: stesso mutismo, stesso imbarazzo.

L'espulsione della questione morale avveniva nel chiuso del Palazzo, senza che

una sola parola uscisse dalle bocche della maggioranza o dell'opposizione.

Sicuramente c'è molta ingiustizia, nella sua aggressività contro Amato. E

nessun socialista è personalmente sospettabile di corruzione, nel governo. Ma

è strano come la storia tenda a ripetersi, quando la norma diventa quella

dell'oblio o della connivenza. Il silenzio che accolse Craxi nacque dal

desiderio di sorvolare sulla corruzione di un'intera classe politica, compresi

i comunisti risparmiati dai giudici.

Il silenzio che ha accolto Di Pietro nasce da non dissimili voglie di

trascurare la disgregazione di cui soffre tuttora la politica, e la

Repubblica. La vicenda delle liste elettorali lo conferma. Una fame smisurata

di potere cattiva le menti, e pur di soddisfarla si ignorano regole basilari

della civiltà. Dovrebbe essere ovvio oltre che indiscusso, che i morti non

votino. Non si vede neppure perché si debba legiferare, su un compito che in

qualsiasi normale Paese è svolto da impiegati dei Comuni, senza grandi

pubblicità. Invece in Italia anche i morti diventano argomento di campagne

elettorali supremamente ostili. Berlusconi ha annunciato nei giorni scorsi che

non avrebbe fatto "regali" al governo, ha minacciato di bloccare

l'approvazione della legge facendo mancare il numero legale in Parlamento, e

ha lasciato intendere che questo sarà il suo contegno, quando andrà al

governo: questo spregio delle istituzioni, dei costumi civili.

Ma lo stesso è accaduto nei piccoli partiti della maggioranza di governo. Ed è

proprio qui che si vede come i socialisti e le varie schegge

post-democristiane abbiano imparato poco, dal passato. Fino all'ultimo, essi

hanno cercato di bloccare la legge: da Mastella dell' Udeur ai Popolari ai

Socialisti di Boselli. La legge che vieta di far votare i morti è passata

grazie a una minoranza di centro sinistra - Ds, Verdi, Democratici, Di Pietro

- appoggiata al Senato dal partito di Fini. Non è detto che Di Pietro abbia

ragione in tutto. La quarta assoluzione in appello di Berlusconi, per l'accusa

di tangenti alle guardie di finanza, creerà problemi ai moralizzatori. Ma

senza dubbio il suo dissenso è un rivelatore, un sintomo della malattia del

potere in Italia.

Quest'ultimo non riesce a divenire legittimo, perché le regole elementari

della legge e dell'amministrazione non vengono spontaneamente rispettate.

All'origine di simile mancanza di rispetto c'è uno scatenamento di appetiti

particolaristici di potere, una corsa sfrenata alle poltrone liberata da ogni

disciplina repubblicana. I piccoli partiti della maggioranza non pensano che

alla sopravvivenza, a qualsiasi costo. Berlusconi avendo vinto alle regionali

dichiara ogni giorno illegittime le istituzioni, senza saper aspettare la fine

legale della legislatura. E tutti si tengono prigionieri l'un l'altro,

aggredendosi con vocaboli che sembrano imprestati dalla distruttività dei

brigatisti.

Non si può non concordare con Emma Bonino, che nella sua battaglia per liste

elettorali pulite definisce la coalizione di governo un "aggeggio", ostaggio

dei propri equilibri interni. A meno che Amato non si imponga con forza e voli

molto alto, la situazione non promette rapide guarigioni. La sfrenatezza è

ormai divenuta congeniale a chi ha vinto alle regionali, come a chi sta

annegando. E' difficile che il centro-sinistra prevalga, se non scopre le

virtù dell'autolimitazione oltre che dell'unione. Ma è difficile anche

prepararsi a un'opposizione efficace, se il ricorso a qualsiasi mezzo per

farsi valere diventa un'usanza universalmente condivisa: comune al Polo di

Berlusconi e a buona parte del centro sinistra.

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--- MMMR v4.80reg * Gutta cavat lapidem

 
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