Da Repubblica (pag.51), mercoledì 31 maggio 2000
Di Furio Colombo
Un giorno del 1960 ero a Montgomery, in Alabama, con Martin Luther King. Siamo scesi insieme da una macchina nel punto in cui una folla di neri lo aspettava per guidare una marcia. Io lo stavo intervistando, lo avrei seguito fino al luogo in cui la polizia e la Guardia nazionale di quello Stato erano pronti a fare barriera con gli idranti e i cani lupo. Ma alcuni poliziotti erano già appostati all'interno di una scuola. Sono usciti, lo hanno circondato e ammanettato. Alcuni giorni
prima King era stato condannato per "comportamento disordinato", e avrebbe dovuto scontare un mese di prigione.
King intendeva consegnarsi dopo la marcia. Voleva dirigersi verso la prigione alla testa del corteo di dimostranti. Ma gli agenti, con le armi in pugno come per la cattura di un criminale, lo avevano preceduto. All'ufficiale che si è accostato per allontanarmi ho chiesto se era possibile il pagamento di una cauzione. Ha risposto: "E sempre prevista. Cento dollari". E ha fatto il gesto di porgere la mano aperta. Ho offerto la banconota, ma King si è quasi liberato dai due poliziotti che lo tenevano per le braccia. Di solito parlava sottovoce, lentamente. Ma ha detto con irruenza: "Non bisogna farlo. Questa non è una questione giudiziaria. E una questione di libertà. Noi siamo liberi, ma la libertà ci viene negata. Per questo facciamo marce, corriamo rischi, andiamo in prigione. Per questo siamo qui, donne e uomini liberi, li vede?". Ha indicato le migliaia di neri che stavano per
iniziare il corteo. Ha gridato per loro: "We shall over come" (tradurrei: ci riusciremo) e si è lasciato portare via.
Ho ripensato a questo, leggendo il libro di Eric Foner Storia della libertà americana (Donzelli, pagg. 450, lire 60.000), un modo straordinario e originale di scrivere la storia degli Stati Uniti. Me lo ha ricordato, nel saggio introduttivo di Alessandro Portelli, il punto in cui l' autore racconta del
mercante di schiavi che dice: "Questo è un paese libero. Questo schiavo è mio e ci faccio quello che mi pare".
A me è accaduto di trovarmi all'altro capo dell'estrema tensione del concetto di libertà americana, il punto in cui il valore della libertà si congiunge con l'idea di uguaglianza.
"E un'idea paurosa e affascinante insieme", scrive Portelli. E infatti questo libro propone un viaggio pauroso, perché attraversa manifestazioni drammatiche, testimonianze tragiche dell'affermazione di libertà: libertà di possedere, di invadere, di sottomettere, di distruggere, di "allargare i
gomiti", la libertà che ha segnato l'epoca della frontiera.
Ma è anche la narrazione di un processo di costruzione moderna e di massa del diritto di libertà che ha fatto respirare e crescere la civiltà americana, che ha fortemente segnato l'evoluzione democratica del resto del mondo.
Ciò che Eric Foner ci ricorda è che, negli Stati Uniti, l'universo di tutte le forme possibili di aggregazione umana è nato di nuovo, Nat Turner come Spartacus, schiavi e uomini liberi, libertà senza confini (dunque affermazione illimitata dell'uomo libero) e "Città sulle colline", un impegno morale che definisce l'ambito della libertà esaltandone la "eccezionale" responsabilità verso gli altri.
Martin Luther King avanza disarmato alla testa del suo popolo libero. Il governatore George Wallace schiera la Guardia nazionale dell'Alabama per difendere la libertà dei bianchi che rifiutano l' integrazione - cioè l'eguaglianza - in nome della libertà.
Un canto si leva dalle due parti: "This Land is my Land" (questa terra è la mia terra). Avrebbe potuto essere l'inno di una guerra mortale. Alla fine, ha unito. Alla fine George Wallace ha detto (mi ha detto, in un'intervista nella sala vuota del suo parlamento, dopo essere stato rieletto governatore dell'Alabama col voto dei neri): "L'America aveva ragione. Io avevo torto".
Uso questa frase perché introduce una parola-chiave del discorso americano (e di quello di Foner) sulla libertà: "America", parola-sogno, parola-mito, parola- codice.
Dal contesto del libro di Foner si capisce che "America" non è un luogo, è un destino.
La definizione non significa esaltazione. Non vuol dire che la città nasce sulle colline, secondo la definizione dei predicatori protestanti. Vuol dire che deve essere costruita sulle colline,
ovvero un po' più in alto, un po' più giusta, dunque un po' più libera.
All'inizio, il viaggio ci porta a sostare dove "la libertà è mia".
Non devo neppure sapere che il limite è la libertà dell'altro. Come gli orizzonti del mondo nuovo e sconosciuto, la libertà non ha limiti. L' incontro con la realtà spaventosa della schiavitù ha questo enorme valore. Costringe ad affrontare il problema dell'eguaglianza di ogni (altro) essere umano, prima ancora che tale questione venga posta dal rapporto ricchezza-povertà.
Se il confronto con la schiavitù costringe alla prima grande tappa del ripensamento e della ridefinizione di libertà, il problema si ripete in modo altrettanto grave nello scontro
sociale. Per l'America che definisce la libertà come controllo sulla realtà e dunque come possesso di cose, non è immediatamente facile il passaggio alla accettazione della libertà-uguaglianza del povero. Non si tratta di rinunciare a frazioni di privilegio. Si tratta di ricostruire l'identità dell'uomo
libero. Libero in quanto creatura fatta uguale dalla natura o da Dio, non perché titolare di diritti materiali che rappresentano e incarnano il diritto morale.
Qui si incontra uno snodo di grande importanza sia per il libro di Foner sia per il ritratto della democrazia americana che questo libro offre. La libertà, ci viene detto (anche nella parte, di estremo interesse, in cui si affronta l'ingresso delle donne nella vita pubblica e politica, fin dall'inizio del secolo) non si espande, quando il diritto di uno passa anche ad un altro. In quell'istante cambia tutta la libertà, e cambia la libertà di tutti.
Partono di qui, nella storia contemporanea americana di cui il libro di Eric Foner è un ritratto attendibile e utile, tre percorsi.
Il primo, forse il più aspro e contorto perché si imbatte nella difficoltà americana della "libertà come proprietà", è il passaggio dal diritto personale di libertà al diritto economico di uguaglianza.
Qui ci sono scontri duri come quelli per l'emancipazione degli schiavi. Infatti è in gioco il nucleo di pensiero su cui si fonda il concetto originario della libertà americana. Ma si ambienta e
si spiega qui, anche una straordinaria circostanza della vita americana, nonostante i suoi dislivelli e i suoi scontri: il marxismo, e la lotta di classe, non hanno mai abitato la terra americana. La ragione è che niente, neppure l'uguaglianza, si può scambiare con il valore della libertà. E poi perché un
capitalismo non fondato su privilegi ereditari trova più conveniente e meno costoso allargare l'area dei diritti individuali e far coincidere un minimo di benessere con la piena titolarità del diritto.
La grande depressione degli anni Trenta è la sfida peggiore per questo straordinario aggiustamento pragmatico. Ma al di là del guado più duro della storia sociale americana, c'è lo straordinario ponte del New Deal, che compensa la scarsezza di benessere proclamando con forza il legame
inevitabile fra libertà e uguaglianza.
Un decennio più avanti c'è l'altro grande patto di cittadinanza-libertà, l' altra grande dimostrazione che l'estensione della libertà produce cambiamenti radicali. E il movimento per i diritti civili di Martin Luther King.
Utilizzando fino in fondo i percorsi della coscienza morale e del sentire politico americano, King sposta tutto il peso e tutta l'attenzione politica su ciascuna persona che porta in sé il
senso americano della vita soltanto quando è libero. E dichiara che ciascuno (dunque anche i neri per i bianchi) con la sua dignità di persona libera è garante della dignità e libertà degli altri.
E giusto dire che il movimento per i diritti civili è una costruzione mai veramente compiuta, un "work in progress" senza fine, e anzi soggetto a brutte stagioni di smantellamento o almeno di vandalismo. Ma è inevitabile ammettere che la forza infusa al movimento da King e da coloro che hanno militato con lui, ha la qualità strana e misteriosa di rigenerarsi sempre, anche attraverso duri momenti di conflitto (il caso Rodney King, picchiato selvaggiamente da poliziotti bianchi)
fino a rimettere in moto la giustizia ingiusta e a ricostruire le parti distorte da cattivi politici o da cattivi magistrati.
Da questo ramo della costruzione americana della libertà è nato l'altro, che riguarda non solo gli Stati Uniti ma il mondo, e che ha cambiato, un po' dovunque, la visione del rapporto tra istituzioni e individui. E il principio dei diritti umani. Definizioni di un'area invalicabile di integrità morale e fisica, che ha prodotto una serie di conseguenze sensazionali, dalla missione delle Nazioni Unite immaginate - soprattutto all'inizio - come agenzia dei diritti umani nel mondo, fino alla faticosa costituzione dei tribunali internazionali per i crimini contro l'umanità.
Il viaggio di Eric Foner nella storia della libertà americana non finisce qui. E un argomento che ha una grande densità al suo centro e che diventa, dunque, spunto di tante altre esplorazioni, scoperte, dilemmi piuttosto che un cammino ordinato. Per esempio, che rapporto c'è tra patriottismo e libertà? Che rapporto c'è fra libertà americana e libertà di tutti? Dove si situa, come si ambienta il culto della bandiera con quello della libertà individuale? E il rapporto con Dio? Forse qui c'è uno dei passaggi più complessi e interessanti della storia americana. Nella religione civile di quel paese è
Dio che libera dal dogma, è Dio che conduce al rispetto dell'altro, e anche della religione dell'altro. E Dio che rende laici anche gli americani intensamente credenti.
Non è una garanzia da poco, per coloro che lavorano, decennio dopo decennio, nel cantiere sempre aperto della libertà americana.